Le Visioni fantasmagoriche di un maestro del metalinguaggio
Un
grande poeta si spegne e nel firmamento della scrittura la sua luce
continua a brillare, sia per l’intrinseca resistenza dell’opera
svolta, sia per l’affettuoso, riguardoso interesse dei familiari e
degli amici.
Domenico Luiso è nato a Bari, ha vissuto a Bitonto e lì è venuto a mancare, dopo lunga sofferenza e strenua battaglia contro il male imbattibile. Era un uomo energico, volitivo, gentile, carico di voglia di vivere, di scrivere, di progettare.
Domenico Luiso è nato a Bari, ha vissuto a Bitonto e lì è venuto a mancare, dopo lunga sofferenza e strenua battaglia contro il male imbattibile. Era un uomo energico, volitivo, gentile, carico di voglia di vivere, di scrivere, di progettare.
Ma
ha dovuto dichiarare resa all’oscura signora, che ha stabilito di
reclamarlo a sé per quelle imperscrutabili ragioni che appartengono
solo al destino personale di ognuno di noi. Luiso era dedito ai riti
del Parnaso senza esibizioni e senza quella altezzosità che invece
vantano in tanti, ignari e/o incuranti di tale piccineria.
Ci lascia sei volumetti, che coprono un ventennio: da “La condizione del cuore”, Ediz. Levante, Bari (1986) a “L’arsura delle ali”, Bastogi, Foggia (2004), “Il nuovo seme del canto”, Bastogi, Foggia (2008), fino al testamento “Di Febbri e di Parole”, sempre per i tipi di Bastogi, 2013.
Ci lascia sei volumetti, che coprono un ventennio: da “La condizione del cuore”, Ediz. Levante, Bari (1986) a “L’arsura delle ali”, Bastogi, Foggia (2004), “Il nuovo seme del canto”, Bastogi, Foggia (2008), fino al testamento “Di Febbri e di Parole”, sempre per i tipi di Bastogi, 2013.
Quasi
cinquanta i primi premi conseguiti nei certamina
in tutt’Italia: “ Città di Felino”, “Tra Secchia e Panaro”,
“ Città di Buccino”, “Laurentum”, “Aspera-Alla Bottega”,
“Aeclanum” (quando il concorso era
alto e prestigioso, perché gestito dall’insostituibile
Pasquale Martiniello, a Mirabella Eclano), “Ninfa Camarina”,
“Città di Bari”, “Città di Pompei”, “Paestum”, “Le
Groane”, “Castagneto Carducci”, “Riviera Adriatica”, e
numerosi altri. Era cultore e appassionato di musica sinfonica e da
camera. Ci spedì, in tempi non sospetti, il faldone con le liriche
che componevano “Di Febbri e di Parole”, chiedendocene la
prefazione. Come Martiniello, privilegiava le nostre note critiche,
per la reticolarità argomentativa e l’aspetto tecnico carenti in
altri commentatori più alla buona. Eccone la versione integrale:
“Se
fare poesia è anche un attivare/attuare l’estetica del senso
(aisthánomai), con
intento, addirittura con volizione, o in quanto effetto
inevitabilmente rilevabile e valutabile alla luce dell’analisi
critica –oltre che da essa oggettivizzata–, il verso che
scaturisce dalla fertilità immaginativa del logos
luisano è un vettore comunicativo che apre nell’ipotetico
destinatario ogni possibilità di accesso e di “risposta”.
Polifonia e policromia del verso sono energheia,
duplicano l’atto (che da sé costantemente si ricrea) e che
sancisce qualità e sconfinamenti del metalinguaggio. Lo stupore
iniziale di chi percepisce, da perturbanza si evolve o forse si
sdoppia in una sorta di meraviglia per l’acuzie visivo-visionaria,
che espande suono e significanza.
La correlazione uomo-mondo-io esterno si trasforma ben presto, sottilmente, e malgrado le supposte intenzioni dell’autore, in asse dell’interrogazione archetipica, quella del cominciamento assoluto, e costringe il fruitore a porsi dubbi sull’antropocentrismo privilegiante di Protagora, per cedere il passo all’infiltrazione di una nuova coscienza: quella di un’armonia precaria, suscettibile di frustrazione e fallimento.
Questo, a dispetto dell’ossessiva ingerenza/invadenza dell’io poetante.
La correlazione uomo-mondo-io esterno si trasforma ben presto, sottilmente, e malgrado le supposte intenzioni dell’autore, in asse dell’interrogazione archetipica, quella del cominciamento assoluto, e costringe il fruitore a porsi dubbi sull’antropocentrismo privilegiante di Protagora, per cedere il passo all’infiltrazione di una nuova coscienza: quella di un’armonia precaria, suscettibile di frustrazione e fallimento.
Questo, a dispetto dell’ossessiva ingerenza/invadenza dell’io poetante.
“ L’ispirazione
– consapevole o in
nuce – è nel poeta
la sostituzione progressiva del divenire all’essere, un
rovesciamento del platonismo, che si può evincere in Deleuze, in
Whitehead e certamente in Gentile. Noi uomini (anche
nell’elaborazione intricata delle visioni o sotto il bombardamento
di quanto è percepibile/interpretabile) siamo costante,
inarrestabile divenire: tutto ciò che in noi si genera, accade; è
un ribaltamento della lezione aristotelica perché non è mancanza,
ma evento. Quasi un sussumersi
complici/attori, da oggetto che subisce a soggetto che agisce. In tal
senso giova anche la lezione pirandelliana dell’essere quel
che pare.
“La
poesia di Domenico Luiso è ricorrente, ribollente accadimento, un
divenire che include
nell’assoluto, determina e favorisce la connessione con tutti gli
esseri naturali – e le svariate loro combinazioni – , quand’anche
nell’illusorietà pirotecnica (flash ipnagogici, dilatazioni
sensorie e scissioni psichedeliche) che si autoinduce
reale (reale non come
quidditas,
ma in quanto quodditas).
Il poeta è più che mai demiurgo,
fin quando il potere del logos
evocato non dia la convincente impressione di sfuggire alle formule
stesse dell’ente creativo: l’estro si fa protagonista autonomo,
mentre al poeta non resta che l’ebbrezza del trascinamento nel
vortice inarrestabile, imprevedibile che egli ha acceso. D’altronde
è proprio rigoglio e rutilanza immaginativa ( la facoltà
dell’immaginazione, questo eccesso di vita invidiato e sovente
avversato e violentato) che fungono da parziale e transitoria
compensazione contro l’angoscia dell’impatto con il reale, che a
sua volta innesca quella che in psicoanalisi viene definita pulsione
acefala di morte (fino
al punto da rendere
sinonimi “morte” e “reale”).
“ Luiso
tira le somme: ‘Governo
forse un regno/le mie carte/sparso dominio preda d’ogni vento/che
scava fosse tra le avemarie/scompaginando segni e pentagrammi /si
abbatte il re di quadri in verticale/mentre si appoggia agli omeri
del fante/ma chi governa l’asse cartesiano/piegato come un fiore a
testa in giù/e chi le turgide domande inutili/come un osso sperduto
nella sabbia/si sbriciola il castello e non ho mani/per questo soffio
che io non conosco…’
“ Il
poeta nel furore dionisiaco contempla e si assoggetta di buon grado
alla tempesta dell’insaziato elemento ‘patetico’ (le emozioni
viscerali, i gradi dell’empatia, a tratti quasi una
paragnosia da tattile
contatto con il quinto
elemento: la fantasia
reificantesi/reificata), che bandisce l’egoismo della
verosimiglianza, smaschera e castiga l’ingenua dittatura di un
messaggio riconoscibile e genericamente condiviso: aspettativa del
cattivo
lettore, forviato dalle prassi scolastiche stantie e malformative.
“Chi
ha stabilito che la poesia debba
essere immediata, domesticamente fruibile, alla portata di tutti?
Concetto romantico, finalità enfatizzata dai numerosi approssimatori
che imperversano nel mondo letterario di provincia, che strimpellano
dalle cattedre nocive di licei incatramati nelle pastoie tradizionali
di metodo e programma antiquati, formidabili deterrenti del benché
minimo nascente interesse da parte di giovani già sufficientemente
apatici di loro. Ci sarebbe da intavolare una serrata discussione sul
senso e sulle modalità del comunicare, in arte e in letteratura,
sennonché, in questa sede, tale argomento parrebbe risultare, benché
utile, dispersivo. E dunque – si potrebbe osservare – Domenico
Luiso scrive per se stesso, riserva a una nicchia parva
il magistero di un verso che abbraccia ogni ipotesi e ogni bellezza,
per sfuggirne simultaneamente? Se così fosse, che ci sarebbe da
obiettare, o peggio ancora da sorprendersi? Nessuno qui nega dignità,
fondatezza e nerbo, aggancio empatico, funzionalità, fascino e
armonia nei capolavori di quegli innumerevoli poeti della
(ossimorica) ‘difficile semplicità’, tant’è che elencarne i
nomi sarebbe impossibile e risulterebbe sicuramente manchevole nei
confronti di tanti.
“La
poesia è un paese sterminato, lussureggiante, dalla geografia
differenziata, dove il diritto di cittadinanza spetta a tutti i
genuini, gli onesti, i meritevoli, mentre ad essere espulsi per il
rimpatrio nel nulla tocca soltanto ai burattinanti artefici di un
prodotto farraginoso, clonato (e male), privo di travi di sostegno,
non ‘commestibile’, men che mai allettante, sia esso lirico,
epico, prosastico, pseudo-esistenziale, satirico, politico,
didascalico, smanceroso o impavidamente zappettante quando pretende
di procedere senza lume e senza sale lungo gli accidentati e
sdrucciolevoli labirinti della sperimentazione. Il poeta oscilla
senza soluzione di continuità tra rispetto dello statuto del logos
ed entusiasmo quasi mistico per la polarità di materia in fusione ed
immaginario intinto nell’onirico e nel sense
of wonder, con i quali
a intermittenza riapre e interrompe la sfida con se stesso, l’altro
e l’oltre.
A tal supporto non ci resta che interpellare Velimir Chlebnikov con
la sua acuta locuzione, a proposito della funzione
poetico-testimoniale: ‘la
poesia e l’arte seminano gli occhi’,
parafrasi di quanto dal canto suo sostiene Andrej Platonov: ‘la
poesia e l’arte seminano le anime’.
Questa seminagione che pratica (e rimodula) i codici espressivi,
riproponendovi gli archetipi e scardinandone all’occorrenza le
aspirazioni e le modalità di visione e di sue legittime o arbitrarie
interpolazioni, la parola e l’immagine, è non soltanto un affilare
la qualità della ricerca, ma offrirsi ad un continuum di
silenzio-riflessione-ascolto-attenzione al cospetto di un mondo che
mai potrebbe abdicare al suo movimento metamorfico, quand’anche non
di rado esso ci appaia tragico e dissolutorio, beffardo e
insostenibile.
“La
scelta di aprire un volume di Domenico Luiso significa che lo si
conosce e lo si stima; se ne apprezza lo stile e lo spirito, si è
avvezzi alla portata e all’attrait
della difficoltà a visitarne stanze e sottopassaggi, a far ruotare
il caleidoscopio, traendone il frutto di un arricchimento spirituale
e lessicale e di un godimento intellettuale che lascia ben satolli.
Perché i testi selezionati a comporre questa antologia, Di
Febbri e di Parole,
ultima in ordine d’uscita, rappresentano un’unica ‘scatola
magica’, dove la notevole polisemia del dettato, le orchestrazioni
allegoriche, le risonanze della dipintura emotiva sono un controcanto
che impressiona per il suo gioco d’incastri tra sublime e pathos,
fra epifenomenologia e guizzo del paradosso.
“Si
pensi a: ‘Non spunta
il giorno senza la radice/urticante di sangue tra le zolle/e muove la
sua voce per le strade/con lo strascico rosso degli alveoli/segreti
dentro gli occhi della terra//E s’incammina il giorno e
s’incatena/di nugoli di nuvole e d’insetti/fieri gorgheggi e
umili lamenti/orecchie mute e occhi senza sguardo…’
O ancor più intensamente: ‘Parole
confuse ritorte contorte/avvampano di nascita e di morte/ parole
oleose come sacchi colmi/parole che rifuggono dai buchi/su queste
spalle un gran telone pazzo/s’alza e si abbassa con la luce e
l’ombra/un pulcino mattutino e un uovo marcio/un’aria allegra e
un breve miserere/un’umida promessa e un risolino/un albero che
gronda e un travicello/un palco con l’alloro e con il cappio/un
cielo che si affloscia tra i sedili/un vento lento sulle code immote/
delle stanche lucertole sui grilli/coi pentagrammi spenti nelle
antenne’.
“Perfettamente
esemplificativi: ‘Di
tutti i miei pensieri esalati/uno scarto resiste, un rimasuglio/non
copre tutti gli argini la pioggia/e ancora un occhio incerto mi si
slaccia// Che vuole questo tempo che non graffia/ se mi riporta al
covo degli amplessi/ all’alba che non brucia al seme/ di questa
linfa che sorregge e inganna?//Questo mio occhio ultimo
rampollo/d’una masnada di pensieri in fuga/al suo altare accosta la
tua voce…’
“Lo
spaccato religioso s’insinua nell’andamento laico del discorso
poetico (che non si nega a frequenti trabocchi mordaci e schernitori,
persino a irriverenze divertite, o a sensualità morbide e
improvvise) quando Luiso s’interroga sul punto d’unione (ammesso
che esista) tra divino e umano, tra santo e profano, quasi
inventandosi una speculazione tra rinuncia dell’uomo a Dio e
rinuncia di Dio all’uomo senza grassetti o insistite
sottolineature. Ciò porterebbe, riandando a Simone Weil, a una
kenosis dell’Ente
Divino nell’atto stesso della creazione/comunione, con la
conseguente decreazione
della creatura umana stessa, in una correlazione di svuotamento.
“Non
c’è alternativa a sopportare questo Vuoto? E la coscienza stessa
del ‘Vuoto’, dal canto suo in circoscrivibile, decade
dall’appartenenza all’io. In tal caso crollerebbe la correlazione
universale ‘coscienza-mondo’. Il poeta non ci dà risposta, non
può… sa che non può darsi
risposta.
“Il
persistente dove
del dubbio (che avanti a sé forse disperatamente spera) somiglia
troppo alla certezza asciutta del nulla.
Ma leggiamo per
intero: ‘Dov’è il
mio Dio?Ho aggiunto la mia bocca/a mille bocche prone/ su ciotole di
ragni e di conchiglie/ ho allineato il passo/alla sinuosa danza della
paglia/al galoppo forsennato dei cavalli/all’indolente incedere dei
cani/Dov’è il mio Dio?Mi sono camuffato/ in mille parvenze e serie
di fantasmi/mimando la paura/assurda ed infinita sotto il
cielo/assurdo ed infinito/ Dov’è questo mio Dio?Nei tuguri/delle
folle piangenti o nell’oppio/dei palazzi con fauci di titani/e
sordidi cortei di eremiti/ E dove?Nel frastuono della morte di Cheope
o sul greto silenzioso/dove giace riverso il grillo secco/ Dove?Nel
rumore che atterrisce/il diafano silenzio o nella bava/del diafano
silenzio sul rumore/ Dove, mio Dio? Anche in questa sera/la luna
vecchia è sempre nuova/sarà un’altra luna o un simulacro/ messo a
riflesso a scimmiottare incerto/il simulacro tuo/ e quello mio’.
“ Questo
amaro, preciso e pur ambiguo riferimento finale ai ‘simulacri’
non induce forse ad una automatica sottrazione di maschera, di
camouflage
reciproco e inquietante [l’eliminazione delle confortanti,
consolatorie consonanti (D)io e (m)io porta ad io]?
“Domenico
Luiso è maestro nel sospingere l’altalena delle allusioni ferenti,
a volte autolesioniste, che danno la scossa al lettore, passandogli a
staffetta un brivido, lo sconcerto, accelerazione e allentamento del
battito al polso. Ma qui torniamo al ruolo precipuo della poesia che
tanto caro e perseguito fu dagli illustri scomparsi Pasquale
Martiniello, Aristide La Rocca, Assunta Finiguerra, ciascuno a modo
proprio impugnatore di cavi elettrici snudati: la facoltà – e
l’abilità, la vocazionale perseveranza – di interrompere il
sonno della ragione, di infastidire la pigrizia letargica dei
pusillanimi, di strigliare i sensi di colpa degli eterodiretti. Per
tutti loro, e per Luiso, poetare è esercitare, con le belle,
appropriate parole della filosofeggiante, perspicace Alla Gorbunova,
una peculiarità
organica
del pensiero.
“Torniamo
all’indecostruibilità di filosofia e poesia, che condividono
l’apice speculativo del pensare-dell’essere-del divenire;
entrambe, grazie all’intimo concatenamento, diventano coestensive
alla vita e alla succitata pulsione
acefala di morte. Più
che messaggio globale, si tratta di una dimostrazione lirica del
concetto, che Domenico Luiso effonde e dona, ed è la sua costante
dichiarazione di poetica. L’estro trascinante del poeta di Bitonto
(cantore, giullare, aedo, negromante, servitore e ministro della Musa
inaspettata)
spira in ognuno dei suoi componimenti, ridefinendo la stessa indagine
sulla parola che indica e percorre vie impegnative, mulattiere
impervie, si inserra nello straniamento e si dischiude nei recessi
semantici; esegue una rapente rapsodia, dove si rincorrono grazia e
lacerazione, si fondono ombra e lattescenza, levigatezza e opacità,
si moltiplicano i travagli, ma dispiegano i voli, le strofe vibrano
di giochi fonetici e di barocchismi, rivelano transiti nel vedutismo.
E non è da tutti realizzare il ritmo del suono con tanta eleganza
nel taglio dell’astratto, elemento incisivo in questa scrittura, in
questa testualità che si specchia nell’immagine e che l’immagine
riversa negli interstizi di un inderogabile effetto vissuto.
Dai versi iniziali a quelli conclusivi si può facilmente individuare la peculiarità funzionale di un’arte oracolante, accompagnata e incoronata da un prestigio musicale: una metrica intrinseca col rapporto variabile di una voce pregna che – pura – sa sussurrare sino a dissolversi, per conferire il trionfo dell’attimo prezioso alla visione che appare-barbaglia-dispare, concedendo impressione cogitativa al ‘metasguardo auricolare’ (vedere con l’orecchio, ascoltare con l’occhio!) del lettore/ascoltatore sensibile fino alla sensitività.
Dai versi iniziali a quelli conclusivi si può facilmente individuare la peculiarità funzionale di un’arte oracolante, accompagnata e incoronata da un prestigio musicale: una metrica intrinseca col rapporto variabile di una voce pregna che – pura – sa sussurrare sino a dissolversi, per conferire il trionfo dell’attimo prezioso alla visione che appare-barbaglia-dispare, concedendo impressione cogitativa al ‘metasguardo auricolare’ (vedere con l’orecchio, ascoltare con l’occhio!) del lettore/ascoltatore sensibile fino alla sensitività.
“Di
febbri e di Parole è
una raccolta
fantasmagorica che usa
registri intermedi tra florilegi lirici, meditazioni profonde e
rimandi eruditi: una prima lettura può frastornare, ma rapisce,
mentre subito lascia il gusto e/o l’esigenza
di un ritorno più
attento, più consapevole, più analitico. Insomma, per una disamina
sui concetti, sulle esperienze, senza categorizzazioni, senza perdere
di vista che il pensiero
emotivo è ‘causa’
dello scrivere, e la scrittura è sempre febbre:
un allarme sconvolgente e salvifico della malattia
del vivere, un flauto
orgastico per la fantasia e l’immaginario, materia in fusione del
creativo, il quale mette in gioco se stesso e a se stesso rivela il
proprio inconscio.
“La
febbre, in poesia, può
lasciare esausti, ma come guariti, come rimessi al mondo per
metabolizzate concretezze e nuovi sogni. Fino alla prossima crisi.
Fino al prossimo bisogno.
Armando
Saveriano
DI
FEBBRI E DI PAROLE – DOMENICO LUISO – BASTOGILIBRI, ROMA – 2013
– pp. 70 – Euro
CHE
VUOI CHE TI RACCONTI?
Che
vuoi che ti racconti mentre siedi
pallida come un’alba in questo bar?
L’inizio del mio viaggio di parole
è ormai un triste approdo senza sillabe
già fuggono i tuoi occhi nella luce
incerta del minuscolo abat-jour
mentre siedi
il silenzio del tuo volto
macchia di bianco il foglio spiegazzato
che avevo in tasca quando sono entrato
Oh tu che sei la sagoma sbilenca
dove è morto deluso e inappagato
il mio multiforme desiderio
Di te mi resta solo un grimaldello
folle nella mia mano folle
in cerca
di un varco nella roccia dura
dove
viva l’amara spina del rimpianto.
pallida come un’alba in questo bar?
L’inizio del mio viaggio di parole
è ormai un triste approdo senza sillabe
già fuggono i tuoi occhi nella luce
incerta del minuscolo abat-jour
mentre siedi
il silenzio del tuo volto
macchia di bianco il foglio spiegazzato
che avevo in tasca quando sono entrato
Oh tu che sei la sagoma sbilenca
dove è morto deluso e inappagato
il mio multiforme desiderio
Di te mi resta solo un grimaldello
folle nella mia mano folle
in cerca
di un varco nella roccia dura
dove
viva l’amara spina del rimpianto.
*
1175
FILOSOFI E SAPIENTI
Filosofi
e sapienti nei pantani
quando fa notte accendono un lumino
e al vento danno rebus e anagrammi
sugli occhi opachi e tra le gambe incerte
piovono virgole somme sottrazioni
lingue cangianti in acque d’alfabeti
Il cielo è rosso e sottoterra è dio
grugniscono gli uccelli nel cemento
e vanno in volo stormi di maiali
fischiando sulle morte praterie
Filosofi e sofisti nei pantani
hanno casse con chiodi nella sabbia
scagliano fiori e cardi sulle culle
lasciate a dondolare in mezzo ai rovi
Noi sempre li sentiamo lungo il giorno
sberciato dalle ombre della notte
E raccattiamo i loro cocci alla rinfusa
per farne ricche ciotole d’unguenti
o tazze di cicuta.
quando fa notte accendono un lumino
e al vento danno rebus e anagrammi
sugli occhi opachi e tra le gambe incerte
piovono virgole somme sottrazioni
lingue cangianti in acque d’alfabeti
Il cielo è rosso e sottoterra è dio
grugniscono gli uccelli nel cemento
e vanno in volo stormi di maiali
fischiando sulle morte praterie
Filosofi e sofisti nei pantani
hanno casse con chiodi nella sabbia
scagliano fiori e cardi sulle culle
lasciate a dondolare in mezzo ai rovi
Noi sempre li sentiamo lungo il giorno
sberciato dalle ombre della notte
E raccattiamo i loro cocci alla rinfusa
per farne ricche ciotole d’unguenti
o tazze di cicuta.
*
UOMINI
SOLI
Uomini
soli
sparuti e sommersi
moviamo passi cauti e silenziosi
per non svegliare il gracidio degli alberi
e non leviamo il collo oltre i rami
uomini noi
coliamo come cere
paurosi di intrecci di cornacchie
e rostri e becchi alla deriva
siamo
felpati negli sguardi e nei pensieri
uomini soli
muti ci strapazzano venti
di cento fonti e cento nomi
il vento cambia faccia e si ribalta
nel significato
e noi non siamo
che una candela d’aria fatta a pezzi
uomini soli
col residuo segno
di un tremito agitato
È ciò che ci rimane
Inconsumato
sparuti e sommersi
moviamo passi cauti e silenziosi
per non svegliare il gracidio degli alberi
e non leviamo il collo oltre i rami
uomini noi
coliamo come cere
paurosi di intrecci di cornacchie
e rostri e becchi alla deriva
siamo
felpati negli sguardi e nei pensieri
uomini soli
muti ci strapazzano venti
di cento fonti e cento nomi
il vento cambia faccia e si ribalta
nel significato
e noi non siamo
che una candela d’aria fatta a pezzi
uomini soli
col residuo segno
di un tremito agitato
È ciò che ci rimane
Inconsumato
DOMENICO
LUISO
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