domenica 26 ottobre 2014

LE STAGIONI DEL FENICOTTERO - Tra impellenze di maturazione e cieli abusati




Il nome di Enzo D’Antonio, medico originario di Capurso (Ba), era sconosciuto alle personali nostre mappe poetiche, estraneo sicuramente anche ad altre realtà territoriali che organizzano percorsi analitici, reading e antologie. L’amico comune dott. Gaetano Guglielmo ci consegna una plaquette del collega, edita in proprio, con trenta componimenti, che non sono i primi a godere delle stampe (sono infatti preceduti dalle sillogi: “Forse Amore”, 2002; “Sentiero Notturno”, 2009), benché –presumiamo– ugualmente in penombra, alla chetichella, tout-court in tipografia. Il volumetto non ha pretese di rilegatura raffinata: è spillato, molto pratico, con un pregevole disegno del M° Giuseppe Di Mauro in copertina, che raffigura gli uccelli simbolici del titolo: “Fenicotteri”. Questa “estraneità” ai circuiti ufficiali, come la nostra “Logopea” o come il “Centro di Documentazione Della Poesia Del Sud”, fondato e co-diretto da Paolo Saggese e Giuseppe Iuliano, con la collaborazione di Raffaele Stella, Alessandro Di Napoli e l’onnipresente tuttologa “La Grande Madre” (al secolo Franca Molinaro), potrebbe essere spiegata con l’aderenza (poco o nulla documentata) a sistemi sanguigni minori, più generosi nell’accogliere autori ruspanti, dediti all’organizzazione di premi paraletterari che non fanno mancare mai a nessuno diplomi, targhe e coppe traballanti, quali che siano l’effettivo valore del testo e le embrionali potenzialità dei partecipanti. Volente o nolente, tocca adesso a D’Antonio lacerare la bolla di pressappochismo in cui era, inconsapevolmente, confinato, recluso, per approdare ad una effettiva presa di coscienza dei propri livelli qualitativi e dei propri limiti.
Vantare una introduzione firmata da Federico Sanguineti non è poco e non è da tutti. Sanguineti ci elargisce un commento generico ed efficace, cita anche referenti illustri (Pascoli, Saba, Montale), ma si guarda bene dall’impugnare il bisturi della dissezione scolastica, come assai meno felicemente fa, in buona fede, Antonio Vitolo. Non siamo sui banchi di scuola, costretti a subìre la parafrasi imposta dai metodi e dai programmi tradizionali; il lettore deve essere lasciato libero di interpretare, e di suggerire così, allo stesso autore, la propria versione di quanto i versi hanno suscitato, svelando anzi sfumature di pensiero insospettate, intuizioni altre, magari intriganti.
La poesia, continuiamo a ripeterlo da tempo (invano?), non va spiegata, e qualora un lettore rivolgesse al poeta l’ingenua domanda: “Cosa vuole dire in questo componimento/in questa strofa/ in questo passaggio?”, l’interpellato ha tutto il diritto (intelligente) di replicare: “Ah, non lo so, guardi. Me lo dica lei.”
Inoltre guasta un tantino l’abbondante grattugiata di retorica nelle spiegazioni a tutti i costi. Sia più asciutto, Vitolo, in futuro. Non deprezziamo, qui, il suo lavoro; lo invitiamo però a tralasciare le didattiche superflue e ampollose e a dimenticare di essere dietro la cattedra anche quando non sta a scuola, e accetta di commentare una poetica, anzi di illustrarla, con misura e brillante intuizione. Un fruitore emancipato di libretti di poesia non ama essere trattato, dopo tanti anni, alla stregua di un tipico, comune liceale riottoso e sprovveduto.
Se si
ascoltasse Dante, invece di affidarlo all’anatomopatologo di turno, gli studenti lo amerebbero di più.
La poesia, quando
accade, parla da sola. Non ha necessariamente bisogno di una ferrea metrica, che, se applicata con superbia e superficialità, inquina e danneggia, invece di magnificare, costituendo un armonico spartito musicale. Non è, la nostra, un’apologia dello sciattume; una dosata perizia metrica è sempre lodevole, utile alla conoscenza, almeno come bagaglio tecnico-culturale, ma se ne può fare a meno (ce lo rammentano, con buona grazia, già Hölderlin e Novalis nel XVIII secolo in Germania, per tacere di Walt Whitman e Arthur Rimbaud, Bertolt Brecht, o Corrado Govoni, o l’austriaco Ernst Jandl, o Apollinaire -precursore del Surrealismo- allorché abolisce la punteggiatura); quando –per inciso– uno dei nostri giovani poeti più eclettici dopo Costantino Pacilio, Gerardo Iandoli, la applica alla lettera, nuoce alla resa e meccanicizza la bellezza e l’armonia (il che sembra un paradosso). Restano in piedi, nel suo caso, l’audacia, l’azzardo delle idee, gli accostamenti inediti ed arditi della parola.
Inoltre i poeti non scrivono per essere “studiati”. Prediligono la scuola dell’ascolto, la casa della lettura che Gabriella Sica con tanta malinconia annuncia ormai chiusa. L’ascolto scrupoloso e disciplinato convoglia le idee, rende efficaci (quando la poesia se ne fa energico vettore) anche i messaggi dell’impegno civile; per il resto è una condivisione e un contagio, un attrait fascinoso che può stabilire coinvolgimento e commozione, ribellismo e indignazione, estasi e incanto, sorriso arguto e divertimento puro, riflessione a posteriori nel caso della satira o della più spigolosa invettiva. Leggere è (assai) più importante che dissezionare. È, anzi, fondamentale, poiché solleva (sempre e inevitabilmente) questioni di verità; lo fa sia nell’economia del dire trasparente, sia attraverso le più complesse cattedrali del metalinguaggio. Riportiamo tal quale una dichiarazione di Hans Magnus Enzensberger: “ Nell’atto di leggere intervengono innumerevoli fattori che sono assolutamente incontrollabili: la storia sociale e psichica del lettore, le sue aspettative e i suoi interessi, il suo amore del momento, la situazione in cui si trova –fattori non solo assolutamente legittimi e da prendere quindi in seria considerazione, ma che soprattutto sono il presupposto su cui si fonda di fatto ogni lettura. Il suo risultato non è perciò determinato né determinabile attraverso il testo. In questo senso, il lettore ha sempre ragione, e nessuno può togliergli la libertà di fare di un testo l’uso che più gli piace. Fa parte di questa libertà sfogliare il libro da una parte e dall’altra, saltare interi passi, leggere le frasi alla rovescia, travisarle, rielaborarle, ricavare dal testo conclusioni che il testo ignora, arrabbiarsi e rallegrarsi con lui, dimenticarlo, plagiarlo, e ad un certo punto gettare il libro in un angolo. La lettura è un atto anarchico. L’interpretazione, e in particolare l’interpretazione che pretende di essere la sola giusta, è proprio per questo un’operazione da far saltare. Il suo gesto è sempre autoritario, produce sottomissione o resistenza.”
Liberi lettori e liberi critici, dunque: lezione che dovrebbero imparare certe provincialotte borghesi e miopi d’intelletto, quando pretendevano di “correggere” il nostro pensiero critico a proposito di un grande poeta irpino scomparso, e che ai loro annoiatissimi allievi insegnano la massiccia individuazione ed etichettatura delle figure retoriche, mentre non sono in grado di addestrarli nella corretta lettura, nell’uso appropriato della voce, nell’impostazione, nelle pause, nel tono e nel ritmo! Alfonso Berardinelli ammonisce: “ Molti guai dell’insegnamento scolastico derivano dal fatto che non si passa dalla libera lettura allo studio disciplinato, ma si elimina la lettura, sostituendola con uno studio di cui non si vedono bene le ragioni e gli scopi. Il piacere personale di leggere non può essere sostituito con l’imperativo burocratico d’infilare i testi poetici dentro il tritatutto dell’interpretazione al solo scopo di ottenere un voto da 1 a 10 o un giudizio da “insufficiente” a “buono” e “ottimo”. Se così avviene, gli insegnanti (e anche gli studenti che mirano solo al voto) devono prevedere la rivolta e l’ira degli scrittori: ‘ Giù le mani dalle poesie che abbiamo scritto! Non vogliamo essere studiati, ma anzitutto letti. Con piacere, sofferenza, curiosità, passione!’ ”
Tremiamo alla prospettiva che una di queste insegnanti, che intendevano sindacare, impugnando la matita rossoblù e le vie (deliranti) della diffida, sul nostro specifico operato critico, a vantaggio e non a danno dell’illustre congiunto scomparso, possano vedersi convalidare il passaggio alla dirigenza, oltretutto avendo come precedenti gli atteggiamenti nevrotici e maneschi contro un’ex allieva divenuta poi collega!
La poesia di Enzo D’Antonio soffre della costrizione di pregressi schemi mentali e di imprevidenti seminagioni nozionistiche sballate; per sua fortuna, tuttavia, interviene la vocazione ad un verso disinibito, anelante all’abbandono degli ostaggi di formule ossessive, incapsulate nell’ovvietà e nella reiterazione viziata. Per cui, al di là di qualche inciampo e slogatura estetico-formale, resiste, perfettamente individuabile, l’ossatura di una volizione ad uscire dagli schemi, per ottenere l’approvazione di parenti e amici compiacenti, e poco avvezzi alla materia, che pretendono –poverini– di “capire”. Gli basterà, per il momento, abolire o ridurre drasticamente i troncamenti brutti e inutili (amor, inseguir, uccel, tornar, son, or, com’), i frequenti esclamativi e gli ancor più pedanti sospensivi, le virgole in fin di verso, ed un sotteso buonismo d’accatto, troppo sospiroso e avulso da realtà ben più scabre. Momenti pregevoli si manifestano però nei componimenti “Rondini”, “Terra mia”, “Veliero”, “Rosa notturna”, “Venti caldi”; nella prima parte di “Non berrò”, nella parte centrale e finale di “Corre…”. Per il resto, provvidenziali forbici sarebbero state salvifiche nell’abolire il superfluo in “Angelo”, in “Tre stelle”, in “Tra ombre cadenti”, in “Vento lunare”. Si giovi, il poeta, della professionalità di Sanguineti, acquisti e pratichi il mensile “Poesia” di Crocetti, e rivisiti i criteri che gli sono stati inculcati, prendendo le distanze da realtà letterarie ed editoriali di scarsa rilevanza, per favorire ben altra catalogazione (e frequentazione) di fermenti, stili, gruppi, correnti, confrontando inoltre Gozzano con Palazzeschi e Ungaretti, Caproni con Elio Pecora, Sandro Penna con Kavafis, Edgar Lee Masters con Clemens Maria Brentano, Paul Valery con Jacques Prévert, Garcia Lorca con Rafael Alberti. E passando per la lezione surrealista e il movimento dada.
                               
                                                                                       ARMANDO SAVERIANO


FENICOTTERI ENZO D’ANTONIO EDIZ. PRIVATA – BARONISSI (SA) 2014 pp.45 Euro 5.00


VELIERO

Ora voglio scrivere
le mie note, la mia
nostalgia battente, al
passaggio muto di forme
alte e silenziose.
Ma si dissolvono!?
Scalze creature, senza
fretta si rincorrono dietro
il lontano tramonto
della luna nell’incessante
macigno buio; pietre bianche
nella notte.
Grandi barche, senza prua
lassù a baciarsi, così
piccoli i tuoi rami,
azzurro veliero quaggiù.

ENZO D’ANTONIO


Enzo D'Antonio

Nessun commento:

Posta un commento