venerdì 28 novembre 2014

POIEIN : L'arte della poesia





DAVIDE


Non si sa quando 
entrò il giovane
nel sonetto
estrapolato da un giocoliere
che masticava basilico
e luce filava dalle dita
Entrò 
attraversando ignaro
una tenue tremante barriera
d’aria calda come murmure acqua
in un faggeto
sulle rive del giorno
trapezoidale
dove luna e sole
s’aggiustavano in cielo 
senza competere in fertilità e splendore
senza cancellarsi a vicenda
Il ragazzo portava un nome
sul suo corpo di angelo
e se lo pronunciava
ecco che volteggiavano
i colori guizzanti di un 
cuore indipendente
ma anche scaturivano precisi
i serpenti buiastri 1) dei dolori
d’infanzia
le delusioni di promesse sfregiate
la clessidra che fiele gli aveva mescolato 
alla sabbia nel tempo più bello
Il giovane reggeva sulle spalle
un mantello screziato di pesanti ricordi
ma le mani impugnavano un rotolo
di poesie più affilate di cesoie
più seducenti del fianco d’una vergine
senza la malizia 
lo sciabordìo mielato 
lo sfracellante prezzo 
delle sirene
Figlio lo chiamavano alberi in tondo
severi e gentili  
Figlio lo salutavano i ruscelli
passo a passo trascinando ghiaia corrusca
Figlio un’aquila vegliava trafiggendo le nubi
Figlio gli contava un elfo impalpabile i segni addosso
Fermati gli ordinava perentoria sua madre 
bella e sottile
la ferula pronta fra le mani dolci e crudeli
Ed egli si fermò 
solo per lasciarle il dono
d’una benedizione e una coppa di margherite
sbocciate presso la fonte di Lesmòșine 2)
dopo aver respinto la tentazione di Oreste 
Respìrale le raccomandò Màsticale
Il vento lo ribattezzò
una foglia gli solleticò dolce una spalla
il desiderio Figlio gli depose un bacio indelebile
Scalzi i suoi piedi avevano superato leghe
di solitudine urticante ma adesso esplodevano
fiori carnali tra dormienti distese 
di papaveri appassionati che solo lo scompiglio
delle ninfe arboree potevano ridestare
tra risate come ali d’oro sorte dal profondo
d’una foresta vicina alle pupille 
lontana una vertigine
Al ragazzo fu chiesto d’indossare una tunica
di coraggio gli fu posto tra le braccia
uno scudo di parole moltiplicanti
mostrato un guardaroba di anime da rivivificare
tragiche melanconiche ilari portentose
ed egli oliò le ruote di Tespi 3)
Crebbe in potere e in bontà
Superò nelle albe a venire
aspre o morbide che fossero
il baratro sopra fili tesi
sicuro del suo equilibrio
puro in un canto che mai più
mai più mai più
da allora
fu pianto


ARMANDO SAVERIANO




NOTE
  • Buiastri: neologismo da buio/bui, in cui il suffisso astro/astri sottolinea il carattere maligno e ambiguo delle memorie dolorose.
  • Lesmòșine: l’oblìo che cancella i ricordi del male fatto o subìto, grazie alle acque della fonte del fiume Lete.
  • Tespi: drammaturgo greco, itinerante secondo Orazio (che su di lui scrive 500 anni dopo), che nel 534 a.C. creò il dramma primigenio, il quale si sarebbe sviluppato interamente solo intorno al 500 a. C. grazie all’introduzione del secondo attore, ad opera di Eschilo.



Davide Cuorvo






lunedì 24 novembre 2014

DECIMA TAPPA PER IL VERSIPELLE




Raggiunge il traguardo della decima edizione, l’ultima per il corrente anno, la rassegna istituita dall’associazione Logopea grazie alla volitività di Armando Saveriano, affiancato da Davide Cuorvo, Mena Matarazzo e dall’eclettico Raffaele Stella. Giuseppe Vetromile introduce la poetica di Floriana Coppola e quella di Ketti Martino, scrittrici vivificanti coinvolte nella pars construens che trasfonde nell’opera il suo autore, nomade e passeggero di un cammino che accetta la sfida orizzontale alla ricerca di forme e soluzioni vibranti di energia e di fattualità, senza badare (come ogni saggio scrittore dovrebbe imporsi) agli allettamenti della verticalità o alle chimere del Parnaso. Rosa Battista è poetessa occasionale, autrice di un unico libro di belle poesie in vernacolo napoletano, che ama recitare con quell’immediatezza ruspante che sarebbe apprezzata da Peppino, Macario e Totò. Ciro Alvino è più prosatore che poeta, ma non disdegna il lirismo, che del resto fa capolino nel romanzo “La Gelsa” (De Angelis ed.) e nelle pagine del nuovo libro in fieri “Il Patto”. Rosa Di Zeo torna con le sue preveggenze e il suo inconscio, paladina dell’intensità del gesto poetico, che attraversa passaggi luminosi, radure di raccoglimento quasi a volte solipsistico, pronte a irraggiarsi in paesaggi complementari all’umore e alla dimensione salvifica della fiducia nella parola. Gradito ritorno quello di Rita Pacilio, con la sua Elettra sensoriale, incuneata in un destino chiuso nella vendetta; quasi un poemetto e una confessione, scandita col ritmo ipnotico della sua recitazione anime che incontra i moti più impetuosi e sussultorii dell’Oreste di Jean-Paul Sartre, interpretato dalla fusione di due giovani talenti (Antonio Mazzocca e Davide Cuorvo). Michele Amodeo sguscia dalle babbucce e dal pretestuoso mal di denti della madre ruccelliana, che nessuna figlia si augura di avere, nell’ode amorosa e sensuale del briccone Catullo, capace di moltiplicare all’infinito i baci alla sua Lesbia, incurante dei mormorii oziosi e invidiosi delle cariatidi e delle vecchie bertucce. Christian Cioce è cresciuto attorialmente, proprio perché il teatro è una potenza liberatoria, affrancatrice e rivelatrice eccezionale. Vale più di mille terapie costose e inutili. Mena Matarazzo studia Dürrenmatt (“La visita della vecchia signora”), Pirandello (“Così è, se vi pare”), La Rocca (“Scene Augustee”) con la dedizione e l’impegno che ne contraddistinguono la totalizzante passione. L’incontro è alle 16.30, presso i locali del Centro Sociale “Samantha Della Porta”, in Città, giovedì 27 p.v.

mercoledì 19 novembre 2014

PISTE BIZZARRE PER AUTORI ECCENTRICI


Miserie e grandezze del postmodernismo





Ivan Pozzoni e Ambra Simeone sono i brillanti curatori di un’antologia narrativa, per i tipi di deComporre (nella collana Whatever, graficamente curata da “Condor”, al secolo Max Condreas), che
allinea sul tappeto verde e minato della prosa breve ventuno estri più o meno disinvolti: Erica Alberti, Gianfranco Bosio, “Bsa”, Maria Grazia Casagrande, Sandra Cervone, Andrea Corona, “Eroe Semantico”, Gaia Ginevra Giorgi, Lucio Giuliodori, Lucia Grassiccia, Corrado Iacotucci & Luciano Ruggieri, Giulia Mattioli, Giuseppe Morgillo, Teresa Nastri, Valerio Gaio Pedini, Uga Ecle Ragno, Susanna Rota, Armando Saveriano, Francesca Terzoni, Claudia Vazzoler.
Il comune denominatore è il bizzarro, il tasto del grottesco, stemperato o raggrumato che sia, inaspettato e/o spiazzante; ma non mancano recrudescenze “cannibali”, minimalismi, verismo. Stili che sorpassano la misura, pagine estenuate che si troncano bruscamente, o che spalmano ipotesi sull’immaginario postmoderno del lettore, spesso basito o corrucciato dagli sbandamenti narrativi, da porte che sbattono o lasciano spiragli, o che docilmente si accostano. Le vicende possono corteggiare l’anti-utopia, lo spleen esistenziale che diegetizza i ritmi, ribalta la noia in distimia, mentre i caratteri distillano labilità ed egoismi, ossessive pulsioni o ripropongono vecchi detestati modelli; anche il kitsch del déjà-vu-lu-écouté dà la sua botta di vernice, mentre trafelano le incomprensioni, trionfano le lontananze, crepitano le intolleranze, ignari di quanto e come i meccanismi del destino, super partes, oliino leve, nastri, rotelle, avviino impensabili motori. Disidentità e disappartenenza recitano sulla bussola del mistero, alternandosi a situazioni sospese e stranianti, come ne “Il Mare di Dirac”(“Semantico”) seguìto dal realista “Lo Schiaffo”(Vazzoler); come nell’alienante “Correvano luci d’assalto in quel 22 dicembre 2013” (Alberti), che tampina l’ascetica parabola (piacevole)  “La storia che non fu mai scritta del cattivo Ladrone”(Bosio). Universi rattratti in complessi d’Elettra capovolti, oppure reclusi nella dimensione viziata di un night-club, di una stanza (Giorgi) che si dilata nella città che la risputa (e viceversa, la città che si contrae nella stanza che l’ha estroflessa – non vien da pensare, non immeditate, all’a torto deprezzato “Dark City”, petit chef d’œuvre di Alex Proyas, sulla scia di Dick e Van Vogt?); l’atmosfera barcolla tra indecisione e determinazione frustrata, l’io narrante sospende il filo logico della ricerca, s’ingarbuglia, perde l’orientamento come il protagonista della distopia che si rivela quasi utopia nell’antiutopia (da ciclo “Twilight Zone/Ai confini della realtà” di Rod Serling) di “Hanjin” (Andrea Corona). 
Fatua, incongrua e scucita, la giovane donna de “La Lonza” (Giulia Mattioli) s’infascia nelle paranoie dichiarate e ignote, e pare che soffochi ella stessa le ansie orgastiche da cui si lascia sospingere, entrando e uscendo da porte scorrevoli, varcando atrii, salendo/scendendo da tassì e scale d’albergo e d’ospedale. Vive di furti percettivi, di languidi trip psicolabili e di accelerazioni convulse, al contrario della torpida ragazza del pub, che sgomitola tra un drink e la libido confessionis una storia impigliata nel desiderio di maternità e fracassata puntualmente nel ménage condannato dall’irraggiungibilità dei sessi incapaci di altra fusione al di là di quella carnale (Morgillo).
Alcuni racconti si omologano negli avvitamenti psicologici del/della protagonista (“Rinascita”, “Morte di un’avara”, “Il giardino dell’anima” –di Casagrande, Nastri, Ragno–), puntando magari a Pinter, ma ottenendo l’effetto sbadiglio; lo stile purtroppo da solo non è sufficiente a fare di un racconto una ciambella col buco; altri sono innocuamente descrittivi, volutamente non si pongono l’obiettivo di un approdo, non concludono (“In terra straniera”, di Susanna Rota). Il diapason della superfluità arride a “I monaci della torre”, di Sandra Cervone, della quale stimiamo col massimo rispetto la dedizione diffusiva della poesia e il lavoro incessante come sacerdotessa dell’arte tra Formia, Gaeta e oltre; le consigliamo di dedicarsi alla proficua e talentuosa produzione saggistica, alla funzione di critico, in cui è indiscussa maestra, prendendo distanze, se non definitive, almeno cautelative e –si spera per lei– ossigenanti e rifondative, dalla narrativa e dalla poesia. Gliene verrà gran giovamento, giacché -absit iniuria verbis- non ha idee. Snocciola logori cliché di ‘nullesìa’ (termine di Celan) e ‘vacuaprosa’. Non ce ne voglia.
Corrado Iacotucci e Giovanni Ruggieri scrivono un racconto divertente che sotto la superficie ironica e dissacratoria offre davvero una soluzione allo sfacelo e al degrado morale del nostro mondo piagato dalla casta parassita dei potenti: non interviene un secondo diluvio biblico, come reiteratamente si augura il poeta politico Pasquale Martiniello, ma si impone una sorta di soluzione finale alla “Ultimatum alla Terra” o alla  “Have  Spacesuit-Will Travel” di Robert Heinlein (“La tuta spaziale”); gli ingegneri cosmici alieni (che a quanto pare sono anche figure di “investitori/mercanti” alla Pohl & Kornbluth) fanno piazza pulita degli spiriti corrotti, riconducono l’umanità superstite agli albori di una ennesima età della pietra, quand’ecco  riesplodere avidità, invidia, violenza, delitto… Homo homini lupus semper et infinite.  Non è più possibile concedere ulteriori dilazioni a una razza aggressiva, subdola, egotica, pericolosa per altre forme di vita, intelligenti o meno; refrattaria a ogni maturazione, miglioramento e catarsi, è bene che essa venga cancellata. Molti classici di fantascienza si pongono il problema della sopravvivenza, della distruzione e/o della resurrezione del genere umano: in “City” Clifford Simak lascia eredi e successori degli uomini i robot e i cani. L’orrore assoluto, quello dell’estinzione, è stato da noi stessi accennato nel finale del racconto sf/horror “Partenze” in “Elogio del blu” (Mephite, 2008). E ricordiamo il toccante (e raggelante) finale di “A.I. Intelligenza Artificiale” di Spielberg.
Dal canto suo così si esprime Jean-Paul Sartre: “L’uomo non è altro che ciò che egli fa di se stesso…Se comunque è vero che l’esistenza è antecedente all’essenza, l’uomo è responsabile allora per quello che è. E quando noi affermiamo che l’uomo è responsabile di se stesso, non intendiamo dire che egli è responsabile solo della sua propria individualità, ma che è responsabile di tutti gli uomini…Scegliendo inoltre per se stesso, l’uomo sceglie anche per tutti gli altri…” Se “Il Padrone di casa…” fosse stato supportato da un’accurata sorveglianza interpuntiva, se lo stile grezzo della narrazione fosse stato espunto dalla scarsezza espressiva e dalle facilonerie, e se l’alieno non avesse avuto l’eloquio di un personaggio uscito pari pari da una sceneggiatura della “Troma” di Kaufman e Herz, i due autori avrebbero realizzato un gioiellino, sullo stile –raffinato!– di Douglas N. Adams (“Guida galattica per autostoppisti”, “Ristorante al termine dell’universo”, “La vita, l’universo e tutto quanto”, “Addio, e grazie per tutto il pesce”). Al duo suggeriamo di riscrivere il racconto, seguendo le orme di Damon Knight, Philip J. Farmer, Ray Bradbury, J. G. Ballard, Serge Brussolo, Ted Sturgeon (magari rintracciando, di quest’ultimo, il toccante “Thunder and Roses” del 1947). Pensiamo che ne valga la pena. Dirozzati, Iacotucci e Ruggieri avrebbero le carte in regola per dire la loro.
L’onomatopeico pseudonimo di “BSA” sceglie una metafora simpatica, benché scontatamente e maccheronicamente didascalica, per ammonire i giovani invischiati nelle pànie della tossicodipendenza: una favola che tira in ballo un’ape Magà/Maia depressa, fragile, che crede di ovviare alle lacune affettive e alle frustrazioni quotidiane facendosi di brutto, e causando danni collaterali alle compagne della microsocietà, per poi emendarsi e salvare il salvabile immolando la propria vita in psichedelica deriva. La terza persona singolare del passato remoto di “commettere” è “commise”, e non “commesse”, caro/a “BSA”.
Francesca Terzoni si ispira (felicemente) ai fulminanti e umoristici frammenti “neri” dello spagnolo Max Aub, impiattando per noi cinque flash deliziosi e aromatici (“La Montagna di merda/La Vacanza premio/Luce che viene dagli occhi/Il bigamo/L’avambraccio sinistro”), in un teatrino dall’espediente comico sottile, dall’intento parodistico mirato. Continui tranquilla su questa falsariga. 
E finalmente ci imbattiamo in una ingegnosa e rimarchevole pagina di buona, intensa, limpida letteratura verista, un inaspettato lingotto d’oro nello scrigno dell’antologica in esame: “Mascaratu”, di Lucia Grassiccia. Perfetto nello stile e nella conduzione del movimento interno, un “Instant Cult”, un “Guilty Pleasure”, esclameremmo in gergo cinematografico! Pregevole, si fa rileggere con gusto inalterato, e ci riporta un po’ a “Rosso Malpelo” (tradotto sul grande schermo nel 2007 da Pasquale Scimeca, regista, e da Nennella Bonaiuto, sceneggiatrice), alle penne di “Incompreso”, “Senza Famiglia”, “Huckleberry Finn”, “Oliviero Twist”, et similia. Pirandello, Verga, Mark Twain, William Golding, Florence Montgomery, H.H. Malot hanno lasciato la loro impronta nella bravissima Grassiccia, che ci strabilia, veramente, al punto da indurci a desiderare di conoscerla di più e meglio, letterariamente. La sequenza dell’ “incollamento” del gattino, la descrizione della sedia occupata dalla giara, la scena della cena familiare a base di cipolle e fave, accompagnate da pane “peruto”, cioè rivestito di muffa incipiente, fanno da valore aggiunto alle riflessioni impagabili e “sagge” del ragazzino, spiritoso e di precoce buon senso, contrapposte a tutto quel tirare per le lunghe e piangersi addosso ripetitivo, fastidioso e bruente dei protagonisti/delle protagoniste di taluni racconti a cui abbiamo già accennato. “Mascaratu” è il fiore all’occhiello di “Postmoderno Immaginario” (pur uscendo, fataliter, dai binari del genere); pertanto invitiamo hic et nunc i curatori illuminati Ambra e Ivan a tenere ben presente e bene in conto questa eccellente autrice. Mentre aureæ mediocritates s’assumono l’ardire (anche in Irpinia) di impiantare e gestire corsi di scrittura creativa, senza averne né i titoli, né le capacità (o le palle, se preferite), Lucia Grassiccia fa i fatti. Il rimpianto Pietro Germi, uno fra i massimi registi nazionali (intramontabili, i suoi “Il Ferroviere”, “Sedotta e abbandonata”, “Divorzio all’italiana”, “Signore e Signori”), se paradossalmente redivivo, amerebbe girare un mediometraggio dal morceau autoriale della Grassiccia (ma anche Damiano Damiani de “Il rossetto”, il Lattuada de “La spiaggia”, Franco Rossi di “Amici per la pelle”). À la façon francese: ‘Chapeau, Lucia!’.
Valerio Gaio Pedini, con “L’uomo è morto”, percorre i sentieri paralleli del traslato biblico, dell’ipotesi blasfemo-beffarda, della commedia umana e para-umana irriverente e stravagante; nel suo caso lo tradiscono la ruvidezza di stile e la mancanza di obiettività (riteniamo noi) sulla bontà e l’efficacia complessive di quanto ha scritto. Spesso ci si innamora di una idea (la sua non è affatto disprezzabile) e la si butta giù, ma non si soprintende alla forma del dire o non se ne posseggono gli strumenti. A volte c’è lo stile (Rota) e non il racconto. Qui c’è il racconto, però manca lo stile. Converrebbe anche a Pedini rivedere la stesura dal punto di vista grammaticale, sintattico, lessicale, ammorbidirne i toni enfatici (le altisonanze dell’ominide/icona) e calcare il registro della satira amara. Tuttavia, in un clima generale di stringatezza o addirittura di assenza di dialoghi o di boutades nella maggior parte degli altri racconti, di preferenza ravvoltolati in soliloquî intrapsichici masturbatòrii e sconclusionati, c’è da mettere in evidenza che l’autore organizza delle rimbeccate vivaci tra i pescatori. Si procuri e legga “Cristo marziano” di Philip J. Farmer , “Alieno in croce” di Lester del Rey /Raymond F. Jones e la “Guerra al grande nulla” di James Blish. A nostro avviso imperdibili, e tra le cose migliori nel campo della narrativa fanta-teologica.
Lucio Giuliodori si dà tutto all’esercitazione intellettuale, sfidando i lettori a verificare e ad approfondire i rilanci culturali letterari e scientifici che assai si compiace di esibire, il che non è affatto male. La cosa ci è piaciuta. Ma aspettiamo lo sviluppo di un racconto, sic et simpliciter. Legga Valerio Evangelisti o il classico di Heinlein “Non temerò alcun male”, e magari si procuri i romanzi di Colin Wilson. Ah! Sulle bancarelle del libro usato può trovare una superba prova di narrativa che mescola l’azione in una cornice bellica (una cupa, negromantica Sarajevo) alla speculazione filosofica, la SF all’horror concettuale: “Assedio”, di Vincent Spasaro; un bel romanzo catturante (in cui la spy story è poco più di un pretesto) che alterna in vortici il dark al thriller, l’elemento metafisico al paradosso temporale, all’immagine shock, alle dimensioni alternative, all’avventura straniante. Ci sfugge la collocazione nella testata “Segretissimo”, quando la sede elettiva sarebbe dovuta essere “Urania”, o meglio ancora la dignità di una pubblicazione mainstream a sé stante (per contatti con Spasaro: http://vincentspasaro.blogspot.com; per contatti con noi di Logopea: logopea.blogspot.com o assocultlogopea@yahoo.it).   
Il postmoderno è stato superato, lasciando uno strascico di premesse e di innegabili disillusioni, di mancati obiettivi e quasi di evangelizzazione del flop (allegorizzato dalla foto di cedimento e macerie selezionata per la copertina del libro in questione), dopo le ragioni esposte dal Lyotard sul finire della modernità con la delegittimazione des grands récits, dei larghi orizzonti filosofici e ideologici dall’Illuminismo in poi, a favore di prospettive pragmatiche e contingenti  (“La condition postmoderne”, 1979), mentre Vattimo coniò la definizione di “pensiero debole”, non intenzionalmente vòlto a negare il passato, la tradizione, ma teso a sviluppare un sentimento di pietas nei confronti delle certezze e dei valori assoluti ormai vacillanti, quindi dissolti. Nel campo letterario, si ebbe uno spostamento lirico dell’ “io poetante”, con esiti promettenti nel mar delle banalità; ma poi anche qui si sarebbe verificato il mancato (o va là, parziale) attecchimento del “mitomodernismo” di Giuseppe Conte e di Stefano Zecchi (per inciso, abbiamo accolto ab initio con circospezione il relativo Manifesto, approdando ad un palese scetticismo in linea con i pareri di Giuliano Gramigna e di Maria Corti, pur senza i toni drastici di Edoardo Sanguineti). Nella narrativa, eguale espressività libera dell’ego, sullo sfondo di elementi storici e/o fantastici, con l’eredità greve del ‘dopo-avanguardia’ e la proterva e pretesa voluntas di andare “oltre” gli sperimentalismi e le ultime tendenze novecentesche. 
Se valutassimo i racconti antologizzati esclusivamente alla luce della postmodernità irredenta, che esalta l’individualismo, celebra il tramonto della solidarietà, del rispetto altrui e del comportamento civile, capisaldi dell’ascesa del moderno, dovremmo ammettere che quasi tutti sono effettivamente centrati nel mostrare l’anatomia di una società in regressione, nella quale si perde la certezza del diritto, mentre prevale e prevarica il leviatano di un consumismo praticato per soddisfare il bisogno primario della gratificazione soggettiva. Impera innegabilmente lo spirito del soggettivismo, che spinge all’escapismo dall’anonimato in cui hanno confinato gli uomini due fenomeni succedanei: la massificazione e la solitudine dell’individuo globale. C’è, diffusa, un’ansia dell’esserci (direbbe Heidegger), nel riconoscersi (e nell’essere riconosciuto) come individuo, mostrarsi, attrarre, levare la voce più forte degli altri, ottenere quella visibilità spettacolarizzata (anche fuori luogo) pur di “sentirsi” vivi; e ci si può sentire vivi solo al prezzo della visibilità a tutti i costi, ad oltranza; una visibilità che assurge a mania, a morbo necessario, indispensabile, spendibile. E che non cela la massima contraddizione: questo soggettivismo ha bisogno incredibiliter di confrontarsi, di “specchiarsi” nell’altro, di essere da questi riconosciuto, altrimenti implode nel non-senso! Come da noi detto altrove, il decostruzionismo di Jacques Derrida rappresenta brillantemente la filosofia funzionale del postmodernismo, critica e armata, provocatoria, autoreferenziale; si aggancia al pensiero di Heidegger, mentre la filosofia hegeliana e la filiazione marxista, abbiamo visto, sorreggono valori e finalità della modernità. Progresso, collettivo, storia sono mal concepiti dall’irrazionalismo, che riporta il centro di gravità sull’individuo; è l’individuo che dà senso al mondo che lo circonda (Husserl); storia e progresso non hanno più il compito di interpretare questo mondo. L’individuo che ha vissuto la postmodernità, e quindi la demolizione delle ideologie e la destabilizzazione dei valori di riferimento (la pregnanza dell’etica, la spalla forte del lavoro sicuro, le certezze economico-esistenziali), può trovare nei princìpi di Zygmunt Bauman la costruzione di un modello sociologico duttile, vòlto non alla critica ma alla comprensione e alla spiegazione. Un appiglio salvifico, in epoca di disorientamento, di (capillare) nevrosi da incertezza su come “preparare” il domani, su come preservarci da conseguenze ancora più infìde. Nietzsche (il cui “Nascita della tragedia” è il testo archetipico del postmoderno) ed Heidegger, che consideriamo gli anticipatori della postmodernità, ritenevano, lo sappiamo, la Storia come impostura e non memoria della verità; essa andava sostituita con l’evento, avulso da memoria, avente valore per sé e per il tempo in cui si realizza. E dal momento che l’evento non è ripetibile, ecco che nell’impossibilità di ripetersi trova la sua verità. Di conseguenza: la società di domani sarà priva di quella memoria che conterrebbe o impedirebbe il ripetere gli errori del passato? Sicché essi, inconsapevolmente ripetuti, appariranno nuovi, inediti? Intanto, già è anacronismo parlare di post moderno: ne siamo strisciati via malconci, mentre quaranta e rotti anni fa il movimento ci sembrava il più favorevole tentativo per sgusciare fuori dalla modernità senza comprometterne i lati vantaggiosi. Il Terzo Millennio ne ha sancito la decadenza e la morte.            
Una scia di postmoderno che, tra programmi miglioristici e negligenze, ha fallito le sue intenzioni e che, come abbiamo cercato di illustrare, galleggia nella società liquida di Zygmunt Bauman, tenta un’estrema risorsa spendendosi in una scrittura che se non aspira all’abreazione dei grovigli personali e comunitarî, e si astiene (con qualche eccezione) dall’aperta azione critica politico-sociale, pur malgré-soi agendo quanto meno nei suoi perimetri, potrebbe rappresentare, entro miserie e grandeur, le spoglie di un’occasione che pose più di qualche tassello di rinnovamento, di potenzialità, agli inizi degli anni ottanta nel secolo scorso, alla stura della crisi energetica e petrolifera. L’impresa e gli intenti di Simeone/Pozzoni di costituire un’entità culturale efficiente, letteraria e metaletteraria, di scalfire le coscienze assopite in posizioni di comodo attraverso l’urto di narrazioni insolite, che ben lungi dal cavalcare stanche o stolide o strafatte o stra-imitate avanguardie, si contendono il pungolo dell’attenzione riflessiva dell’ipotetico lettore, sembrano aver lavorato di fino per l’attuazione di un (peut-être) accettabile cominciamento. Staremo a vedere con il post-Postmoderno immaginario, antologie e racconti che verranno…

                                                                                                ARMANDO SAVERIANO



        POSTMODERNO IMMAGINARIO AA.VV. –  ED. deCOMPORRE, GAETA, 2014 – PP 142 – EURO 20.00




domenica 16 novembre 2014

MAROSI DEL CONSCIO E DELL’INCONSCIO


L’occhio interiore di Vittorio Graziosi





L’amico Gaetano Guglielmo ci consegna, con un franco entusiasmo, condiviso dalla consorte, signora Diana, un libro di Vittorio Graziosi, “L’Ombra delle onde”, edito da Crispino, ben 14 anni fa. La trascorsa gestione di Logopea-blog, affidata all’ottimo ma intransigente Giovanni Vesta (transfuga dall’associazione con un codazzo di herbes folles), poneva picchetti per la recensione di volumi che fossero vecchi più di un anno. La gestione attuale della nuova Logopea, libera -con sollievo- degli elementi parassiti, ed affrancata dalla severità estremizzante del buon Vesta, è molto più flessibile, e non si crea né limiti né barriere di tempo. Perciò esaminiamo volentieri il volume di Graziosi, di cui nulla sappiamo, se non che è nato e residente a Jesi.
La veste grafica non ci convince: riteniamo assai didascalica e scontata la turbolenza marina già annunciata nel titolo; avremmo selezionato un’immagine più allegorica, meno diretta. Neanche i caratteri giovano all’eleganza della copertina, e della quarta, biglietto di presentazione e sorta di “esca” allettante per l’ipotetico compratore.
Lo scrittore propone tre racconti, uniti dal comune denominatore dell’interiorità. I protagonisti, soprattutto gli uomini dei primi due (Serge, il calciatore di “L’ombra delle onde” e Pietro, l’infermiere di “Un gesto fra me e l’orizzonte”), scavano con schiettezza e scrupolo nel loro “in sé”, facendo emergere dal magma nuclei di coscienza liberata ma anche nodi insoluti, in attesa di possibile abreazione. Si tratta di narrazioni inclìni alla carezza poetante, sia dal punto di vista contenutistico, sia dalle peculiarità della forma. In particolare, il terzo, “Gli occhi di Dunja”, che è anche -di gran lunga- il migliore ed il più riuscito, potrebbe essere definito una fiaba stregante e amarulenta, che mette in gioco personaggi plausibili, capaci di imprimersi nel ricordo del lettore, il quale non esiterà ad affezionarcisi, ad amarli. La storia della candida contadina polacca, solitaria, emarginata e affetta da episodici ma invalidanti disturbi psichici, afferra, cattura, persuade; soprattutto commuove. Lascia, come valore aggiunto, un dubbio, un mistero che deve restare tale[ mediando dal “Così è (se vi pare)” di pirandelliano genio ], di modo che possa essere il fruitore a cercare, se proprio vuole, una risposta, nel ventaglio delle ipotesi. Chi è e da dove arrivi “Oci ciornie”, se sia una presenza reale o una fantasmatizzazione del bisogno, se abbia natura e fattezze del nostro “Mazzamauriello” delle soffitte (qui l’ambiente della sua comparsa è una stalla), se non sia piuttosto un “parto” benigno di Dunja [in tal caso raffrontata come suo alter ego patetico, dolcissimo e positivo, alla folle e furente malignità perversa di Nola Carveth/Samantha Eggar (nel film “The Brood” di David Cronenberg, 1979 –Canada)], o “semplicemente” un tenero freak (ancora una volta il cinema: qui il Tod Browning del classico USA del 1932), che si nutre di solo latte e comunica per empatia, non è mai (intelligentemente) “spiegato”. Anche il personaggio complementare di Duilio è un “diverso”: lo scrittore ce lo descrive gibboso e con uno pseudo labbro leporino, in verità causato dal calcio di un mulo. Duilio è ben inserito nell’economia della trama e rafforza l’atmosfera sospesa in una sorta di oasi idilliaca che s’irradia dalla cascina avìta. Il finale malinconico e dolente può generare un groppo in gola agli spiriti più sensibili e compartecipativi. Dunja è risucchiata inesorabilmente dal suo destino; a differenza di Serge, che rinasce dalla disidentità verso una vita più meditata e altruistica, quasi impensabile “prima”, ella non conosce riscatto, non s’arricchisce di altro senso e di altra funzione, benché tali prospettive le si affaccino proprio con l’entrata in scena di “Oci ciornie”; non le viene offerta compensazione: nel suo caso la donna viene anzi sottratta alla gioia, all’indipendenza, allo scorrere pacato e soddisfacente delle proprie giornate. 
Il pregio maggiore del racconto d’apertura, “L’ombra delle onde”, sta nella sequenza da scatto espressionista, in cui Serge “incontra” la madre reviviscente, che gli porge un libro ponderoso, enigmatico, insolito nelle mani di una modesta e sottomessa massaia, la quale poi quietamente racconta eventi stranianti, movimentati, avventurosi, incredibili; altro coup de plume il successivo incontro con un homme de nulle part, figura di vagabondo e di miserrimo pescatore, un “errante”, che gli dona l’unica preda della sua pesca; forse un messaggero che simbolicamente preannuncia la fatale svolta che di lì a poco attende il ventottenne Serge, ancora inebetito per la dipartita della madre.
Per sottolineare la spezzatura tra la vecchia vita di Serge, colpito da grave amnesia dopo un disgraziato incidente stradale, e quella che gli si delinea e prospetta per l’avvenire, l’autore sterza nella narrazione in prima persona, serbando l’amato presente verbale, preferito e adoperato in tutti e tre i racconti, rispetto al passato remoto e all’imperfetto, che danno minore immediatezza.
“Un gesto tra me e l’orizzonte” è a parer nostro l’anello debole nella piccola antologia di prose, benché il ritratto di Pietro e dei suoi ambienti prossimi (l’ospedale, la famiglia) siano credibili, quanto il suo carattere e le lineari motivazioni; fastidiosi, inutili e nocivi gli intemperanti “strilli” in neretto sottolineato, che appesantiscono per enfasi un andamento estraneo a simili speziature.
Quattordici anni sono trascorsi dalla pubblicazione del volume ad oggi, e non dubitiamo che nel frattempo lo scrittore si sia emancipato, ovviando a cadute di tono, malintesi ortografici, qualche anacoluto, incertezze non veniali nella consecutio temporum, inesattezze nelle concordanze e piccole incoerenze nello sviluppo di plot e sub-plot. Ci auguriamo per lui che abbia optato per scelte editoriali meno disinvolte, nella confezione della copertina e nell’impaginazione, dando fiducia a C.E. che mettano vivaddìo a disposizione dell’autore, per ottimali soluzioni consentanee, un efficace editing che, se fosse stato attivato all’epoca del libro in questione, avrebbe giovato e anzi magnificato il talento di Graziosi.

                                                                                           ARMANDO SAVERIANO



L’OMBRA DELLE ONDE–VITTORIO GRAZIOSI–ED.CRISPINO 2000 – PP 110 – P.N.I. (NELL’EDIZ. IN POSSESSO)




Vittorio Graziosi


mercoledì 12 novembre 2014

LA RICONQUISTA DELLA GIOVENTỪ


La fiducia e il coraggio alla base della felicità



Un libro che fa riflettere e sognare; diverte, appassiona, commuove e celebra la grande avventura fantastica di due fratellini gemelli. Leo e Dino sono però diversi: mentre il secondo cresce e si sviluppa armoniosamente, il primo è vittima di una malattia strana e rara. Gli autori del romanzo denominano brevità  questa brutta malattia che nella realtà è definita progeria. 
Leo invecchia precocemente ed è addirittura destinato ad una morte prematura. Una famiglia felice si trova così a vivere in angoscia. Fortunatamente, una notte, compare ai due gemelli, nello stesso sogno, un esserino a forma di pera o di goccia; una specie di fantastico folletto. Si presenta ai bimbi come Dreamy, il Sogno. Un sogno che offre una soluzione: se i bambini saranno coraggiosi e fiduciosi potranno seguirlo nel fondo del mare, dove vive una medusa singolare, “la medusa eterna”, praticamente immortale, perché capace di autorigenerarsi, tornando sempre giovane. 
Comincia in questo modo la parte più bella e appassionante del libro: la forte volontà e l’amore fraterno che li uniscono, aiuteranno Leo e Dino ad affrontare ostacoli e a conoscere creature buffe e sorprendenti: il Polpo Imitatore, Gastone lo Storione, il Gambero Hans, la Medusaggia, il Pesce Pietra. 
Ma a questo punto chi sta leggendo la mia piccola recensione si chiederà: “Come fanno i due bimbi, privi di branchie e certamente non anfibi, a sopravvivere, respirando sotto la superficie del mare?”.
In realtà Dreamy ha consegnato loro un sacchetto che consente di respirare sott’acqua; il sacchetto contiene della sabbia destinata a consumarsi, un po’ come accade in una clessidra che risucchia dall’alto in basso i granelli, dando la misura del tempo che trascorre. 
Un passaggio molto importante del libro riguarda l’incontro con il dio del mare Nettuno; il dio non viene rappresentato nella consueta figura antropomorfa, ma è una voce che proviene da ogni creatura marina. Nettuno è un dio che si manifesta in tutte le sue creature. E la cosa mi è molto piaciuta, perché rispecchia una concezione cristiana moderna ed evoluta. 
Come finirà l’avventura? Non resta che consigliare ai giovani lettori di seguire il mio esempio: farsi regalare da un genitore, da uno zio o da un nonno il bel libro intitolato: “LEO, DINO E DREAMY-ALLA RICERCA DELLA MEDUSA ETERNA”. 
Licia Colò è un personaggio pubblico, che da anni conduce il celebre programma di viaggi Alle falde del Kilimangiaro, e che si è conquistata simpatia e notorietà, mentre lo scrittore sardo Alessandro Carta è un esperto di fiabe e ha vinto due premi letterari (per L’orco Baleno e Il fantasma Duenna).      
Confesso che a me poco importa sapere o stabilire se l’idea sia stata di Licia Colò, sviluppata dal talento letterario dello scrittore Carta, o viceversa. L’importante è che una bellissima storia sia stata creata e stampata per la felicità dei giovanissimi lettori come me. Magari l’editore Fabbri ha utilizzato la notorietà della Colò per incrementare le vendite del libro. Questa operazione fa parte del cosiddetto Marketing: l’insieme delle strategie che un’azienda mette in atto per vendere i suoi prodotti. 
Non posso non citare la bravissima Marta Bassotti, illustratrice magica delle vicende del romanzo. 

                                                                                     ARES GUGLIELMO


LICIA COLÒ /ALESSANDRO CARTA -LEO  DINO E DREAMY -FABBRI ED. 2014- PP. 162- € 13.50  



Licia Colò
Ares Guglielmo



sabato 8 novembre 2014

VERSIPELLE 9: LA POESIA COME ATTO COGNITIVO



Gli incontri de “Il Versipelle”, organizzati dall’associazione culturale irpina “Logopea”, procedono spediti nel loro agire strumentale, fondendo drammatizzazione e poetiche. Giunge a proposito un verso di Sereni, sulla bonifica dei deserti culturali: “ …toppe d’inesistenza/calce o cenere/pronte a farsi movimento e luce”.
I protagonisti del Versipelle tentano da decenni di dissodare e seminare terreni ritenuti persi o infruttuosi, con l’alta febbre del fare: è il caso di Antonietta Gnerre, per la quale il movimento poetico assurge a una domanda di libertà, che pervade e riordina (pur talora nel “disordine” della sperimentazione) l’irrevocabilità del sentire. Dal canto suo, nel claustrale adyton personale, Rita Pacilio politicizza l’assimilazione della poesia contro l’ostinata indifferenza grazie alla vis ambivalente della sua tecnica, che mai va sottovalutata. L’esperienza teatrale/jazz non fa che magnificarne le sottolineature. La poesia di Giuseppe Vetromile si arricchisce di tonalità che sovente inquietano, sopravanzando la stessa meditazione del fare del suo autore; del resto il potere cognitivo della poesia travalica le intenzioni del suo medium poetico. Rita Pacilio, autrice di una versione in versi moderni dell’Elettra, incide col bisturi la dialettica sul rapporto amore/odio tra madre e figlia, senza interpellare scopertamente Freud. Antonio Mazzocca e Davide Cuorvo rispondono alla Pacilio estrapolando da “Le Mosche” di Jean-Paul Sartre il monologo di un Oreste stravolto, eppure lucidamente saggio, dopo il duplice e vindìce omicidio degli assassini di Agamennone. Oreste si sdoppia nella splendente alternanza di due anime e due toni diversi e complementari, anche nella mediterranea fisicità. I secoli distanti si riavvicinano, s’accostano, s’accozzano, divengono tutt’uno. Il sensibile Christian Cioce, il poliedrico enfant prodige Michele Amodeo e l’inarrestabile veterana Mena Matarazzo, impegnata nel frattempo nel ruolo di Drusilla in “Scene Augustee” di Aristide La Rocca, si produrranno nei sempre bene accolti siparietti drammatici. L’incontro avverrà sabato 8 novembre, alle ore 16.30, presso il Centro Sociale “Samantha Della Porta”. A condurre, Amando Saveriano, affiancato dal poeta pittore Raffaele Stella; direzione artistica del patron di Logopea e del giovane Angelo Iermano, laureato con 110 & lode in lettere moderne presso l’Ateneo napoletano Federico II.

lunedì 3 novembre 2014

POESIA E PREGIUDIZIO


   Quando Arroganza e Ignoranza complottano infettando Libertà e Verità




È triste affermare che i tutori della cultura, gli intellettuali designati all’esercizio dell’equità di estro e pensiero, arretrino tacitamente davanti ai loro doveri in nome del più nocivo dei vizi tra i dotti: il preconcetto. La virtù che essi dovrebbero perseguire è l’acribia, mentre all’acutezza e alla giustizia preferiscono l’adeguamento ad una mentalità soffocatrice, dogmatica e quasi tenebrosa: il pregiudizio. Essi agiscono magari in nome del salvataggio e del prestigio di una certa idea romantica e limitata della poesia, che non può sporcarsi con la denuncia politica aperta, con una sessualità non legata al gusto comune, con la più disinibita satira, peggio ancora con l’invettiva. Pertanto essi non condannano neanche apertamente: stigmatizzano ignorando e tacendo, o più elegantemente, sorvolando.
In poesia questo atteggiamento ostile e censorio, senza dubbio pusillanime e piccolo-borghese, si ascrive all’irresponsabilità pura, al razzismo letterario, e giova ad esaltare modelli contenutistici e formali falsi e falsanti, avvantaggia scrittori dalle potenzialità atrofiche e dalla mentalità angusta.
Passi per le poetesse enfatiche, prive di strumenti autocritici che ne arginino l’oleosità retorica e artefatta [tranne eccezioni, come la Iandolo e la Di Zeo, si tratta novanta casi su cento di docenti (indecenti) di scuole medie e superiori o di dirigenti futili e vanesie]. Ma gli intellettuali studiosi di poetiche non possono farsi complici di un silenzio ingiurioso, gretto e pedante, quando incontrano autori che devìano dalla celebrazione diabetica delle virtù insuperabili e degli obiettivi sublimi (solo su carta) attribuiti (questo sì un pregiudizio!) ai candidati alle vette del Parnaso. L’uomo è sì capace di nobili azioni e di altruistici sacrifici, ma è tanto più spesso ignobile, cazzista, snob, inconcludente, maniacale, corrotto, manicheo, irrazionale, intollerante e settario. Non si capisce perché i poeti debbano circolare in un giardino fiorito con alte siepi che li separano dalle miserie più clamorose e dai delitti sociali più aberranti e reiterati. È vero che spesso si scagliano contro la guerra, che frignano sulla sorte dei cagnolini abbandonati e dei vecchi respinti dai familiari; è vero che pontificano su mafie e lupare bianche, sugli effetti devastanti degli tsunami e degli uragani, sui bimbi denutriti e focomelici, sull’Aids o sulla mucca pazza di turno, ma lo fanno con artata compartecipazione che puzza oltre le classiche mille miglia. Non c’è genuinità, né verità, perché alla base, nel midollo osseo e nelle loro grasse viscere benestanti, non c’è tragedia, non c’è diretta esperienza sofferta.
La professione intellettuale dovrebbe avere un codice d’onore, un suo giuramento di Ippocrate, dovrebbe conoscere, praticare e insegnare la rettitudine. Al contrario, celebra i poeti inquadrati in una visione asfittica dell’uomo e delle cose; evita gli autori d’azione civile, di pensiero integro ed attaccante, condannandoli ad una dimensione fantasma, mentre divizza i mai smentiti pintori di cartoline paesaggistiche, gli esaltatori di un regno incorruttibile, i tolemaici tranquillizzanti e inermi, i simulatori di emozioni e sentimenti senza succhi gastrici, prosperi di piccinerie, di abusi di cerimonialità e di aulici toni da difensores fidei terra terra. Pertanto, Bonis nocet si quis malis pepercerit (nuoce alla Buona Poesia chi non condanna ed espelle la Cattiva).
Pasquale Martiniello non ha mai conosciuto la giusta collocazione che spetta alla sua poesia audace, coraggiosa, senza peli sulla lingua, che testimonia lo stupro e lo scempio della democrazia e la perversa, ininscardinabile demagogia dei politici radicati alle poltrone, sopravanzato da esponenti di sciapite linee lombarde o da esistenzialisti da mulattiera in Perù, da isteriche suorine di Croce Rossa dalla penna fiorita alla Barbara Cartland (con tutto il rispetto!); Toti Scialoja è stato pollicinizzato come scrittore scherzoso, giocoso, per l’infanzia; Sandro Penna murato con calce viva per i suoi canti sugli adolescenti; Assunta Finiguerra a lungo confinata nel girone delle fattucchiere deliranti e sboccate.
 Noi stessi, sbrigativamente etichettati come sperimentatori, termine viziato che si mangia la coda, veniamo tacitamente screditati perché scagliamo invettive contro le storture del sistema o contro privati cittadini, modelli di anti-rettitudine, oppure quando addirittura raccontiamo il nostro passato senza complessi, scardinando l’aura di sacralità della famiglia, o quando, sui destini di questo mondo da noi compromesso e dannato, ci rifiutiamo di jurare in verba magistri.
La Poesia, dunque, a causa di critici timorosi e partigiani, di poeti e poetesse irremovibili dalle posizioni arretrate e ipocrite, viene ferita (per fortuna non mortalmente) proprio nella sua natura libertaria, che aborrisce i vetusti bastioni delle verità assolute e delle forme di espressione e di pensiero rigoriste e antiquate; perde i requisiti del pathos, dell’intrigo, della provocazione mai fine a se stessa, e si riduce ad ancella che occulta il cannocchiale di Galilei, rinuncia alla polemica fruttuosa proprio perché disturbatrice e perturbante, persevera nella scorciatoia comoda del buonismo di facciata, si banalizza, sbiadisce, si liquefa, si suicida.
Poetesse che hanno avuto un assaggio della nostra virulenta mordacità già in Spiniger, in Lomografia punto 6, ne La persistenza del dubbio e ne Il Nettare e la Musa, hanno preso, con loro e nostra buona pace, le distanze da noi e dall’antologia, attualmente in fase preparatoria, Carnet da ballo; meritando una forma di immortalità proprio nell’ispirarci versi ustorii, che le vedono sciagurate protagoniste, a braccetto con le traditrici e i traditori di Logopea (mammine, figliarielli e figliarelle, incontentabili invidiosi, rauche ginnaste dallo sguardo ellittico, maestrine dalla penna rossa a caccia di marito, ex dirigenti scolastiche volubili e vistose, posticci custodi e guardiani della cultura autodiretta), i critici e gli editori che esaltano i prodotti fecali e gli ani che li espellono, con i detrattori e le grasse, porcine ugole del mobbing.
Resta, incontaminata, la poesia che non si sottrae all’etica, che agita opportunamente la ferula, che pratica un j’accuse leale e meditato, che aborrisce i canoni corrosi e corrosivi, che smentisce leggi e principii ad usum Delphini e/o Cicero pro domo sua, e favorisce una voce indipendente, aspra e sincera, sarcastica ed efferata, ammonitrice e saggia. Mediamo da Hegel, che a sua volta la riprese da Lutero e questi da J. Manlius nei Loci communes, e questi ancora da un motto attribuito all’imperatore Ferdinando I di Asburgo: “Fiat iustitia ne pereat Poesia (Sia fatta giustizia affinché non perisca la –genuina– Poesia).
Vi invitiamo a leggere le poesie selezionate qui di seguito, con lo sparviero Pasquale Martiniello, che immagina un ospedale anomalo, speciale e specifico per sedicenti poeti (in cui potrebbe trovarsi ricoverato anche qualche suo stretto familiare); a seguire l’invettiva avverso le peggiori esponenti della congrega malefica della Fosca Sorellanza, i lapilli della azzannante Finiguerra, le malinconie struggenti dell’inarrivabile Penna.

                                                                                                ARMANDO SAVERIANO


HO SOGNATO UN OSPEDALE

Ho sognato un ospedale immenso
abitato dai poeti che sui lettini numerati
giacevano in camicie di forza
Un cartello al capezzale spiegava
la gravità dei mali il pericolo
del contagio le agonie e le pazzie
Non c’erano medici e né infermieri
Solo all’entrata all’Ufficio Informazioni
se ne stava un masticatore di rime
con la testa sepolta dentro un foglio
Appena mi scorge leva gli occhi
stralunati e mi chiede a che stadio è il male
Gli rispondo che sono un sano con un po’
di bronchite cronica da fumo che mi cagiona
talvolta affanno se erta è la scala della penitenza
Non c’è qui per te posto a meno che
non fingi dolori infernali serpenti che ti
mangiano le viscere spasimi abissali
Non ammatassi disperazioni per bambini
uccisi da fame e sete o per vecchi schifati
lasciati a crepare come cani estivi da figli
e nuore o per clandestini morti di asfissia
in cisterne o in stive o inghiottiti da tempeste
o per stragi di terroristi
Non credere che questi personaggi che tu sai
così distrutti da sofferenze e rimorsi di carità
da compenetrata assunzione di altrui tragedie
siano veri Qui stanno solo le ombre finte nella
tua mente Tutto è apparenza simulata ignobile
ingannatrice
Sono costruttori del male con le parole Guai
a sentirle figlie delle vere pene scavate dalla
roccia dell’anima Non troveresti mai un poeta
disposto a sanguinare per gli altri Sarebbe
un pazzo vero rifiutato dal manicomio divorato
da cupi pensieri e ossessivi
I poeti si divertono con gli scarti e giocano
con i dadi della fantasia Le poetesse truccano
i parti del dolore nei versi nati nelle stanze
delle parrucchiere leggendo cronache vere

PASQUALE MARTINIELLO

*

DOCENTINDECENTI

Le nuove scherane della bionda volubile
Fantocce
Di mnemonica cultura impolpettata
Come da sclerotico copione accreditato
Sciamano nella foresta della burocrazia
Didattica s’attendano nella presidenza
Bivaccano viscide a tè e gianduiotti
Fumano come ladre impestano l’udito
Con la cadenza insopportabile bifolca
Propongono se stesse vicarie o capitane
Di progetti déjà-vu
Eccitate all’idea degli euro che guadagneranno
in più per PON e POF pretestuosi noiosi scadenti
Esse stesse li detestano ostentando entusiasmo fasullo
Cascano dritte dritte nella botola
Del loro essere maestrine caricate a molla
Promosse alle medie per meriti improbabili
Slinguazzano santi in ministero
E inciuci
Parlano sguaiato o nel tono sommesso
Che credono più elitario aristocratico
Sbagliando tutti gli accenti
Gorgiando la
cPronunciando doppie le consonanti singole
E sonora la zeta aspra o viceversa
Insomma non hanno mai studiato ortoepia
Le asine laureate pensano con riserva
In bell’ordine infiocchettate anchilosate
Carampane prosciugate dagli anni impietosi
Ridicole bimbe si odiano con charme salottiero
Sono tutte abbracci assassini baci alla diossina
Sul tappeto soffice e venefico di sospetti sorrisi
D’accompagnamento in realtà ghigni
A tutta chiostra impiantata di fresco
Alcune vecchissime patetiche bamboleggiano
Sotto chiome cotonate biondo cenere
Meravigliosi anni settanta
Labbra inesistenti risucchiate sulle gengive
Abiti da matricole collegiali
Altre basse larghe scatasciate
Cosce grosse corte storte
Fanno musica del congenito grufolare
Coreggiano femmine del verro
Altre ancora in cerca di effimera gloria
D’istituto vittorieggiano strisciando
Ipocritamente umili Quale impostura
Secche Secche fanno tesoro degli appuntiti
Trofei di mariti oscuri sempre più insofferenti
Hanno sopracciglia depilate curve
Alla Bonolis sotto cui affondano occhi
Pescati dallo sterco vispo di volpe azzoppata
Le schifano gli alunni tanto quanto
Soggiacciono al rispettivo dispotismo
Per importanza di materia
Blaterano di teatro le sprovvedute tirannucce
Mi facciano il piacere scornacchiate
Moleste delirano di musical calpestano
Così la Grande Arte ministra delle Muse Sorelle
Ma andiamo non fatemi sbellicare
Non fatemi vomitare
Smorziamo le velleità impiccione
Non intossichiamo Tespi Rossi di San Secondo
E Saveriano
Macché teatro loro che nelle sillabe inciampano
Insaponando pen
ziero con cosci- énza
Loro che tutt’altra arte che quella
Della Commedia praticano
cotidie
Loro che storpieranno irrimediabilmente
Gli studentelli ignari e le famiglie compiacenti
Hanno competenze di impiegate che spiegano
Dal manuale
Leopardi e l’analisi grammaticale
Non escono da questo
Le non creative le antiletterate
Tassiste di antologia epica
Sartine di mitologia
Erbivendole delle tre declinazioni
Cuoche di storia e geografia
Musicanti di Brema
Pressappochiste
Eccole di punto in bianco esperte
In drammaturgia canto ballo
Mimo regia direzione di scena
Tra poco anche magistre in audioluci
Eredi di Euripide Plauto Corneille
Memè Perlini i De Filippo Patroni Griffi
Annibale Ruccello Stanislavskij
Strindberg Pirandello Poli Stransberg
Sthrelher Carmelo Bene
Sorride estasiata la Dirigente capricciosa
La zarina mutevole incostante
Ora innalza eroi ora li affossa
I tapini stupefatti basiti da tale e tanto
Repentino voltafaccia
Quasi non credono
D’aver avuto a che fare con ape regina
Modaiola estetizzante frivola
Altoborghese troppe piume
Orecchini orbitanti
Boa turchese abbaglianti gioie
E tutti quei frequenti impettiti
Quinti

ARMANDO SAVERIANO

*

MI HAI LASCIATO IN UN GHIACCIAIO

Mi hai lasciato in un ghiacciaio
dove poso gli occhi tutto è stirato
come l’abito che la mamma ha infilato
al figlio morto per il male di cuore.
Stracca mi sento e avviata alla pazzia
vado volando con le ali scollate
scrivo quartine però il soffitto
vuole le travi della masseria.
Neanche una gioia mi passa davanti
la nebbiolina mi piscia a digiuno
la ruota del tempo gira a tastoni
e col mio sangue dipinge il tramonto.

§

E NON TI STANCHI

E non ti stanchi mai di batter sempre
cuore mio bello, solo e sfortunato
tarlo di bocca sempre condannato
a restare muto con la lingua a fuoco
e batti, batti, batti, batti sempre
il peso della vita porti addosso
come lo zaino di quella puttana
che gode solo orgasmi morticini.
Tu batti io ti sento e ho paura
mi arrivi dal cuscino fiume in piena
rammento il terremoto di Messina
e penso che per me sia giunta l’ora.

ASSUNTA FINIGUERRA

*

LA SEMPLICE POESIA

La semplice poesia forse discende
distratta come cala al viaggiatore
entro l’arida folla di un convoglio
la mano sulla spalla di un ragazzo.

§

UN FANCIULLO CORREVA

Un fanciullo correva dietro un treno.
La vita – mi gridava – è senza freno.
Salutavo, ridendo, con la mano
e calmo trasalivo, indi lontano.

§

FELICE

Felice è stata oggi la mia casa.
Cani giovani e belli l’hanno invasa.
Ogni cosa hanno messo a soqquadro
di loro a me lasciando il più bel quadro.

§

SUBITO SPARÍ

Uscì dal verde inaspettato, ancora
un poco nudo, e subito sparì.
Restò nel caldo di quell’ora un caldo
odore, alcune mosche, - e io con loro.

SANDRO PENNA