Il
nome di Enzo D’Antonio, medico originario di Capurso (Ba), era
sconosciuto alle personali nostre mappe poetiche, estraneo
sicuramente anche ad altre realtà territoriali che organizzano
percorsi analitici, reading e antologie. L’amico comune dott.
Gaetano Guglielmo ci consegna una plaquette del collega, edita in
proprio, con trenta componimenti, che non sono i primi a godere delle
stampe (sono infatti preceduti dalle sillogi: “Forse Amore”,
2002; “Sentiero Notturno”, 2009), benché –presumiamo–
ugualmente in penombra, alla chetichella, tout-court
in tipografia. Il volumetto non ha pretese di rilegatura raffinata: è
spillato, molto pratico, con un pregevole disegno del M° Giuseppe Di
Mauro in copertina, che raffigura gli uccelli simbolici del titolo:
“Fenicotteri”. Questa “estraneità” ai circuiti ufficiali,
come la nostra “Logopea” o come il “Centro di Documentazione
Della Poesia Del Sud”, fondato e co-diretto da Paolo Saggese e
Giuseppe Iuliano, con la collaborazione di Raffaele Stella,
Alessandro Di Napoli e l’onnipresente tuttologa “La Grande Madre”
(al secolo Franca Molinaro), potrebbe essere spiegata con l’aderenza
(poco o nulla documentata) a sistemi sanguigni minori, più generosi
nell’accogliere autori ruspanti, dediti all’organizzazione di
premi paraletterari che non fanno mancare mai a nessuno diplomi,
targhe e coppe traballanti, quali che siano l’effettivo valore del
testo e le embrionali potenzialità dei partecipanti. Volente o
nolente, tocca adesso a D’Antonio lacerare la bolla di
pressappochismo in cui era, inconsapevolmente, confinato, recluso,
per approdare ad una effettiva presa di coscienza dei propri livelli
qualitativi e dei propri limiti.
Vantare
una introduzione firmata da Federico Sanguineti non è poco e non è
da tutti. Sanguineti ci elargisce un commento generico ed efficace,
cita anche referenti illustri (Pascoli, Saba, Montale), ma si guarda
bene dall’impugnare il bisturi della dissezione scolastica, come
assai meno felicemente fa, in buona fede, Antonio Vitolo. Non siamo
sui banchi di scuola, costretti a subìre la parafrasi imposta dai
metodi e dai programmi tradizionali; il lettore deve essere lasciato
libero di interpretare, e di suggerire così, allo stesso autore, la
propria versione di quanto i versi hanno suscitato, svelando anzi
sfumature di pensiero insospettate, intuizioni altre,
magari intriganti.
La
poesia, continuiamo a ripeterlo da tempo (invano?), non va spiegata,
e qualora un lettore rivolgesse al poeta l’ingenua domanda: “Cosa
vuole dire in questo componimento/in questa strofa/ in questo
passaggio?”, l’interpellato ha tutto il diritto (intelligente) di
replicare: “Ah, non lo so, guardi. Me lo dica lei.”
Inoltre guasta un tantino l’abbondante grattugiata di retorica nelle spiegazioni a tutti i costi. Sia più asciutto, Vitolo, in futuro. Non deprezziamo, qui, il suo lavoro; lo invitiamo però a tralasciare le didattiche superflue e ampollose e a dimenticare di essere dietro la cattedra anche quando non sta a scuola, e accetta di commentare una poetica, anzi di illustrarla, con misura e brillante intuizione. Un fruitore emancipato di libretti di poesia non ama essere trattato, dopo tanti anni, alla stregua di un tipico, comune liceale riottoso e sprovveduto.
Se si ascoltasse Dante, invece di affidarlo all’anatomopatologo di turno, gli studenti lo amerebbero di più.
La poesia, quando accade, parla da sola. Non ha necessariamente bisogno di una ferrea metrica, che, se applicata con superbia e superficialità, inquina e danneggia, invece di magnificare, costituendo un armonico spartito musicale. Non è, la nostra, un’apologia dello sciattume; una dosata perizia metrica è sempre lodevole, utile alla conoscenza, almeno come bagaglio tecnico-culturale, ma se ne può fare a meno (ce lo rammentano, con buona grazia, già Hölderlin e Novalis nel XVIII secolo in Germania, per tacere di Walt Whitman e Arthur Rimbaud, Bertolt Brecht, o Corrado Govoni, o l’austriaco Ernst Jandl, o Apollinaire -precursore del Surrealismo- allorché abolisce la punteggiatura); quando –per inciso– uno dei nostri giovani poeti più eclettici dopo Costantino Pacilio, Gerardo Iandoli, la applica alla lettera, nuoce alla resa e meccanicizza la bellezza e l’armonia (il che sembra un paradosso). Restano in piedi, nel suo caso, l’audacia, l’azzardo delle idee, gli accostamenti inediti ed arditi della parola.
Inoltre guasta un tantino l’abbondante grattugiata di retorica nelle spiegazioni a tutti i costi. Sia più asciutto, Vitolo, in futuro. Non deprezziamo, qui, il suo lavoro; lo invitiamo però a tralasciare le didattiche superflue e ampollose e a dimenticare di essere dietro la cattedra anche quando non sta a scuola, e accetta di commentare una poetica, anzi di illustrarla, con misura e brillante intuizione. Un fruitore emancipato di libretti di poesia non ama essere trattato, dopo tanti anni, alla stregua di un tipico, comune liceale riottoso e sprovveduto.
Se si ascoltasse Dante, invece di affidarlo all’anatomopatologo di turno, gli studenti lo amerebbero di più.
La poesia, quando accade, parla da sola. Non ha necessariamente bisogno di una ferrea metrica, che, se applicata con superbia e superficialità, inquina e danneggia, invece di magnificare, costituendo un armonico spartito musicale. Non è, la nostra, un’apologia dello sciattume; una dosata perizia metrica è sempre lodevole, utile alla conoscenza, almeno come bagaglio tecnico-culturale, ma se ne può fare a meno (ce lo rammentano, con buona grazia, già Hölderlin e Novalis nel XVIII secolo in Germania, per tacere di Walt Whitman e Arthur Rimbaud, Bertolt Brecht, o Corrado Govoni, o l’austriaco Ernst Jandl, o Apollinaire -precursore del Surrealismo- allorché abolisce la punteggiatura); quando –per inciso– uno dei nostri giovani poeti più eclettici dopo Costantino Pacilio, Gerardo Iandoli, la applica alla lettera, nuoce alla resa e meccanicizza la bellezza e l’armonia (il che sembra un paradosso). Restano in piedi, nel suo caso, l’audacia, l’azzardo delle idee, gli accostamenti inediti ed arditi della parola.
Inoltre
i poeti non scrivono per essere “studiati”. Prediligono la scuola
dell’ascolto, la casa della lettura che Gabriella Sica con tanta
malinconia annuncia ormai chiusa.
L’ascolto scrupoloso e disciplinato convoglia le idee, rende
efficaci (quando la poesia se ne fa energico vettore) anche i
messaggi dell’impegno civile; per il resto è una condivisione e un
contagio, un attrait
fascinoso che può stabilire coinvolgimento e commozione, ribellismo
e indignazione, estasi e incanto, sorriso arguto e divertimento puro,
riflessione a posteriori nel caso della satira o della più spigolosa
invettiva. Leggere è (assai) più importante che dissezionare. È,
anzi, fondamentale, poiché solleva (sempre e inevitabilmente)
questioni di verità; lo fa sia nell’economia del dire trasparente,
sia attraverso le più complesse cattedrali del metalinguaggio.
Riportiamo tal quale una dichiarazione di Hans Magnus Enzensberger: “
Nell’atto di leggere intervengono innumerevoli fattori che sono
assolutamente incontrollabili: la storia sociale e psichica del
lettore, le sue aspettative e i suoi interessi, il suo amore del
momento, la situazione in cui si trova –fattori non solo
assolutamente legittimi e da prendere quindi in seria considerazione,
ma che soprattutto sono il presupposto su cui si fonda di fatto ogni
lettura. Il suo risultato non è perciò determinato né
determinabile attraverso il testo. In questo senso, il lettore ha
sempre ragione, e nessuno può togliergli la libertà di fare di un
testo l’uso che più gli piace. Fa parte di questa libertà
sfogliare il libro da una parte e dall’altra, saltare interi passi,
leggere le frasi alla rovescia, travisarle, rielaborarle, ricavare
dal testo conclusioni che il testo ignora, arrabbiarsi e rallegrarsi
con lui, dimenticarlo, plagiarlo, e ad un certo punto gettare il
libro in un angolo. La lettura è un atto anarchico.
L’interpretazione, e in particolare l’interpretazione che
pretende di essere la sola giusta, è proprio per questo
un’operazione da far saltare. Il suo gesto è sempre autoritario,
produce sottomissione o resistenza.”
Liberi lettori e liberi critici, dunque: lezione che dovrebbero imparare certe provincialotte borghesi e miopi d’intelletto, quando pretendevano di “correggere” il nostro pensiero critico a proposito di un grande poeta irpino scomparso, e che ai loro annoiatissimi allievi insegnano la massiccia individuazione ed etichettatura delle figure retoriche, mentre non sono in grado di addestrarli nella corretta lettura, nell’uso appropriato della voce, nell’impostazione, nelle pause, nel tono e nel ritmo! Alfonso Berardinelli ammonisce: “ Molti guai dell’insegnamento scolastico derivano dal fatto che non si passa dalla libera lettura allo studio disciplinato, ma si elimina la lettura, sostituendola con uno studio di cui non si vedono bene le ragioni e gli scopi. Il piacere personale di leggere non può essere sostituito con l’imperativo burocratico d’infilare i testi poetici dentro il tritatutto dell’interpretazione al solo scopo di ottenere un voto da 1 a 10 o un giudizio da “insufficiente” a “buono” e “ottimo”. Se così avviene, gli insegnanti (e anche gli studenti che mirano solo al voto) devono prevedere la rivolta e l’ira degli scrittori: ‘ Giù le mani dalle poesie che abbiamo scritto! Non vogliamo essere studiati, ma anzitutto letti. Con piacere, sofferenza, curiosità, passione!’ ”
Liberi lettori e liberi critici, dunque: lezione che dovrebbero imparare certe provincialotte borghesi e miopi d’intelletto, quando pretendevano di “correggere” il nostro pensiero critico a proposito di un grande poeta irpino scomparso, e che ai loro annoiatissimi allievi insegnano la massiccia individuazione ed etichettatura delle figure retoriche, mentre non sono in grado di addestrarli nella corretta lettura, nell’uso appropriato della voce, nell’impostazione, nelle pause, nel tono e nel ritmo! Alfonso Berardinelli ammonisce: “ Molti guai dell’insegnamento scolastico derivano dal fatto che non si passa dalla libera lettura allo studio disciplinato, ma si elimina la lettura, sostituendola con uno studio di cui non si vedono bene le ragioni e gli scopi. Il piacere personale di leggere non può essere sostituito con l’imperativo burocratico d’infilare i testi poetici dentro il tritatutto dell’interpretazione al solo scopo di ottenere un voto da 1 a 10 o un giudizio da “insufficiente” a “buono” e “ottimo”. Se così avviene, gli insegnanti (e anche gli studenti che mirano solo al voto) devono prevedere la rivolta e l’ira degli scrittori: ‘ Giù le mani dalle poesie che abbiamo scritto! Non vogliamo essere studiati, ma anzitutto letti. Con piacere, sofferenza, curiosità, passione!’ ”
Tremiamo
alla prospettiva che una di queste insegnanti, che intendevano
sindacare, impugnando la matita rossoblù e le vie (deliranti) della
diffida, sul nostro specifico operato critico, a vantaggio e non a
danno dell’illustre congiunto scomparso, possano vedersi
convalidare il passaggio alla dirigenza, oltretutto avendo come
precedenti gli atteggiamenti nevrotici e maneschi contro un’ex
allieva divenuta poi collega!
La
poesia di Enzo D’Antonio soffre della costrizione di pregressi
schemi mentali e di imprevidenti seminagioni nozionistiche sballate;
per sua fortuna, tuttavia, interviene la vocazione ad un verso
disinibito, anelante all’abbandono degli ostaggi di formule
ossessive, incapsulate nell’ovvietà e nella reiterazione viziata.
Per cui, al di là di qualche inciampo e slogatura estetico-formale,
resiste, perfettamente individuabile, l’ossatura di una volizione
ad uscire dagli schemi, per ottenere l’approvazione di parenti e
amici compiacenti, e poco avvezzi alla materia, che pretendono
–poverini– di “capire”. Gli basterà, per il momento, abolire
o ridurre drasticamente i troncamenti brutti e inutili (amor,
inseguir, uccel,
tornar, son, or, com’),
i frequenti esclamativi e gli ancor più pedanti sospensivi, le
virgole in fin di verso, ed un sotteso buonismo d’accatto, troppo
sospiroso e avulso da realtà ben più scabre. Momenti pregevoli si
manifestano però nei componimenti “Rondini”, “Terra mia”,
“Veliero”, “Rosa notturna”, “Venti caldi”; nella prima
parte di “Non berrò”, nella parte centrale e finale di “Corre…”.
Per il resto, provvidenziali forbici sarebbero state salvifiche
nell’abolire il superfluo in “Angelo”, in “Tre stelle”, in
“Tra ombre cadenti”, in “Vento lunare”. Si giovi, il poeta,
della professionalità di Sanguineti, acquisti e pratichi il mensile
“Poesia” di Crocetti, e rivisiti i criteri che gli sono stati
inculcati, prendendo le distanze da realtà letterarie ed editoriali
di scarsa rilevanza, per favorire ben altra catalogazione (e
frequentazione) di fermenti, stili, gruppi, correnti, confrontando
inoltre Gozzano con Palazzeschi e Ungaretti, Caproni con Elio Pecora,
Sandro Penna con Kavafis, Edgar Lee Masters con Clemens Maria
Brentano, Paul Valery con Jacques Prévert, Garcia Lorca con Rafael
Alberti. E passando per la lezione surrealista e il movimento dada.
ARMANDO
SAVERIANO
FENICOTTERI
ENZO D’ANTONIO EDIZ. PRIVATA – BARONISSI (SA) 2014 pp.45 Euro
5.00
VELIERO
Ora
voglio scrivere
le mie note, la mia
nostalgia battente, al
passaggio muto di forme
alte e silenziose.
Ma si dissolvono!?
Scalze creature, senza
fretta si rincorrono dietro
il lontano tramonto
della luna nell’incessante
macigno buio; pietre bianche
nella notte.
Grandi barche, senza prua
lassù a baciarsi, così
piccoli i tuoi rami,
azzurro veliero quaggiù.
le mie note, la mia
nostalgia battente, al
passaggio muto di forme
alte e silenziose.
Ma si dissolvono!?
Scalze creature, senza
fretta si rincorrono dietro
il lontano tramonto
della luna nell’incessante
macigno buio; pietre bianche
nella notte.
Grandi barche, senza prua
lassù a baciarsi, così
piccoli i tuoi rami,
azzurro veliero quaggiù.
ENZO
D’ANTONIO
Enzo D'Antonio |
Nessun commento:
Posta un commento