GIULIA
Cresciuta
a schiaffi e imprecazioni, la piccola Giulia ha pochi spazi per sé e troppe
domande da fare alla vita, a chi l’ha messa al mondo e poi abbandonata,
all’uomo cattivo dei suoi incubi che la tormenta tutte le notti, alla zia che
l’ha adottata, alla sua faccia tormentata e triste di malattia acuta. Epilettica,
stonata, sempre triste, fa pause lunghe tra le parole che pronuncia, fissando
l’orologio nella sala d’attesa del reparto pediatria.
Composta
sulla panca e con la schiena dritta. Resta ferma la bambina. C’è un uomo, in
camice bianco, che ogni giorno le regala una caramella. E lei ritorna puntuale
ogni mattina perché di quel dolce dottore non può fare a meno. Come non può
rinunciare a quell’ospedale, alle camere, ai corridoi, alle barelle sempre
piene, al rumore dei distributori di caffè, alle guardie che sorvegliano
l’ingresso, ai pasti caldi con tanto formaggio, all’infermiere Mario e alla
caposala di Pavia. Giulia deve stare ferma in quell’edificio quadrato e bianco
perché la zia è morta e lei non ha più nessuno. La piccola è rimasta in corsia
per due giorni, sperando che la povera vecchina si salvasse. Poi la zia lascia
questo mondo e lei perde la sua libertà. Da ormai due mesi Giulia vive in
quell’ospedale. È in attesa che qualche parente si ricordi di lei o che il
giudice la affidi a una nuova famiglia.
Dorme
in una piccola stanza ricavata dal ripostiglio di un vecchio ufficio al primo
piano. Piccolo il comodino. Piccoli l’armadio, il tappeto, la seggiola e le
pantofole colorate. C’è un letto di misure incerte, che pende da un lato.
Nessuna finestra a fare luce. Solo un brutto neon.
Ha
pochi ricordi dei genitori. La sua memoria li ha cancellati senza volere. La
zia diceva che erano morti in un incidente d’auto. Tentava, poverina, di alleggerire
il peso del dolore alla bambina. Perché una verità atroce c’è. E per Giulia non
è il momento di affrontarla. Genitori spariti. Stesi in sacchi neri della
polizia. Genitori dediti al gioco del coltello. Pugnalo io. Pugnali tu. E poi non
pugnalano più.
Giulia
adesso non parla perché si rifiuta. Forse uno schiaffo l’ha ammutolita. E solo sgranando
gli occhi riesce a farsi capire. Rotea le pupille per una carezza o piange con
una sola lacrima per farsi abbracciare. Piccola e indifesa, sembra un ramoscello
calpestato con cura. Proprio col piacere di fare del male.
Giulia
di dolore ne ha fin troppo. Potrebbe venderlo al mercato o spacciarlo a
pacchetti. E gliene resterebbe una scorta tale da colmare interi serbatoi.
Odio
a fette. Odio bucato. Odio diviso da altro odio. In Giulia c’è una variegata
dose d’ansia per tutte le ragioni negative di questo mondo. Picchiata, sì.
Abusata, sì. Abbandonata, sì. Cose che non dovrebbero toccare una bambina e che
invece la piegano fino a spegnerle il sorriso e lacerare la parola.
Povera
Giulia, vittima di genitori che non frenano gli istinti. Vittima di vigliacchi
adulteri e indemoniati. Vittima di chi non l’ha mai voluta. E lei ogni giorno
lì in piedi a ricordare che esisteva con un sorriso semplice tenuto su da due
buffe guance.
Loro
non vedono Giulia. Questi genitori non la vedranno mai. E si arrabbiano se lei
si fa notare. Hanno mani sempre tese che non carezzano. Hanno solo epiteti che
offendono. E mai una parola che possa essere d’amore.
Poi
arriva la zia. E vende la casa assieme ai mobili. Dei genitori di Giulia
restano poche foto, alcuni reperti raccolti dalla polizia e una pianta con
petali viola.
Giulia
vive con la zia e resta seria. Non sorride più la piccola. Non si è ancora
ripresa. Sì, perché lei il gioco dei coltelli lo conosceva bene. Tutte le sere,
dopo cena, era quello il passatempo preferito dei suoi genitori che la facevano
assistere senza problemi. Per imparare. Così un domani avrebbe potuto sistemare
il marito con pochi sforzi. A modo loro, le stavano insegnando qualcosa.
Giulia
ha osservato il gioco con attenzione. Ha colto ogni mossa dei due avversari.
Fino alla fine. Quando il sangue a schizzi le ha sporcato il vestitino
profumato.
Giulia
non odia i coltelli ma chi li impugna. È convinta che per ogni cosa ci sia un
posto. E un coltello va custodito nel ceppo o in un cassetto. Il fianco della
madre no. Quella non era la custodia adatta. E sembra che anche la madre ne
fosse convinta; ma quando se n’è accorta ormai, era troppo tardi per reclamare.
I
corpi si afflosciano e Giulia li osserva. A fatica cerca di accostarli senza
riuscirci. Allora prova a sfilare quei coltelli, ma è impossibile. Si stende in
mezzo ai genitori, come se fossero nel loro letto. Si addormenta sperando che
al risveglio tutto quel sangue sia sparito.
Via
i coltelli. Via le urla. Passa la notte, ma il buio non cancella nulla.
All’alba
qualcuno la sveglia e prendendola in braccio la porta via. È un uomo alto che
le sorride. La abbraccia in una copertina di lana. Giulia beve qualcosa di
caldo e si lascia accarezzare il viso ancora teso.
Spera
che quell’uomo sia il regista di un film immaginario che adesso richiamerà in
scena i suoi genitori per recitare ancora.
“Lei
non sa e non lo dovrà mai sapere” ripete a memoria sua zia quando viene a
prenderla. Convinta di poter custodire il segreto all’infinito. O aspettare
l’età giusta per dirle tutta la verità. Perché il trauma azzererà i ricordi di
Giulia per molto tempo. E poi torneranno lentamente e sarà nuovo dolore.
Morta
la zia, sparito il segreto. Adesso resta una panchetta fredda e la caramella
quotidiana. Si accontenta Giulia. Qui nessuno urla o la picchia. Non ci sono
nemici da cui nascondersi. Può sentirsi sicura. Il gioco dei coltelli è ormai
lontano.
Troveranno
una nuova famiglia anche a te vedrai.
PAOLO
GIANNATTASIO
Bello
RispondiElimina"Giulia non odia i coltelli ma chi li impugna". Un vissuto tragico raccontato con delicatezza e nitore stilistico. Per paradosso, certo. Con tatto. E qualcosa che ti s'incolla all'anima, qualcosa di certo e presente.
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