mercoledì 29 ottobre 2014

DOMENICO LUISO: FEBBRICITANTI PAROLE


Le Visioni fantasmagoriche di un maestro del metalinguaggio





Un grande poeta si spegne e nel firmamento della scrittura la sua luce continua a brillare, sia per l’intrinseca resistenza dell’opera svolta, sia per l’affettuoso, riguardoso interesse dei familiari e degli amici.
Domenico Luiso è nato a Bari, ha vissuto a Bitonto e lì è venuto a mancare, dopo lunga sofferenza e strenua battaglia contro il
male imbattibile. Era un uomo energico, volitivo, gentile, carico di voglia di vivere, di scrivere, di progettare.
Ma ha dovuto dichiarare resa all’oscura signora, che ha stabilito di reclamarlo a sé per quelle imperscrutabili ragioni che appartengono solo al destino personale di ognuno di noi. Luiso era dedito ai riti del Parnaso senza esibizioni e senza quella altezzosità che invece vantano in tanti, ignari e/o incuranti di tale piccineria.
Ci lascia sei volumetti, che coprono un ventennio: da “La condizione del cuore”, Ediz. Levante, Bari (1986) a “L’arsura delle ali”, Bastogi, Foggia (2004), “Il nuovo seme del canto”, Bastogi, Foggia (2008), fino al testamento “Di Febbri e di Parole”, sempre per i tipi di Bastogi, 2013.
Quasi cinquanta i primi premi conseguiti nei certamina in tutt’Italia: “ Città di Felino”, “Tra Secchia e Panaro”, “ Città di Buccino”, “Laurentum”, “Aspera-Alla Bottega”, “Aeclanum” (quando il concorso era alto e prestigioso, perché gestito dall’insostituibile Pasquale Martiniello, a Mirabella Eclano), “Ninfa Camarina”, “Città di Bari”, “Città di Pompei”, “Paestum”, “Le Groane”, “Castagneto Carducci”, “Riviera Adriatica”, e numerosi altri. Era cultore e appassionato di musica sinfonica e da camera. Ci spedì, in tempi non sospetti, il faldone con le liriche che componevano “Di Febbri e di Parole”, chiedendocene la prefazione. Come Martiniello, privilegiava le nostre note critiche, per la reticolarità argomentativa e l’aspetto tecnico carenti in altri commentatori più alla buona. Eccone la versione integrale:
Se fare poesia è anche un attivare/attuare l’estetica del senso (aisthánomai), con intento, addirittura con volizione, o in quanto effetto inevitabilmente rilevabile e valutabile alla luce dell’analisi critica –oltre che da essa oggettivizzata–, il verso che scaturisce dalla fertilità immaginativa del logos luisano è un vettore comunicativo che apre nell’ipotetico destinatario ogni possibilità di accesso e di “risposta”. Polifonia e policromia del verso sono energheia, duplicano l’atto (che da sé costantemente si ricrea) e che sancisce qualità e sconfinamenti del metalinguaggio. Lo stupore iniziale di chi percepisce, da perturbanza si evolve o forse si sdoppia in una sorta di meraviglia per l’acuzie visivo-visionaria, che espande suono e significanza.
La correlazione uomo-mondo-io esterno si trasforma ben presto, sottilmente, e malgrado le supposte intenzioni dell’autore, in asse dell’interrogazione archetipica, quella del cominciamento assoluto, e costringe il fruitore a porsi dubbi sull’antropocentrismo privilegiante di Protagora, per cedere il passo all’infiltrazione di una nuova coscienza: quella di un’armonia precaria, suscettibile di frustrazione e fallimento.
Questo, a dispetto dell’ossessiva ingerenza/invadenza dell’io poetante.
L’ispirazione – consapevole o in nuce – è nel poeta la sostituzione progressiva del divenire all’essere, un rovesciamento del platonismo, che si può evincere in Deleuze, in Whitehead e certamente in Gentile. Noi uomini (anche nell’elaborazione intricata delle visioni o sotto il bombardamento di quanto è percepibile/interpretabile) siamo costante, inarrestabile divenire: tutto ciò che in noi si genera, accade; è un ribaltamento della lezione aristotelica perché non è mancanza, ma evento. Quasi un sussumersi complici/attori, da oggetto che subisce a soggetto che agisce. In tal senso giova anche la lezione pirandelliana dell’essere quel che pare.
La poesia di Domenico Luiso è ricorrente, ribollente accadimento, un divenire che include nell’assoluto, determina e favorisce la connessione con tutti gli esseri naturali – e le svariate loro combinazioni – , quand’anche nell’illusorietà pirotecnica (flash ipnagogici, dilatazioni sensorie e scissioni psichedeliche) che si autoinduce reale (reale non come quidditas, ma in quanto quodditas). Il poeta è più che mai demiurgo, fin quando il potere del logos evocato non dia la convincente impressione di sfuggire alle formule stesse dell’ente creativo: l’estro si fa protagonista autonomo, mentre al poeta non resta che l’ebbrezza del trascinamento nel vortice inarrestabile, imprevedibile che egli ha acceso. D’altronde è proprio rigoglio e rutilanza immaginativa ( la facoltà dell’immaginazione, questo eccesso di vita invidiato e sovente avversato e violentato) che fungono da parziale e transitoria compensazione contro l’angoscia dell’impatto con il reale, che a sua volta innesca quella che in psicoanalisi viene definita pulsione acefala di morte (fino al punto da rendere sinonimi “morte” e “reale”).
Luiso tira le somme: ‘Governo forse un regno/le mie carte/sparso dominio preda d’ogni vento/che scava fosse tra le avemarie/scompaginando segni e pentagrammi /si abbatte il re di quadri in verticale/mentre si appoggia agli omeri del fante/ma chi governa l’asse cartesiano/piegato come un fiore a testa in giù/e chi le turgide domande inutili/come un osso sperduto nella sabbia/si sbriciola il castello e non ho mani/per questo soffio che io non conosco…’
Il poeta nel furore dionisiaco contempla e si assoggetta di buon grado alla tempesta dell’insaziato elemento ‘patetico’ (le emozioni viscerali, i gradi dell’empatia, a tratti quasi una paragnosia da tattile contatto con il quinto elemento: la fantasia reificantesi/reificata), che bandisce l’egoismo della verosimiglianza, smaschera e castiga l’ingenua dittatura di un messaggio riconoscibile e genericamente condiviso: aspettativa del cattivo lettore, forviato dalle prassi scolastiche stantie e malformative.
 Chi ha stabilito che la poesia debba essere immediata, domesticamente fruibile, alla portata di tutti? Concetto romantico, finalità enfatizzata dai numerosi approssimatori che imperversano nel mondo letterario di provincia, che strimpellano dalle cattedre nocive di licei incatramati nelle pastoie tradizionali di metodo e programma antiquati, formidabili deterrenti del benché minimo nascente interesse da parte di giovani già sufficientemente apatici di loro. Ci sarebbe da intavolare una serrata discussione sul senso e sulle modalità del comunicare, in arte e in letteratura, sennonché, in questa sede, tale argomento parrebbe risultare, benché utile, dispersivo. E dunque – si potrebbe osservare – Domenico Luiso scrive per se stesso, riserva a una nicchia parva il magistero di un verso che abbraccia ogni ipotesi e ogni bellezza, per sfuggirne simultaneamente? Se così fosse, che ci sarebbe da obiettare, o peggio ancora da sorprendersi? Nessuno qui nega dignità, fondatezza e nerbo, aggancio empatico, funzionalità, fascino e armonia nei capolavori di quegli innumerevoli poeti della (ossimorica) ‘difficile semplicità’, tant’è che elencarne i nomi sarebbe impossibile e risulterebbe sicuramente manchevole nei confronti di tanti.
La poesia è un paese sterminato, lussureggiante, dalla geografia differenziata, dove il diritto di cittadinanza spetta a tutti i genuini, gli onesti, i meritevoli, mentre ad essere espulsi per il rimpatrio nel nulla tocca soltanto ai burattinanti artefici di un prodotto farraginoso, clonato (e male), privo di travi di sostegno, non ‘commestibile’, men che mai allettante, sia esso lirico, epico, prosastico, pseudo-esistenziale, satirico, politico, didascalico, smanceroso o impavidamente zappettante quando pretende di procedere senza lume e senza sale lungo gli accidentati e sdrucciolevoli labirinti della sperimentazione. Il poeta oscilla senza soluzione di continuità tra rispetto dello statuto del logos ed entusiasmo quasi mistico per la polarità di materia in fusione ed immaginario intinto nell’onirico e nel sense of wonder, con i quali a intermittenza riapre e interrompe la sfida con se stesso, l’altro e l’oltre. A tal supporto non ci resta che interpellare Velimir Chlebnikov con la sua acuta locuzione, a proposito della funzione poetico-testimoniale: ‘la poesia e l’arte seminano gli occhi’, parafrasi di quanto dal canto suo sostiene Andrej Platonov: ‘la poesia e l’arte seminano le anime’. Questa seminagione che pratica (e rimodula) i codici espressivi, riproponendovi gli archetipi e scardinandone all’occorrenza le aspirazioni e le modalità di visione e di sue legittime o arbitrarie interpolazioni, la parola e l’immagine, è non soltanto un affilare la qualità della ricerca, ma offrirsi ad un continuum di silenzio-riflessione-ascolto-attenzione al cospetto di un mondo che mai potrebbe abdicare al suo movimento metamorfico, quand’anche non di rado esso ci appaia tragico e dissolutorio, beffardo e insostenibile.
La scelta di aprire un volume di Domenico Luiso significa che lo si conosce e lo si stima; se ne apprezza lo stile e lo spirito, si è avvezzi alla portata e all’attrait della difficoltà a visitarne stanze e sottopassaggi, a far ruotare il caleidoscopio, traendone il frutto di un arricchimento spirituale e lessicale e di un godimento intellettuale che lascia ben satolli. Perché i testi selezionati a comporre questa antologia, Di Febbri e di Parole, ultima in ordine d’uscita, rappresentano un’unica ‘scatola magica’, dove la notevole polisemia del dettato, le orchestrazioni allegoriche, le risonanze della dipintura emotiva sono un controcanto che impressiona per il suo gioco d’incastri tra sublime e pathos, fra epifenomenologia e guizzo del paradosso.
Si pensi a: ‘Non spunta il giorno senza la radice/urticante di sangue tra le zolle/e muove la sua voce per le strade/con lo strascico rosso degli alveoli/segreti dentro gli occhi della terra//E s’incammina il giorno e s’incatena/di nugoli di nuvole e d’insetti/fieri gorgheggi e umili lamenti/orecchie mute e occhi senza sguardo…’ O ancor più intensamente: ‘Parole confuse ritorte contorte/avvampano di nascita e di morte/ parole oleose come sacchi colmi/parole che rifuggono dai buchi/su queste spalle un gran telone pazzo/s’alza e si abbassa con la luce e l’ombra/un pulcino mattutino e un uovo marcio/un’aria allegra e un breve miserere/un’umida promessa e un risolino/un albero che gronda e un travicello/un palco con l’alloro e con il cappio/un cielo che si affloscia tra i sedili/un vento lento sulle code immote/ delle stanche lucertole sui grilli/coi pentagrammi spenti nelle antenne’.
Perfettamente esemplificativi: ‘Di tutti i miei pensieri esalati/uno scarto resiste, un rimasuglio/non copre tutti gli argini la pioggia/e ancora un occhio incerto mi si slaccia// Che vuole questo tempo che non graffia/ se mi riporta al covo degli amplessi/ all’alba che non brucia al seme/ di questa linfa che sorregge e inganna?//Questo mio occhio ultimo rampollo/d’una masnada di pensieri in fuga/al suo altare accosta la tua voce…’
Lo spaccato religioso s’insinua nell’andamento laico del discorso poetico (che non si nega a frequenti trabocchi mordaci e schernitori, persino a irriverenze divertite, o a sensualità morbide e improvvise) quando Luiso s’interroga sul punto d’unione (ammesso che esista) tra divino e umano, tra santo e profano, quasi inventandosi una speculazione tra rinuncia dell’uomo a Dio e rinuncia di Dio all’uomo senza grassetti o insistite sottolineature. Ciò porterebbe, riandando a Simone Weil, a una kenosis dell’Ente Divino nell’atto stesso della creazione/comunione, con la conseguente decreazione della creatura umana stessa, in una correlazione di svuotamento.
Non c’è alternativa a sopportare questo Vuoto? E la coscienza stessa del ‘Vuoto’, dal canto suo in circoscrivibile, decade dall’appartenenza all’io. In tal caso crollerebbe la correlazione universale ‘coscienza-mondo’. Il poeta non ci dà risposta, non può… sa che non può darsi risposta.
Il persistente dove del dubbio (che avanti a sé forse disperatamente spera) somiglia troppo alla certezza asciutta del nulla. Ma leggiamo per intero: ‘Dov’è il mio Dio?Ho aggiunto la mia bocca/a mille bocche prone/ su ciotole di ragni e di conchiglie/ ho allineato il passo/alla sinuosa danza della paglia/al galoppo forsennato dei cavalli/all’indolente incedere dei cani/Dov’è il mio Dio?Mi sono camuffato/ in mille parvenze e serie di fantasmi/mimando la paura/assurda ed infinita sotto il cielo/assurdo ed infinito/ Dov’è questo mio Dio?Nei tuguri/delle folle piangenti o nell’oppio/dei palazzi con fauci di titani/e sordidi cortei di eremiti/ E dove?Nel frastuono della morte di Cheope o sul greto silenzioso/dove giace riverso il grillo secco/ Dove?Nel rumore che atterrisce/il diafano silenzio o nella bava/del diafano silenzio sul rumore/ Dove, mio Dio? Anche in questa sera/la luna vecchia è sempre nuova/sarà un’altra luna o un simulacro/ messo a riflesso a scimmiottare incerto/il simulacro tuo/ e quello mio’.
Questo amaro, preciso e pur ambiguo riferimento finale ai ‘simulacri’ non induce forse ad una automatica sottrazione di maschera, di camouflage reciproco e inquietante [l’eliminazione delle confortanti, consolatorie consonanti (D)io e (m)io porta ad io]?
Domenico Luiso è maestro nel sospingere l’altalena delle allusioni ferenti, a volte autolesioniste, che danno la scossa al lettore, passandogli a staffetta un brivido, lo sconcerto, accelerazione e allentamento del battito al polso. Ma qui torniamo al ruolo precipuo della poesia che tanto caro e perseguito fu dagli illustri scomparsi Pasquale Martiniello, Aristide La Rocca, Assunta Finiguerra, ciascuno a modo proprio impugnatore di cavi elettrici snudati: la facoltà – e l’abilità, la vocazionale perseveranza – di interrompere il sonno della ragione, di infastidire la pigrizia letargica dei pusillanimi, di strigliare i sensi di colpa degli eterodiretti. Per tutti loro, e per Luiso, poetare è esercitare, con le belle, appropriate parole della filosofeggiante, perspicace Alla Gorbunova, una peculiarità organica del pensiero.
Torniamo all’indecostruibilità di filosofia e poesia, che condividono l’apice speculativo del pensare-dell’essere-del divenire; entrambe, grazie all’intimo concatenamento, diventano coestensive alla vita e alla succitata pulsione acefala di morte. Più che messaggio globale, si tratta di una dimostrazione lirica del concetto, che Domenico Luiso effonde e dona, ed è la sua costante dichiarazione di poetica. L’estro trascinante del poeta di Bitonto (cantore, giullare, aedo, negromante, servitore e ministro della Musa inaspettata) spira in ognuno dei suoi componimenti, ridefinendo la stessa indagine sulla parola che indica e percorre vie impegnative, mulattiere impervie, si inserra nello straniamento e si dischiude nei recessi semantici; esegue una rapente rapsodia, dove si rincorrono grazia e lacerazione, si fondono ombra e lattescenza, levigatezza e opacità, si moltiplicano i travagli, ma dispiegano i voli, le strofe vibrano di giochi fonetici e di barocchismi, rivelano transiti nel vedutismo. E non è da tutti realizzare il ritmo del suono con tanta eleganza nel taglio dell’astratto, elemento incisivo in questa scrittura, in questa testualità che si specchia nell’immagine e che l’immagine riversa negli interstizi di un inderogabile effetto vissuto.
Dai versi iniziali a quelli conclusivi si può facilmente individuare la peculiarità funzionale di un’arte oracolante, accompagnata e incoronata da un prestigio musicale: una metrica intrinseca col rapporto variabile di una voce pregna che – pura – sa sussurrare sino a dissolversi, per conferire il trionfo dell’attimo prezioso alla visione che appare-barbaglia-dispare, concedendo impressione cogitativa al ‘metasguardo auricolare’ (
vedere con l’orecchio, ascoltare con l’occhio!) del lettore/ascoltatore sensibile fino alla sensitività.
Di febbri e di Parole è una raccolta fantasmagorica che usa registri intermedi tra florilegi lirici, meditazioni profonde e rimandi eruditi: una prima lettura può frastornare, ma rapisce, mentre subito lascia il gusto e/o l’esigenza di un ritorno più attento, più consapevole, più analitico. Insomma, per una disamina sui concetti, sulle esperienze, senza categorizzazioni, senza perdere di vista che il pensiero emotivo è ‘causa’ dello scrivere, e la scrittura è sempre febbre: un allarme sconvolgente e salvifico della malattia del vivere, un flauto orgastico per la fantasia e l’immaginario, materia in fusione del creativo, il quale mette in gioco se stesso e a se stesso rivela il proprio inconscio.
La febbre, in poesia, può lasciare esausti, ma come guariti, come rimessi al mondo per metabolizzate concretezze e nuovi sogni. Fino alla prossima crisi. Fino al prossimo bisogno.
                                                  
                                                                                                            Armando Saveriano



DI FEBBRI E DI PAROLE – DOMENICO LUISO – BASTOGILIBRI, ROMA – 2013 – pp. 70 – Euro


CHE VUOI CHE TI RACCONTI?

Che vuoi che ti racconti mentre siedi
pallida come un’alba in questo bar?
L’inizio del mio viaggio di parole
è ormai un triste approdo senza sillabe
già fuggono i tuoi occhi nella luce
incerta del minuscolo abat-jour
mentre siedi
il silenzio del tuo volto
macchia di bianco il foglio spiegazzato
che avevo in tasca quando sono entrato
Oh tu che sei la sagoma sbilenca
dove è morto deluso e inappagato
il mio multiforme desiderio
Di te mi resta solo un grimaldello
folle nella mia mano folle
in cerca
di un varco nella roccia dura
dove
viva l’amara spina del rimpianto.

*

1175 FILOSOFI E SAPIENTI

Filosofi e sapienti nei pantani
quando fa notte accendono un lumino
e al vento danno rebus e anagrammi
sugli occhi opachi e tra le gambe incerte
piovono virgole somme sottrazioni
lingue cangianti in acque d’alfabeti
Il cielo è rosso e sottoterra è dio
grugniscono gli uccelli nel cemento
e vanno in volo stormi di maiali
fischiando sulle morte praterie
Filosofi e sofisti nei pantani
hanno casse con chiodi nella sabbia
scagliano fiori e cardi sulle culle
lasciate a dondolare in mezzo ai rovi
Noi sempre li sentiamo lungo il giorno
sberciato dalle ombre della notte
E raccattiamo i loro cocci alla rinfusa
per farne ricche ciotole d’unguenti
o tazze di cicuta.

*

UOMINI SOLI

Uomini soli
sparuti e sommersi
moviamo passi cauti e silenziosi
per non svegliare il gracidio degli alberi
e non leviamo il collo oltre i rami
uomini noi
coliamo come cere
paurosi di intrecci di cornacchie
e rostri e becchi alla deriva
siamo
felpati negli sguardi e nei pensieri
uomini soli
muti ci strapazzano venti
di cento fonti e cento nomi
il vento cambia faccia e si ribalta
nel significato
e noi non siamo
che una candela d’aria fatta a pezzi
uomini soli
col residuo segno
di un tremito agitato
È ciò che ci rimane
Inconsumato

DOMENICO LUISO


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