mercoledì 19 novembre 2014

PISTE BIZZARRE PER AUTORI ECCENTRICI


Miserie e grandezze del postmodernismo





Ivan Pozzoni e Ambra Simeone sono i brillanti curatori di un’antologia narrativa, per i tipi di deComporre (nella collana Whatever, graficamente curata da “Condor”, al secolo Max Condreas), che
allinea sul tappeto verde e minato della prosa breve ventuno estri più o meno disinvolti: Erica Alberti, Gianfranco Bosio, “Bsa”, Maria Grazia Casagrande, Sandra Cervone, Andrea Corona, “Eroe Semantico”, Gaia Ginevra Giorgi, Lucio Giuliodori, Lucia Grassiccia, Corrado Iacotucci & Luciano Ruggieri, Giulia Mattioli, Giuseppe Morgillo, Teresa Nastri, Valerio Gaio Pedini, Uga Ecle Ragno, Susanna Rota, Armando Saveriano, Francesca Terzoni, Claudia Vazzoler.
Il comune denominatore è il bizzarro, il tasto del grottesco, stemperato o raggrumato che sia, inaspettato e/o spiazzante; ma non mancano recrudescenze “cannibali”, minimalismi, verismo. Stili che sorpassano la misura, pagine estenuate che si troncano bruscamente, o che spalmano ipotesi sull’immaginario postmoderno del lettore, spesso basito o corrucciato dagli sbandamenti narrativi, da porte che sbattono o lasciano spiragli, o che docilmente si accostano. Le vicende possono corteggiare l’anti-utopia, lo spleen esistenziale che diegetizza i ritmi, ribalta la noia in distimia, mentre i caratteri distillano labilità ed egoismi, ossessive pulsioni o ripropongono vecchi detestati modelli; anche il kitsch del déjà-vu-lu-écouté dà la sua botta di vernice, mentre trafelano le incomprensioni, trionfano le lontananze, crepitano le intolleranze, ignari di quanto e come i meccanismi del destino, super partes, oliino leve, nastri, rotelle, avviino impensabili motori. Disidentità e disappartenenza recitano sulla bussola del mistero, alternandosi a situazioni sospese e stranianti, come ne “Il Mare di Dirac”(“Semantico”) seguìto dal realista “Lo Schiaffo”(Vazzoler); come nell’alienante “Correvano luci d’assalto in quel 22 dicembre 2013” (Alberti), che tampina l’ascetica parabola (piacevole)  “La storia che non fu mai scritta del cattivo Ladrone”(Bosio). Universi rattratti in complessi d’Elettra capovolti, oppure reclusi nella dimensione viziata di un night-club, di una stanza (Giorgi) che si dilata nella città che la risputa (e viceversa, la città che si contrae nella stanza che l’ha estroflessa – non vien da pensare, non immeditate, all’a torto deprezzato “Dark City”, petit chef d’œuvre di Alex Proyas, sulla scia di Dick e Van Vogt?); l’atmosfera barcolla tra indecisione e determinazione frustrata, l’io narrante sospende il filo logico della ricerca, s’ingarbuglia, perde l’orientamento come il protagonista della distopia che si rivela quasi utopia nell’antiutopia (da ciclo “Twilight Zone/Ai confini della realtà” di Rod Serling) di “Hanjin” (Andrea Corona). 
Fatua, incongrua e scucita, la giovane donna de “La Lonza” (Giulia Mattioli) s’infascia nelle paranoie dichiarate e ignote, e pare che soffochi ella stessa le ansie orgastiche da cui si lascia sospingere, entrando e uscendo da porte scorrevoli, varcando atrii, salendo/scendendo da tassì e scale d’albergo e d’ospedale. Vive di furti percettivi, di languidi trip psicolabili e di accelerazioni convulse, al contrario della torpida ragazza del pub, che sgomitola tra un drink e la libido confessionis una storia impigliata nel desiderio di maternità e fracassata puntualmente nel ménage condannato dall’irraggiungibilità dei sessi incapaci di altra fusione al di là di quella carnale (Morgillo).
Alcuni racconti si omologano negli avvitamenti psicologici del/della protagonista (“Rinascita”, “Morte di un’avara”, “Il giardino dell’anima” –di Casagrande, Nastri, Ragno–), puntando magari a Pinter, ma ottenendo l’effetto sbadiglio; lo stile purtroppo da solo non è sufficiente a fare di un racconto una ciambella col buco; altri sono innocuamente descrittivi, volutamente non si pongono l’obiettivo di un approdo, non concludono (“In terra straniera”, di Susanna Rota). Il diapason della superfluità arride a “I monaci della torre”, di Sandra Cervone, della quale stimiamo col massimo rispetto la dedizione diffusiva della poesia e il lavoro incessante come sacerdotessa dell’arte tra Formia, Gaeta e oltre; le consigliamo di dedicarsi alla proficua e talentuosa produzione saggistica, alla funzione di critico, in cui è indiscussa maestra, prendendo distanze, se non definitive, almeno cautelative e –si spera per lei– ossigenanti e rifondative, dalla narrativa e dalla poesia. Gliene verrà gran giovamento, giacché -absit iniuria verbis- non ha idee. Snocciola logori cliché di ‘nullesìa’ (termine di Celan) e ‘vacuaprosa’. Non ce ne voglia.
Corrado Iacotucci e Giovanni Ruggieri scrivono un racconto divertente che sotto la superficie ironica e dissacratoria offre davvero una soluzione allo sfacelo e al degrado morale del nostro mondo piagato dalla casta parassita dei potenti: non interviene un secondo diluvio biblico, come reiteratamente si augura il poeta politico Pasquale Martiniello, ma si impone una sorta di soluzione finale alla “Ultimatum alla Terra” o alla  “Have  Spacesuit-Will Travel” di Robert Heinlein (“La tuta spaziale”); gli ingegneri cosmici alieni (che a quanto pare sono anche figure di “investitori/mercanti” alla Pohl & Kornbluth) fanno piazza pulita degli spiriti corrotti, riconducono l’umanità superstite agli albori di una ennesima età della pietra, quand’ecco  riesplodere avidità, invidia, violenza, delitto… Homo homini lupus semper et infinite.  Non è più possibile concedere ulteriori dilazioni a una razza aggressiva, subdola, egotica, pericolosa per altre forme di vita, intelligenti o meno; refrattaria a ogni maturazione, miglioramento e catarsi, è bene che essa venga cancellata. Molti classici di fantascienza si pongono il problema della sopravvivenza, della distruzione e/o della resurrezione del genere umano: in “City” Clifford Simak lascia eredi e successori degli uomini i robot e i cani. L’orrore assoluto, quello dell’estinzione, è stato da noi stessi accennato nel finale del racconto sf/horror “Partenze” in “Elogio del blu” (Mephite, 2008). E ricordiamo il toccante (e raggelante) finale di “A.I. Intelligenza Artificiale” di Spielberg.
Dal canto suo così si esprime Jean-Paul Sartre: “L’uomo non è altro che ciò che egli fa di se stesso…Se comunque è vero che l’esistenza è antecedente all’essenza, l’uomo è responsabile allora per quello che è. E quando noi affermiamo che l’uomo è responsabile di se stesso, non intendiamo dire che egli è responsabile solo della sua propria individualità, ma che è responsabile di tutti gli uomini…Scegliendo inoltre per se stesso, l’uomo sceglie anche per tutti gli altri…” Se “Il Padrone di casa…” fosse stato supportato da un’accurata sorveglianza interpuntiva, se lo stile grezzo della narrazione fosse stato espunto dalla scarsezza espressiva e dalle facilonerie, e se l’alieno non avesse avuto l’eloquio di un personaggio uscito pari pari da una sceneggiatura della “Troma” di Kaufman e Herz, i due autori avrebbero realizzato un gioiellino, sullo stile –raffinato!– di Douglas N. Adams (“Guida galattica per autostoppisti”, “Ristorante al termine dell’universo”, “La vita, l’universo e tutto quanto”, “Addio, e grazie per tutto il pesce”). Al duo suggeriamo di riscrivere il racconto, seguendo le orme di Damon Knight, Philip J. Farmer, Ray Bradbury, J. G. Ballard, Serge Brussolo, Ted Sturgeon (magari rintracciando, di quest’ultimo, il toccante “Thunder and Roses” del 1947). Pensiamo che ne valga la pena. Dirozzati, Iacotucci e Ruggieri avrebbero le carte in regola per dire la loro.
L’onomatopeico pseudonimo di “BSA” sceglie una metafora simpatica, benché scontatamente e maccheronicamente didascalica, per ammonire i giovani invischiati nelle pànie della tossicodipendenza: una favola che tira in ballo un’ape Magà/Maia depressa, fragile, che crede di ovviare alle lacune affettive e alle frustrazioni quotidiane facendosi di brutto, e causando danni collaterali alle compagne della microsocietà, per poi emendarsi e salvare il salvabile immolando la propria vita in psichedelica deriva. La terza persona singolare del passato remoto di “commettere” è “commise”, e non “commesse”, caro/a “BSA”.
Francesca Terzoni si ispira (felicemente) ai fulminanti e umoristici frammenti “neri” dello spagnolo Max Aub, impiattando per noi cinque flash deliziosi e aromatici (“La Montagna di merda/La Vacanza premio/Luce che viene dagli occhi/Il bigamo/L’avambraccio sinistro”), in un teatrino dall’espediente comico sottile, dall’intento parodistico mirato. Continui tranquilla su questa falsariga. 
E finalmente ci imbattiamo in una ingegnosa e rimarchevole pagina di buona, intensa, limpida letteratura verista, un inaspettato lingotto d’oro nello scrigno dell’antologica in esame: “Mascaratu”, di Lucia Grassiccia. Perfetto nello stile e nella conduzione del movimento interno, un “Instant Cult”, un “Guilty Pleasure”, esclameremmo in gergo cinematografico! Pregevole, si fa rileggere con gusto inalterato, e ci riporta un po’ a “Rosso Malpelo” (tradotto sul grande schermo nel 2007 da Pasquale Scimeca, regista, e da Nennella Bonaiuto, sceneggiatrice), alle penne di “Incompreso”, “Senza Famiglia”, “Huckleberry Finn”, “Oliviero Twist”, et similia. Pirandello, Verga, Mark Twain, William Golding, Florence Montgomery, H.H. Malot hanno lasciato la loro impronta nella bravissima Grassiccia, che ci strabilia, veramente, al punto da indurci a desiderare di conoscerla di più e meglio, letterariamente. La sequenza dell’ “incollamento” del gattino, la descrizione della sedia occupata dalla giara, la scena della cena familiare a base di cipolle e fave, accompagnate da pane “peruto”, cioè rivestito di muffa incipiente, fanno da valore aggiunto alle riflessioni impagabili e “sagge” del ragazzino, spiritoso e di precoce buon senso, contrapposte a tutto quel tirare per le lunghe e piangersi addosso ripetitivo, fastidioso e bruente dei protagonisti/delle protagoniste di taluni racconti a cui abbiamo già accennato. “Mascaratu” è il fiore all’occhiello di “Postmoderno Immaginario” (pur uscendo, fataliter, dai binari del genere); pertanto invitiamo hic et nunc i curatori illuminati Ambra e Ivan a tenere ben presente e bene in conto questa eccellente autrice. Mentre aureæ mediocritates s’assumono l’ardire (anche in Irpinia) di impiantare e gestire corsi di scrittura creativa, senza averne né i titoli, né le capacità (o le palle, se preferite), Lucia Grassiccia fa i fatti. Il rimpianto Pietro Germi, uno fra i massimi registi nazionali (intramontabili, i suoi “Il Ferroviere”, “Sedotta e abbandonata”, “Divorzio all’italiana”, “Signore e Signori”), se paradossalmente redivivo, amerebbe girare un mediometraggio dal morceau autoriale della Grassiccia (ma anche Damiano Damiani de “Il rossetto”, il Lattuada de “La spiaggia”, Franco Rossi di “Amici per la pelle”). À la façon francese: ‘Chapeau, Lucia!’.
Valerio Gaio Pedini, con “L’uomo è morto”, percorre i sentieri paralleli del traslato biblico, dell’ipotesi blasfemo-beffarda, della commedia umana e para-umana irriverente e stravagante; nel suo caso lo tradiscono la ruvidezza di stile e la mancanza di obiettività (riteniamo noi) sulla bontà e l’efficacia complessive di quanto ha scritto. Spesso ci si innamora di una idea (la sua non è affatto disprezzabile) e la si butta giù, ma non si soprintende alla forma del dire o non se ne posseggono gli strumenti. A volte c’è lo stile (Rota) e non il racconto. Qui c’è il racconto, però manca lo stile. Converrebbe anche a Pedini rivedere la stesura dal punto di vista grammaticale, sintattico, lessicale, ammorbidirne i toni enfatici (le altisonanze dell’ominide/icona) e calcare il registro della satira amara. Tuttavia, in un clima generale di stringatezza o addirittura di assenza di dialoghi o di boutades nella maggior parte degli altri racconti, di preferenza ravvoltolati in soliloquî intrapsichici masturbatòrii e sconclusionati, c’è da mettere in evidenza che l’autore organizza delle rimbeccate vivaci tra i pescatori. Si procuri e legga “Cristo marziano” di Philip J. Farmer , “Alieno in croce” di Lester del Rey /Raymond F. Jones e la “Guerra al grande nulla” di James Blish. A nostro avviso imperdibili, e tra le cose migliori nel campo della narrativa fanta-teologica.
Lucio Giuliodori si dà tutto all’esercitazione intellettuale, sfidando i lettori a verificare e ad approfondire i rilanci culturali letterari e scientifici che assai si compiace di esibire, il che non è affatto male. La cosa ci è piaciuta. Ma aspettiamo lo sviluppo di un racconto, sic et simpliciter. Legga Valerio Evangelisti o il classico di Heinlein “Non temerò alcun male”, e magari si procuri i romanzi di Colin Wilson. Ah! Sulle bancarelle del libro usato può trovare una superba prova di narrativa che mescola l’azione in una cornice bellica (una cupa, negromantica Sarajevo) alla speculazione filosofica, la SF all’horror concettuale: “Assedio”, di Vincent Spasaro; un bel romanzo catturante (in cui la spy story è poco più di un pretesto) che alterna in vortici il dark al thriller, l’elemento metafisico al paradosso temporale, all’immagine shock, alle dimensioni alternative, all’avventura straniante. Ci sfugge la collocazione nella testata “Segretissimo”, quando la sede elettiva sarebbe dovuta essere “Urania”, o meglio ancora la dignità di una pubblicazione mainstream a sé stante (per contatti con Spasaro: http://vincentspasaro.blogspot.com; per contatti con noi di Logopea: logopea.blogspot.com o assocultlogopea@yahoo.it).   
Il postmoderno è stato superato, lasciando uno strascico di premesse e di innegabili disillusioni, di mancati obiettivi e quasi di evangelizzazione del flop (allegorizzato dalla foto di cedimento e macerie selezionata per la copertina del libro in questione), dopo le ragioni esposte dal Lyotard sul finire della modernità con la delegittimazione des grands récits, dei larghi orizzonti filosofici e ideologici dall’Illuminismo in poi, a favore di prospettive pragmatiche e contingenti  (“La condition postmoderne”, 1979), mentre Vattimo coniò la definizione di “pensiero debole”, non intenzionalmente vòlto a negare il passato, la tradizione, ma teso a sviluppare un sentimento di pietas nei confronti delle certezze e dei valori assoluti ormai vacillanti, quindi dissolti. Nel campo letterario, si ebbe uno spostamento lirico dell’ “io poetante”, con esiti promettenti nel mar delle banalità; ma poi anche qui si sarebbe verificato il mancato (o va là, parziale) attecchimento del “mitomodernismo” di Giuseppe Conte e di Stefano Zecchi (per inciso, abbiamo accolto ab initio con circospezione il relativo Manifesto, approdando ad un palese scetticismo in linea con i pareri di Giuliano Gramigna e di Maria Corti, pur senza i toni drastici di Edoardo Sanguineti). Nella narrativa, eguale espressività libera dell’ego, sullo sfondo di elementi storici e/o fantastici, con l’eredità greve del ‘dopo-avanguardia’ e la proterva e pretesa voluntas di andare “oltre” gli sperimentalismi e le ultime tendenze novecentesche. 
Se valutassimo i racconti antologizzati esclusivamente alla luce della postmodernità irredenta, che esalta l’individualismo, celebra il tramonto della solidarietà, del rispetto altrui e del comportamento civile, capisaldi dell’ascesa del moderno, dovremmo ammettere che quasi tutti sono effettivamente centrati nel mostrare l’anatomia di una società in regressione, nella quale si perde la certezza del diritto, mentre prevale e prevarica il leviatano di un consumismo praticato per soddisfare il bisogno primario della gratificazione soggettiva. Impera innegabilmente lo spirito del soggettivismo, che spinge all’escapismo dall’anonimato in cui hanno confinato gli uomini due fenomeni succedanei: la massificazione e la solitudine dell’individuo globale. C’è, diffusa, un’ansia dell’esserci (direbbe Heidegger), nel riconoscersi (e nell’essere riconosciuto) come individuo, mostrarsi, attrarre, levare la voce più forte degli altri, ottenere quella visibilità spettacolarizzata (anche fuori luogo) pur di “sentirsi” vivi; e ci si può sentire vivi solo al prezzo della visibilità a tutti i costi, ad oltranza; una visibilità che assurge a mania, a morbo necessario, indispensabile, spendibile. E che non cela la massima contraddizione: questo soggettivismo ha bisogno incredibiliter di confrontarsi, di “specchiarsi” nell’altro, di essere da questi riconosciuto, altrimenti implode nel non-senso! Come da noi detto altrove, il decostruzionismo di Jacques Derrida rappresenta brillantemente la filosofia funzionale del postmodernismo, critica e armata, provocatoria, autoreferenziale; si aggancia al pensiero di Heidegger, mentre la filosofia hegeliana e la filiazione marxista, abbiamo visto, sorreggono valori e finalità della modernità. Progresso, collettivo, storia sono mal concepiti dall’irrazionalismo, che riporta il centro di gravità sull’individuo; è l’individuo che dà senso al mondo che lo circonda (Husserl); storia e progresso non hanno più il compito di interpretare questo mondo. L’individuo che ha vissuto la postmodernità, e quindi la demolizione delle ideologie e la destabilizzazione dei valori di riferimento (la pregnanza dell’etica, la spalla forte del lavoro sicuro, le certezze economico-esistenziali), può trovare nei princìpi di Zygmunt Bauman la costruzione di un modello sociologico duttile, vòlto non alla critica ma alla comprensione e alla spiegazione. Un appiglio salvifico, in epoca di disorientamento, di (capillare) nevrosi da incertezza su come “preparare” il domani, su come preservarci da conseguenze ancora più infìde. Nietzsche (il cui “Nascita della tragedia” è il testo archetipico del postmoderno) ed Heidegger, che consideriamo gli anticipatori della postmodernità, ritenevano, lo sappiamo, la Storia come impostura e non memoria della verità; essa andava sostituita con l’evento, avulso da memoria, avente valore per sé e per il tempo in cui si realizza. E dal momento che l’evento non è ripetibile, ecco che nell’impossibilità di ripetersi trova la sua verità. Di conseguenza: la società di domani sarà priva di quella memoria che conterrebbe o impedirebbe il ripetere gli errori del passato? Sicché essi, inconsapevolmente ripetuti, appariranno nuovi, inediti? Intanto, già è anacronismo parlare di post moderno: ne siamo strisciati via malconci, mentre quaranta e rotti anni fa il movimento ci sembrava il più favorevole tentativo per sgusciare fuori dalla modernità senza comprometterne i lati vantaggiosi. Il Terzo Millennio ne ha sancito la decadenza e la morte.            
Una scia di postmoderno che, tra programmi miglioristici e negligenze, ha fallito le sue intenzioni e che, come abbiamo cercato di illustrare, galleggia nella società liquida di Zygmunt Bauman, tenta un’estrema risorsa spendendosi in una scrittura che se non aspira all’abreazione dei grovigli personali e comunitarî, e si astiene (con qualche eccezione) dall’aperta azione critica politico-sociale, pur malgré-soi agendo quanto meno nei suoi perimetri, potrebbe rappresentare, entro miserie e grandeur, le spoglie di un’occasione che pose più di qualche tassello di rinnovamento, di potenzialità, agli inizi degli anni ottanta nel secolo scorso, alla stura della crisi energetica e petrolifera. L’impresa e gli intenti di Simeone/Pozzoni di costituire un’entità culturale efficiente, letteraria e metaletteraria, di scalfire le coscienze assopite in posizioni di comodo attraverso l’urto di narrazioni insolite, che ben lungi dal cavalcare stanche o stolide o strafatte o stra-imitate avanguardie, si contendono il pungolo dell’attenzione riflessiva dell’ipotetico lettore, sembrano aver lavorato di fino per l’attuazione di un (peut-être) accettabile cominciamento. Staremo a vedere con il post-Postmoderno immaginario, antologie e racconti che verranno…

                                                                                                ARMANDO SAVERIANO



        POSTMODERNO IMMAGINARIO AA.VV. –  ED. deCOMPORRE, GAETA, 2014 – PP 142 – EURO 20.00




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