Quando Arroganza e Ignoranza complottano infettando Libertà e Verità
È
triste affermare che i tutori della cultura, gli intellettuali
designati all’esercizio dell’equità di estro e pensiero,
arretrino tacitamente davanti ai loro doveri in nome del più nocivo
dei vizi tra i dotti: il preconcetto. La virtù che essi dovrebbero
perseguire è l’acribia,
mentre all’acutezza e alla giustizia preferiscono l’adeguamento
ad una mentalità soffocatrice, dogmatica e quasi tenebrosa: il
pregiudizio. Essi agiscono magari in nome del salvataggio e del
prestigio di una certa idea romantica
e limitata della poesia, che non può sporcarsi con la denuncia
politica aperta, con una sessualità non legata al gusto comune,
con la più disinibita satira, peggio ancora con l’invettiva.
Pertanto essi non condannano neanche apertamente: stigmatizzano
ignorando e tacendo, o più elegantemente, sorvolando.
In
poesia questo atteggiamento ostile e censorio, senza dubbio
pusillanime e piccolo-borghese, si ascrive all’irresponsabilità
pura, al razzismo letterario, e giova ad esaltare modelli
contenutistici e formali falsi e falsanti, avvantaggia scrittori
dalle potenzialità atrofiche e dalla mentalità angusta.
Passi
per le poetesse enfatiche, prive di strumenti autocritici che ne
arginino l’oleosità retorica e artefatta [tranne eccezioni, come
la Iandolo e la Di Zeo, si tratta novanta casi su cento di docenti
(indecenti)
di scuole medie e superiori o di dirigenti futili e vanesie]. Ma gli
intellettuali studiosi di poetiche non possono farsi complici di un
silenzio ingiurioso, gretto e pedante, quando incontrano autori che
devìano dalla celebrazione diabetica delle virtù insuperabili e
degli obiettivi sublimi (solo su carta) attribuiti (questo sì un
pregiudizio!) ai candidati alle vette del Parnaso. L’uomo è sì
capace di nobili azioni e di altruistici sacrifici, ma è tanto più
spesso ignobile, cazzista, snob, inconcludente, maniacale, corrotto,
manicheo, irrazionale, intollerante e settario. Non si capisce perché
i poeti debbano circolare in un giardino fiorito con alte siepi che
li separano dalle miserie più clamorose e dai delitti sociali più
aberranti e reiterati. È vero che spesso si scagliano contro la
guerra, che frignano sulla sorte dei cagnolini abbandonati e dei
vecchi respinti dai familiari; è vero che pontificano su mafie e
lupare bianche, sugli effetti devastanti degli tsunami e degli
uragani, sui bimbi denutriti e focomelici, sull’Aids o sulla mucca
pazza di turno, ma lo fanno con artata compartecipazione che puzza
oltre le classiche mille miglia. Non c’è genuinità, né verità,
perché alla base, nel midollo osseo e nelle loro grasse viscere
benestanti, non c’è tragedia, non c’è diretta esperienza
sofferta.
La
professione intellettuale dovrebbe avere un codice d’onore, un suo
giuramento di Ippocrate, dovrebbe conoscere, praticare e insegnare la
rettitudine. Al
contrario, celebra i poeti inquadrati in una visione asfittica
dell’uomo e delle cose; evita gli autori d’azione civile, di
pensiero integro ed attaccante, condannandoli ad una dimensione
fantasma, mentre divizza i mai smentiti pintori
di cartoline paesaggistiche, gli esaltatori di un regno
incorruttibile, i tolemaici tranquillizzanti e inermi, i simulatori
di emozioni e sentimenti senza succhi gastrici, prosperi di
piccinerie, di abusi di cerimonialità e di aulici toni da difensores
fidei terra terra. Pertanto,
Bonis nocet si quis
malis pepercerit
(nuoce alla Buona Poesia chi non condanna ed espelle la Cattiva).
Pasquale
Martiniello non ha mai conosciuto la giusta collocazione che spetta
alla sua poesia audace, coraggiosa, senza peli sulla lingua, che
testimonia lo stupro e lo scempio della democrazia e la perversa,
ininscardinabile demagogia dei politici radicati alle poltrone,
sopravanzato da esponenti di sciapite linee lombarde o da
esistenzialisti da mulattiera in Perù, da isteriche suorine di Croce
Rossa dalla penna fiorita alla Barbara Cartland (con tutto il
rispetto!); Toti Scialoja è stato pollicinizzato come scrittore
scherzoso, giocoso, per l’infanzia; Sandro Penna murato con calce
viva per i suoi canti sugli adolescenti; Assunta Finiguerra a lungo
confinata nel girone delle fattucchiere deliranti e sboccate.
Noi
stessi, sbrigativamente etichettati come sperimentatori,
termine viziato che si mangia la coda, veniamo tacitamente screditati
perché scagliamo invettive contro le storture del sistema o contro
privati cittadini, modelli di anti-rettitudine, oppure quando
addirittura raccontiamo il nostro passato senza complessi,
scardinando l’aura di sacralità della famiglia, o quando, sui
destini di questo mondo da noi compromesso e dannato, ci rifiutiamo
di jurare in verba
magistri.
La
Poesia, dunque, a causa di critici timorosi e partigiani, di poeti e
poetesse irremovibili dalle posizioni arretrate e ipocrite, viene
ferita (per fortuna non mortalmente) proprio nella sua natura
libertaria, che aborrisce i vetusti bastioni delle verità assolute e
delle forme di espressione e di pensiero rigoriste e antiquate; perde
i requisiti del pathos, dell’intrigo, della provocazione mai fine a
se stessa, e si riduce ad ancella che occulta il cannocchiale di
Galilei, rinuncia alla polemica fruttuosa proprio perché
disturbatrice e perturbante, persevera nella scorciatoia comoda del
buonismo di facciata, si banalizza, sbiadisce, si liquefa, si
suicida.
Poetesse
che hanno avuto un assaggio della nostra virulenta mordacità già in
Spiniger,
in Lomografia punto 6,
ne La persistenza del
dubbio e ne Il
Nettare e la Musa,
hanno preso, con loro e nostra
buona pace, le distanze da noi e dall’antologia, attualmente in
fase preparatoria, Carnet
da ballo; meritando
una forma di immortalità proprio nell’ispirarci versi ustorii, che
le vedono sciagurate protagoniste, a braccetto con le traditrici e i
traditori di Logopea (mammine, figliarielli e figliarelle,
incontentabili invidiosi, rauche ginnaste dallo sguardo ellittico,
maestrine dalla penna rossa a caccia di marito, ex dirigenti
scolastiche volubili e vistose, posticci custodi e guardiani della
cultura autodiretta), i critici e gli editori che esaltano i prodotti
fecali e gli ani che li espellono, con i detrattori e le grasse,
porcine ugole del mobbing.
Resta,
incontaminata, la poesia che non si sottrae all’etica, che agita
opportunamente la ferula, che pratica un j’accuse
leale e meditato, che aborrisce i canoni corrosi e corrosivi, che
smentisce leggi e principii ad
usum Delphini e/o
Cicero pro domo sua,
e favorisce una voce indipendente, aspra e sincera, sarcastica ed
efferata, ammonitrice e saggia. Mediamo da Hegel, che a sua volta la
riprese da Lutero e questi da J. Manlius nei Loci
communes, e questi
ancora da un motto attribuito all’imperatore Ferdinando I di
Asburgo: “Fiat
iustitia ne pereat Poesia”
(Sia fatta giustizia
affinché non perisca la –genuina– Poesia).
Vi
invitiamo a leggere le poesie selezionate qui di seguito, con lo
sparviero Pasquale
Martiniello, che immagina un ospedale anomalo, speciale e specifico
per sedicenti poeti (in cui potrebbe trovarsi ricoverato anche
qualche suo stretto familiare); a seguire l’invettiva avverso le
peggiori esponenti della congrega malefica della Fosca
Sorellanza, i lapilli
della azzannante Finiguerra, le malinconie struggenti
dell’inarrivabile Penna.
ARMANDO
SAVERIANO
HO
SOGNATO UN OSPEDALE
Ho
sognato un ospedale immenso
abitato dai poeti che sui lettini numerati
giacevano in camicie di forza
Un cartello al capezzale spiegava
la gravità dei mali il pericolo
del contagio le agonie e le pazzie
Non c’erano medici e né infermieri
Solo all’entrata all’Ufficio Informazioni
se ne stava un masticatore di rime
con la testa sepolta dentro un foglio
Appena mi scorge leva gli occhi
stralunati e mi chiede a che stadio è il male
Gli rispondo che sono un sano con un po’
di bronchite cronica da fumo che mi cagiona
talvolta affanno se erta è la scala della penitenza
Non c’è qui per te posto a meno che
non fingi dolori infernali serpenti che ti
mangiano le viscere spasimi abissali
Non ammatassi disperazioni per bambini
uccisi da fame e sete o per vecchi schifati
lasciati a crepare come cani estivi da figli
e nuore o per clandestini morti di asfissia
in cisterne o in stive o inghiottiti da tempeste
o per stragi di terroristi
Non credere che questi personaggi che tu sai
così distrutti da sofferenze e rimorsi di carità
da compenetrata assunzione di altrui tragedie
siano veri Qui stanno solo le ombre finte nella
tua mente Tutto è apparenza simulata ignobile
ingannatrice
Sono costruttori del male con le parole Guai
a sentirle figlie delle vere pene scavate dalla
roccia dell’anima Non troveresti mai un poeta
disposto a sanguinare per gli altri Sarebbe
un pazzo vero rifiutato dal manicomio divorato
da cupi pensieri e ossessivi
I poeti si divertono con gli scarti e giocano
con i dadi della fantasia Le poetesse truccano
i parti del dolore nei versi nati nelle stanze
delle parrucchiere leggendo cronache vere
abitato dai poeti che sui lettini numerati
giacevano in camicie di forza
Un cartello al capezzale spiegava
la gravità dei mali il pericolo
del contagio le agonie e le pazzie
Non c’erano medici e né infermieri
Solo all’entrata all’Ufficio Informazioni
se ne stava un masticatore di rime
con la testa sepolta dentro un foglio
Appena mi scorge leva gli occhi
stralunati e mi chiede a che stadio è il male
Gli rispondo che sono un sano con un po’
di bronchite cronica da fumo che mi cagiona
talvolta affanno se erta è la scala della penitenza
Non c’è qui per te posto a meno che
non fingi dolori infernali serpenti che ti
mangiano le viscere spasimi abissali
Non ammatassi disperazioni per bambini
uccisi da fame e sete o per vecchi schifati
lasciati a crepare come cani estivi da figli
e nuore o per clandestini morti di asfissia
in cisterne o in stive o inghiottiti da tempeste
o per stragi di terroristi
Non credere che questi personaggi che tu sai
così distrutti da sofferenze e rimorsi di carità
da compenetrata assunzione di altrui tragedie
siano veri Qui stanno solo le ombre finte nella
tua mente Tutto è apparenza simulata ignobile
ingannatrice
Sono costruttori del male con le parole Guai
a sentirle figlie delle vere pene scavate dalla
roccia dell’anima Non troveresti mai un poeta
disposto a sanguinare per gli altri Sarebbe
un pazzo vero rifiutato dal manicomio divorato
da cupi pensieri e ossessivi
I poeti si divertono con gli scarti e giocano
con i dadi della fantasia Le poetesse truccano
i parti del dolore nei versi nati nelle stanze
delle parrucchiere leggendo cronache vere
PASQUALE
MARTINIELLO
*
DOCENTINDECENTI
Le
nuove scherane della bionda volubile
Fantocce
Di mnemonica cultura impolpettata
Come da sclerotico copione accreditato
Sciamano nella foresta della burocrazia
Didattica s’attendano nella presidenza
Bivaccano viscide a tè e gianduiotti
Fumano come ladre impestano l’udito
Con la cadenza insopportabile bifolca
Propongono se stesse vicarie o capitane
Di progetti déjà-vu
Eccitate all’idea degli euro che guadagneranno
in più per PON e POF pretestuosi noiosi scadenti
Esse stesse li detestano ostentando entusiasmo fasullo
Cascano dritte dritte nella botola
Del loro essere maestrine caricate a molla
Promosse alle medie per meriti improbabili
Slinguazzano santi in ministero
E inciuci
Parlano sguaiato o nel tono sommesso
Che credono più elitario aristocratico
Sbagliando tutti gli accenti
Gorgiando la cPronunciando doppie le consonanti singole
E sonora la zeta aspra o viceversa
Insomma non hanno mai studiato ortoepia
Le asine laureate pensano con riserva
In bell’ordine infiocchettate anchilosate
Carampane prosciugate dagli anni impietosi
Ridicole bimbe si odiano con charme salottiero
Sono tutte abbracci assassini baci alla diossina
Sul tappeto soffice e venefico di sospetti sorrisi
D’accompagnamento in realtà ghigni
A tutta chiostra impiantata di fresco
Alcune vecchissime patetiche bamboleggiano
Sotto chiome cotonate biondo cenere
Meravigliosi anni settanta
Labbra inesistenti risucchiate sulle gengive
Abiti da matricole collegiali
Altre basse larghe scatasciate
Cosce grosse corte storte
Fanno musica del congenito grufolare
Coreggiano femmine del verro
Altre ancora in cerca di effimera gloria
D’istituto vittorieggiano strisciando
Ipocritamente umili Quale impostura
Secche Secche fanno tesoro degli appuntiti
Trofei di mariti oscuri sempre più insofferenti
Hanno sopracciglia depilate curve
Alla Bonolis sotto cui affondano occhi
Pescati dallo sterco vispo di volpe azzoppata
Le schifano gli alunni tanto quanto
Soggiacciono al rispettivo dispotismo
Per importanza di materia
Blaterano di teatro le sprovvedute tirannucce
Mi facciano il piacere scornacchiate
Moleste delirano di musical calpestano
Così la Grande Arte ministra delle Muse Sorelle
Ma andiamo non fatemi sbellicare
Non fatemi vomitare
Smorziamo le velleità impiccione
Non intossichiamo Tespi Rossi di San Secondo
E Saveriano
Macché teatro loro che nelle sillabe inciampano
Insaponando penziero con cosci- énza
Loro che tutt’altra arte che quella
Della Commedia praticano cotidie
Loro che storpieranno irrimediabilmente
Gli studentelli ignari e le famiglie compiacenti
Hanno competenze di impiegate che spiegano
Dal manuale
Leopardi e l’analisi grammaticale
Non escono da questo
Le non creative le antiletterate
Tassiste di antologia epica
Sartine di mitologia
Erbivendole delle tre declinazioni
Cuoche di storia e geografia
Musicanti di Brema
Pressappochiste
Eccole di punto in bianco esperte
In drammaturgia canto ballo
Mimo regia direzione di scena
Tra poco anche magistre in audioluci
Eredi di Euripide Plauto Corneille
Memè Perlini i De Filippo Patroni Griffi
Annibale Ruccello Stanislavskij
Strindberg Pirandello Poli Stransberg
Sthrelher Carmelo Bene
Sorride estasiata la Dirigente capricciosa
La zarina mutevole incostante
Ora innalza eroi ora li affossa
I tapini stupefatti basiti da tale e tanto
Repentino voltafaccia
Quasi non credono
D’aver avuto a che fare con ape regina
Modaiola estetizzante frivola
Altoborghese troppe piume
Orecchini orbitanti
Boa turchese abbaglianti gioie
E tutti quei frequenti impettitiQuinti
Fantocce
Di mnemonica cultura impolpettata
Come da sclerotico copione accreditato
Sciamano nella foresta della burocrazia
Didattica s’attendano nella presidenza
Bivaccano viscide a tè e gianduiotti
Fumano come ladre impestano l’udito
Con la cadenza insopportabile bifolca
Propongono se stesse vicarie o capitane
Di progetti déjà-vu
Eccitate all’idea degli euro che guadagneranno
in più per PON e POF pretestuosi noiosi scadenti
Esse stesse li detestano ostentando entusiasmo fasullo
Cascano dritte dritte nella botola
Del loro essere maestrine caricate a molla
Promosse alle medie per meriti improbabili
Slinguazzano santi in ministero
E inciuci
Parlano sguaiato o nel tono sommesso
Che credono più elitario aristocratico
Sbagliando tutti gli accenti
Gorgiando la cPronunciando doppie le consonanti singole
E sonora la zeta aspra o viceversa
Insomma non hanno mai studiato ortoepia
Le asine laureate pensano con riserva
In bell’ordine infiocchettate anchilosate
Carampane prosciugate dagli anni impietosi
Ridicole bimbe si odiano con charme salottiero
Sono tutte abbracci assassini baci alla diossina
Sul tappeto soffice e venefico di sospetti sorrisi
D’accompagnamento in realtà ghigni
A tutta chiostra impiantata di fresco
Alcune vecchissime patetiche bamboleggiano
Sotto chiome cotonate biondo cenere
Meravigliosi anni settanta
Labbra inesistenti risucchiate sulle gengive
Abiti da matricole collegiali
Altre basse larghe scatasciate
Cosce grosse corte storte
Fanno musica del congenito grufolare
Coreggiano femmine del verro
Altre ancora in cerca di effimera gloria
D’istituto vittorieggiano strisciando
Ipocritamente umili Quale impostura
Secche Secche fanno tesoro degli appuntiti
Trofei di mariti oscuri sempre più insofferenti
Hanno sopracciglia depilate curve
Alla Bonolis sotto cui affondano occhi
Pescati dallo sterco vispo di volpe azzoppata
Le schifano gli alunni tanto quanto
Soggiacciono al rispettivo dispotismo
Per importanza di materia
Blaterano di teatro le sprovvedute tirannucce
Mi facciano il piacere scornacchiate
Moleste delirano di musical calpestano
Così la Grande Arte ministra delle Muse Sorelle
Ma andiamo non fatemi sbellicare
Non fatemi vomitare
Smorziamo le velleità impiccione
Non intossichiamo Tespi Rossi di San Secondo
E Saveriano
Macché teatro loro che nelle sillabe inciampano
Insaponando penziero con cosci- énza
Loro che tutt’altra arte che quella
Della Commedia praticano cotidie
Loro che storpieranno irrimediabilmente
Gli studentelli ignari e le famiglie compiacenti
Hanno competenze di impiegate che spiegano
Dal manuale
Leopardi e l’analisi grammaticale
Non escono da questo
Le non creative le antiletterate
Tassiste di antologia epica
Sartine di mitologia
Erbivendole delle tre declinazioni
Cuoche di storia e geografia
Musicanti di Brema
Pressappochiste
Eccole di punto in bianco esperte
In drammaturgia canto ballo
Mimo regia direzione di scena
Tra poco anche magistre in audioluci
Eredi di Euripide Plauto Corneille
Memè Perlini i De Filippo Patroni Griffi
Annibale Ruccello Stanislavskij
Strindberg Pirandello Poli Stransberg
Sthrelher Carmelo Bene
Sorride estasiata la Dirigente capricciosa
La zarina mutevole incostante
Ora innalza eroi ora li affossa
I tapini stupefatti basiti da tale e tanto
Repentino voltafaccia
Quasi non credono
D’aver avuto a che fare con ape regina
Modaiola estetizzante frivola
Altoborghese troppe piume
Orecchini orbitanti
Boa turchese abbaglianti gioie
E tutti quei frequenti impettitiQuinti
ARMANDO
SAVERIANO
*
MI
HAI LASCIATO IN UN GHIACCIAIO
Mi
hai lasciato in un ghiacciaio
dove poso gli occhi tutto è stirato
come l’abito che la mamma ha infilato
al figlio morto per il male di cuore.
Stracca mi sento e avviata alla pazzia
vado volando con le ali scollate
scrivo quartine però il soffitto
vuole le travi della masseria.
Neanche una gioia mi passa davanti
la nebbiolina mi piscia a digiuno
la ruota del tempo gira a tastoni
e col mio sangue dipinge il tramonto.
dove poso gli occhi tutto è stirato
come l’abito che la mamma ha infilato
al figlio morto per il male di cuore.
Stracca mi sento e avviata alla pazzia
vado volando con le ali scollate
scrivo quartine però il soffitto
vuole le travi della masseria.
Neanche una gioia mi passa davanti
la nebbiolina mi piscia a digiuno
la ruota del tempo gira a tastoni
e col mio sangue dipinge il tramonto.
§
E
NON TI STANCHI
E
non ti stanchi mai di batter sempre
cuore mio bello, solo e sfortunato
tarlo di bocca sempre condannato
a restare muto con la lingua a fuoco
e batti, batti, batti, batti sempre
il peso della vita porti addosso
come lo zaino di quella puttana
che gode solo orgasmi morticini.
Tu batti io ti sento e ho paura
mi arrivi dal cuscino fiume in piena
rammento il terremoto di Messina
e penso che per me sia giunta l’ora.
cuore mio bello, solo e sfortunato
tarlo di bocca sempre condannato
a restare muto con la lingua a fuoco
e batti, batti, batti, batti sempre
il peso della vita porti addosso
come lo zaino di quella puttana
che gode solo orgasmi morticini.
Tu batti io ti sento e ho paura
mi arrivi dal cuscino fiume in piena
rammento il terremoto di Messina
e penso che per me sia giunta l’ora.
ASSUNTA
FINIGUERRA
*
LA
SEMPLICE POESIA
La
semplice poesia forse discende
distratta come cala al viaggiatore
entro l’arida folla di un convoglio
la mano sulla spalla di un ragazzo.
distratta come cala al viaggiatore
entro l’arida folla di un convoglio
la mano sulla spalla di un ragazzo.
§
UN
FANCIULLO CORREVA
Un
fanciullo correva dietro un treno.
La vita – mi gridava – è senza freno.
Salutavo, ridendo, con la mano
e calmo trasalivo, indi lontano.
La vita – mi gridava – è senza freno.
Salutavo, ridendo, con la mano
e calmo trasalivo, indi lontano.
§
FELICE
Felice
è stata oggi la mia casa.
Cani giovani e belli l’hanno invasa.
Ogni cosa hanno messo a soqquadro
di loro a me lasciando il più bel quadro.
Cani giovani e belli l’hanno invasa.
Ogni cosa hanno messo a soqquadro
di loro a me lasciando il più bel quadro.
§
SUBITO
SPARÍ
Uscì
dal verde inaspettato, ancora
un poco nudo, e subito sparì.
Restò nel caldo di quell’ora un caldo
odore, alcune mosche, - e io con loro.
un poco nudo, e subito sparì.
Restò nel caldo di quell’ora un caldo
odore, alcune mosche, - e io con loro.
SANDRO
PENNA
Carissimo Armando, leggo con animo attento il tuo potente pensiero sul pregiudizio che sicuramente nella poesia e nella vita, continuamente, falcia vittime e amicizie/inimicizie. Le tue osservazioni non danno scampo. Grazie per le poesie, soprattutto per il ricordo di Assunta Finiguerra, mia cara amica.
RispondiEliminaRita Pacilio