domenica 21 febbraio 2016

MI RACCONTA UN RACCONTO








GIULIA

Cresciuta a schiaffi e imprecazioni, la piccola Giulia ha pochi spazi per sé e troppe domande da fare alla vita, a chi l’ha messa al mondo e poi abbandonata, all’uomo cattivo dei suoi incubi che la tormenta tutte le notti, alla zia che l’ha adottata, alla sua faccia tormentata e triste di malattia acuta. Epilettica, stonata, sempre triste, fa pause lunghe tra le parole che pronuncia, fissando l’orologio nella sala d’attesa del reparto pediatria.
Composta sulla panca e con la schiena dritta. Resta ferma la bambina. C’è un uomo, in camice bianco, che ogni giorno le regala una caramella. E lei ritorna puntuale ogni mattina perché di quel dolce dottore non può fare a meno. Come non può rinunciare a quell’ospedale, alle camere, ai corridoi, alle barelle sempre piene, al rumore dei distributori di caffè, alle guardie che sorvegliano l’ingresso, ai pasti caldi con tanto formaggio, all’infermiere Mario e alla caposala di Pavia. Giulia deve stare ferma in quell’edificio quadrato e bianco perché la zia è morta e lei non ha più nessuno. La piccola è rimasta in corsia per due giorni, sperando che la povera vecchina si salvasse. Poi la zia lascia questo mondo e lei perde la sua libertà. Da ormai due mesi Giulia vive in quell’ospedale. È in attesa che qualche parente si ricordi di lei o che il giudice la affidi a una nuova famiglia.
Dorme in una piccola stanza ricavata dal ripostiglio di un vecchio ufficio al primo piano. Piccolo il comodino. Piccoli l’armadio, il tappeto, la seggiola e le pantofole colorate. C’è un letto di misure incerte, che pende da un lato. Nessuna finestra a fare luce. Solo un brutto neon.   
Ha pochi ricordi dei genitori. La sua memoria li ha cancellati senza volere. La zia diceva che erano morti in un incidente d’auto. Tentava, poverina, di alleggerire il peso del dolore alla bambina. Perché una verità atroce c’è. E per Giulia non è il momento di affrontarla. Genitori spariti. Stesi in sacchi neri della polizia. Genitori dediti al gioco del coltello. Pugnalo io. Pugnali tu. E poi non pugnalano più.   
Giulia adesso non parla perché si rifiuta. Forse uno schiaffo l’ha ammutolita. E solo sgranando gli occhi riesce a farsi capire. Rotea le pupille per una carezza o piange con una sola lacrima per farsi abbracciare. Piccola e indifesa, sembra un ramoscello calpestato con cura. Proprio col piacere di fare del male.
Giulia di dolore ne ha fin troppo. Potrebbe venderlo al mercato o spacciarlo a pacchetti. E gliene resterebbe una scorta tale da colmare interi serbatoi.
Odio a fette. Odio bucato. Odio diviso da altro odio. In Giulia c’è una variegata dose d’ansia per tutte le ragioni negative di questo mondo. Picchiata, sì. Abusata, sì. Abbandonata, sì. Cose che non dovrebbero toccare una bambina e che invece la piegano fino a spegnerle il sorriso e lacerare la parola.
Povera Giulia, vittima di genitori che non frenano gli istinti. Vittima di vigliacchi adulteri e indemoniati. Vittima di chi non l’ha mai voluta. E lei ogni giorno lì in piedi a ricordare che esisteva con un sorriso semplice tenuto su da due buffe guance.
Loro non vedono Giulia. Questi genitori non la vedranno mai. E si arrabbiano se lei si fa notare. Hanno mani sempre tese che non carezzano. Hanno solo epiteti che offendono. E mai una parola che possa essere d’amore.
Poi arriva la zia. E vende la casa assieme ai mobili. Dei genitori di Giulia restano poche foto, alcuni reperti raccolti dalla polizia e una pianta con petali viola.
Giulia vive con la zia e resta seria. Non sorride più la piccola. Non si è ancora ripresa. Sì, perché lei il gioco dei coltelli lo conosceva bene. Tutte le sere, dopo cena, era quello il passatempo preferito dei suoi genitori che la facevano assistere senza problemi. Per imparare. Così un domani avrebbe potuto sistemare il marito con pochi sforzi. A modo loro, le stavano insegnando qualcosa.
Giulia ha osservato il gioco con attenzione. Ha colto ogni mossa dei due avversari. Fino alla fine. Quando il sangue a schizzi le ha sporcato il vestitino profumato.
Giulia non odia i coltelli ma chi li impugna. È convinta che per ogni cosa ci sia un posto. E un coltello va custodito nel ceppo o in un cassetto. Il fianco della madre no. Quella non era la custodia adatta. E sembra che anche la madre ne fosse convinta; ma quando se n’è accorta ormai, era troppo tardi per reclamare.
I corpi si afflosciano e Giulia li osserva. A fatica cerca di accostarli senza riuscirci. Allora prova a sfilare quei coltelli, ma è impossibile. Si stende in mezzo ai genitori, come se fossero nel loro letto. Si addormenta sperando che al risveglio tutto quel sangue sia sparito.
Via i coltelli. Via le urla. Passa la notte, ma il buio non cancella nulla.
All’alba qualcuno la sveglia e prendendola in braccio la porta via. È un uomo alto che le sorride. La abbraccia in una copertina di lana. Giulia beve qualcosa di caldo e si lascia accarezzare il viso ancora teso.
Spera che quell’uomo sia il regista di un film immaginario che adesso richiamerà in scena i suoi genitori per recitare ancora.
“Lei non sa e non lo dovrà mai sapere” ripete a memoria sua zia quando viene a prenderla. Convinta di poter custodire il segreto all’infinito. O aspettare l’età giusta per dirle tutta la verità. Perché il trauma azzererà i ricordi di Giulia per molto tempo. E poi torneranno lentamente e sarà nuovo dolore.
Morta la zia, sparito il segreto. Adesso resta una panchetta fredda e la caramella quotidiana. Si accontenta Giulia. Qui nessuno urla o la picchia. Non ci sono nemici da cui nascondersi. Può sentirsi sicura. Il gioco dei coltelli è ormai lontano.
Troveranno una nuova famiglia anche a te vedrai.

PAOLO GIANNATTASIO



2 commenti:

  1. "Giulia non odia i coltelli ma chi li impugna". Un vissuto tragico raccontato con delicatezza e nitore stilistico. Per paradosso, certo. Con tatto. E qualcosa che ti s'incolla all'anima, qualcosa di certo e presente.

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