mercoledì 29 aprile 2015

POIEIN : L'arte della poesia



La vecchia bambina



NON È PIÚ TEMPO



Non è più tempo d’uva puttanella
sul mento deturpato  Le cellule apparecchiano
il disfarsi della forma la cera temporale si
disgrega ma quel che più impressiona è la
resistenza ad accettare l’autunnale stagione
La vecchia bambina canta solitaria sul drappo
delle illusioni la sua mostruosa finzione di beltà
assediata dalle muffe dalle mucillagini
di una lebbra che avanzando divora e si fa beffe
della disumana ostinazione a restare 
minigonna ascellare scarpine da hellògatta fioccoKitty
vocina svasata da allargare vezzosa
fino a indispettire la Compagnia dei Tolleranti
a far inforcare epiclettiche bici ai Santi
È ora di invecchiare bambina
di non negare funzione allo specchio vero
non quello accomodante della tua immaginazione
È ora di scendere dal palco e di zittire il chiurlo monotono
della pavoncella  È andato via scemando ombraceo
il pubblico degli urogalli delle tardone scuscinate
delle periferie poetiche  Persino l’acerba fragolina
che ti vedeva come l’azzurra fatina della poeterentola
ambiziosa che col premio aummaumma hai innescato
come un coltello a orologeria  Scatterà prima o poi
a trafiggere il suo stesso addome di luna calante
Ricorderà forse d’aver stoltamente respinto
l’aggettivo ‘neuromantico’ per celebrare il 15 agosto
della banalità nel suo smunto verso spavalda tapina
Il teatro s’è schiantato come una chitarra offesa
è ora di chiudere bottega bimba avvizzita
molesto clone maldestro della Valduga
È ora di ritrarsi nella foresta delle grucce
dentro l’armadio delle vergogne mucronate
lo stitico rifugio inchiodato alla parete più lontana
della camera imbalsamatoria
È tempo piccina di arrendersi alla miseria
che sei sempre stata pupilla di babbomariti e di fanpapà
artista sgarrupata sciantosa da saloon per decorticati
psichici per collezionisti di pupate per patetici scontenti
della moglie tagliata nel marmo con l’accetta e antiletterata
Le batterie si esauriscono tu cigoli tutta
la vocina a linea piatta s’affievolisce nella cripta
della pazienza rivoltata  La tua virago latra
ordini alle carteballerine le spròna all’embaterio
 come la Regina sforbiciata
di Alice in Wonderland  Sono intisichite tutte le saltabecche
che ti saltabellavano intorno scalmanate
sono afone le braccia le gambe le teste malrasate
Ti muove la mano generosa inarresa del Buon Burattinaio
coniglietto d’angora arruffato di vetro e melassa
Sei all’ultimo fallo nelle vene micromaga delle fatue faville
Si chiude futura carampana in bonsai 
Si chiude vecchiabambina
“Ecco il giudicio uman come non erra!” 1)

JULIEN de SUBERCEAUX




NOTE:
1) Variazione intenzionale del classico epifonema di L. ARIOSTO




Fra vent'anni...


domenica 26 aprile 2015

POIEIN : L'arte della poesia



Davide Cuorvo



HAIKU PER MIO FIGLIO DAVIDE



Aspro quel giorno
se dovessi mancare
unica luce

*

Procreare te
inaspettatamente
un dì di luglio

*

Della distanza
mi dolgo io da Conza
sei con me sempre

*

Pioggia tra ciglia
nere nel bosco fondo
le labbra pure

*

Mente a Dio
chi non ti dice figlio
accolto mio

*

Raccogli ostie
di pensieri parole
lievi tenaci

*

Ama le donne
oltre l’avvenenza
coltiva cuori

*

Brucia la vita
neve mi porterà via
tu non guardare

*

Una fanciulla
scioglie per te le chiome
foglie tremanti

*

Il nome di lei
ancora t’ammala
è onda calda

*

Rita ha occhi
che scivolano su te
verdi cicale

*

Canta o figlio
ogni romanza bella
ogni ragazza

*

Spettinato tu
cavalchi eterea
questa nuvola

*

Verrà gennaio
chissà se io vivrò nel
palmo filiale

*

Nel buio ti chiamo
poesia distratta
bacia il figlio

*

Andrai per vie
di mondo e lontane
le melodíe

*

Vento di luna
saprà di te Davide
appena sera

                                                                                    
     ARMANDO SAVERIANO





Davide Cuorvo
Davide Cuorvo

















Davide Cuorvo
Davide Cuorvo













Davide Cuorvo

mercoledì 22 aprile 2015

MANIFESTAZIONE POETICA AD AVELLA


Reading e presentazione de “Il Genio dell’Abbandono”





L’energia poetica regola il bisogno innato di un colloquio tra uomo e anima, uomo e natura, uomo e mistero: spirito e inveramento del reale, spirito e respiro dell’immaginazione, che sempre pesca tra gli scaffali mnestici, che rovista nella cesta esperienziale, sono radice essenziale, hanno carattere nucleare: per la storia individuale e collettiva, per la verticalità di una resurrezione morale, di un re-impossessamento dell’identità messa in sospensione dall’abbrutimento dei valori, dai vizi del consumo a tutti i livelli, in una società dove nessuno ascolta o dove l’equivoco e il malinteso dell’interpretazione causano turbative, sismìe esistenziali, corrosioni anomiche. Antonietta Gnerre e Monia Gaita, con il loro agire sociale e artistico, tendono ad appianare gli attriti tra mondo che produce disordine e sfera di riscatto che però non si limiti a ritessere un ampio telo simbolico, ma abbia la sostanza di far scaturire gli elementi adatti per la ricomposizione delle certezze, al di là della letteratura. Poesia è da sempre, nei suoi stati di grazia, azione culturale, leva coscienziale che agisce finalizzata all’abreazione, al riconoscimento e alla metabolizzazione di una verità, sebbene mai in termini di assoluto. Movimento privo di sosta, arco di passaggio è per le due scrittrici tensione e promessa della poesia, quand’essa estrude fermezza della voce e reiterata rimessa in gioco. Contattate per un pomeriggio di letture in Avella, presso l’Auditorium del Chiostro, domenica 19 aprile alle 17,00, con l’egida dell’Associazione “La piccola Cometa” (nata per commemorare la sfortunata fanciulla Alessia Bellofatto), e grazie al concorso della Pro Loco Abella, del Gruppo Archeologico Avellano, del Movimento Cittadinanza Attiva Abella, del Gruppo Scouts Avella, e di altre varie associazioni, hanno invitato alcuni autori già protagonisti degli appuntamenti presso il Caffè Letterario di Avellino, e cioè Domenico Cipriano, Armando Saveriano, Gennaro Iannarone, Cosimo Caputo, Vera Mocella, Davide Cuorvo, Maria Ronca, Raffaele Barbieri, Carmine Montella, Claudia Iandolo, Rosa Mannetta. Attraverso le differenziate poetiche si è raddensata una conversazione dove i nostalgici ripiegamenti si contrappongono ad un appagamento ameno dei luoghi dello spirito, mentre alla melodia placida un po’ fuori del tempo, volutamente, si sostituisce la scansione di una controtendenza che incorpora anche l’endecasillabo, ma preferisce scarti e sobbalzi su un orizzonte petroso, frammentario, distratto su dissonanze avanguardiste, in qualche caso fulmineamente aspre. L’immersione totale o parziale nell’autobiografia facilita istinto e musicalità come in Domenico Cipriano e Gennaro Iannarone, assorbiti in un corpo a corpo – rispettivamente – con l’impossibilità di programmare un personale senso alla vita e un’ancestrale necessità di affido a perimetri più tradizionali, ma entrambi volens nolens introspettivi. Armando Saveriano smonta dal predellino di un treno che alle velocità delle intuizioni, alterna, con buona grazia versificatoria, cicatrizzazioni coscienzialmente in attesa di verdetto. Depositario di una notevole “brillanza” sintattica, aduna in forma metaforica temi crepuscolari trafitti da una ricreazione sarcastica idonea all’uso sovversivo e babelico del linguaggio, anche quando riesuma i versi dell’amata e infelice moglie di Dante Gabriele Rossetti, Elizabeth Eleanor Siddal, letti in italiano e inglese con il concorso di Davide Cuorvo. Cosimo Caputo è forse più conosciuto per i saggi, le recensioni, le prefazioni o postfazioni eleganti, scrupolose, e non per la poesia esigente e raffinata che produce, sempre con frizione rivelatrice di uno stupore che scatta dal sacerdozio della forma, essendo il coltissimo beneventano amante concupiscente di un logos ‘scolpito’, esatto, che governa il timone fra scivolose traversate melodiche e contrappunti netti di curve e contrasti. 
Maria Ronca non rompe il nesso tra parola e realtà, confessione e sfogo, anzi lo sottopone alle forche caudine dell’osservazione analitica, senza cosmesi o eccentricità di forma e accenti. L’intimità con il mondo, fisico e metafisico, è posto in essere da Rosa Mannetta grazie a fiammelle di impressioni, associazioni, riflessioni in una scrittura che addolcisce i compromessi laconici: due brevi composizioni manoscritte per l’occasione. Davide Cuorvo ha un colpo d’occhio vivido, si muove tra concatenazioni dinamiche tra l’onirico e il naturalistico, stante sua linfa poetica la triade amore, eros, stalattite di minaccia della felicità, sia pure fugace, illusoria. Il dialettale Carmine Montella s’incarica di far meglio emergere il reticolo delle vicende umane ‘familiari’ con un’impepatella di provocazione, nella duplicità dell’hic et nunc e del possesso di una documentaristica memoria ancestrale. Assenza-presenza Claudia Iandolo, che ha lasciato nell’attesa dei suoi pallescenti eppur fortemente passionali frammenti da “Sororità” (Lietocolle ed).
Alle 18,00, per l’insert “Un Libro Come Amico”, Gnerre e Gaita si sono compiaciute di presentare, orgogliose ed emozionate, il volume “Il Genio dell’Abbandono” (Neri Pozza ed. 2015) di Wanda Marasco, candidato al Premio Strega. Lontana da ogni enfasi, Emilia Bersabea Cirillo ha illustrato le fasi del romanzo a braccio, con scansione limpida e griglia di chiarezza espressiva, mentre Monia Gaita, più aderente al fondale tecnico, ha messo in luce le peculiarità e le increspature al milligrammo di scelte stilistiche impegnative, immediatezze percettive, studium, che orientano struttura e cadenze interne nell’intrico dei motivi.

                                                                                                                          LOGOPEA





Da sinistra: Antonietta Gnerre,
Monia Gaita
Maria Ronca














Armando Saveriano
Gennaro Iannarone













Carmine Montella
Domenico Cipriano
















Cosimo Caputo
Davide Cuorvo
















Davide Cuorvo
Rosa Mannetta
















Presentazione romanzo di Wanda Marasco
"Il genio dell'abbandono"
Al centro : Wanda Marasco


giovedì 16 aprile 2015

SENTIMENTO ED ETICA RESISTENZIALI IN GENNARO IANNARONE


La rapida maturazione di un poeta ‘imprevisto’ acuminato e pacato





Non è raro l’approdo poetico in età non verde; si può anzi vivere gran parte dell’esistenza all’ombra di una nuvola gentile e vagabonda che attende il suo momento per essere notata, invocata a braccia tese, presa al laccio dell’anima; anima che quella stessa eterea, vaga nube aveva già corteggiato, carezzato, con discrezione e pazienza, forse da sempre. L’essenza poetica sa maturarsi in chi per essa è semi-inconsapevolmente vocato;
e dalla prima, anche lunga fase di apprezzamento e di letture, vinta una nobile reticenza, si può essere indotti,  un giorno magico e imprevedibile, a praticarla, a darle aggetto personale, testando tono e timbro, estetica ed efficacia del messaggio verbale, della generale funzionalità. Sicché, da desiderio astratto e intermittente, il praticarla si fa concretezza, produzione di pensiero emotivo, quel raccordo tra mente e cuore, testimonianza e sogno, diario realistico e immaginazione al galoppo.
Così è successo per Gennaro Iannarone, nato con un temperamento artistico, portato per gli interessi umanistici e per la pratica delle lettere, ma dirottato, ovviamente sotto il firmamento delle migliori intenzioni, e senza forzature, allo studio e alla carriera giurisprudenziale, forense, da una famiglia profondamente immersa nel clima severo e impegnativo della toga e dei tribunali, dei codici e del martelletto di giustizia. Seguendo direttive e piste del papà giudice presso il tribunale di Ariano Irpino (e tuttavia anch’egli animo duale, amante dell’arte in ogni sua manifestazione, dal teatro alla pittura e scultura, dalla musica alle cattedrali di pensiero, discepolo altresì delle muse sull’Elicona virtuale della poesia alta) ecco il brillante e volitivo studente laurearsi a Napoli nel 1963 e divenire magistrato due anni dopo. Prima pretore a Partenope, quindi giudice ordinario e tributario nei corridoi e per le aule del tribunale di Avellino. Onorevole e onorata carriera, benché picchiettata di inquietudini, di un latente, inspiegabile tarlo di insoddisfazione, come per una marsina stretta o un copricapo che non ci convince, un modello di scarpa che si vorrebbe diverso. La perdita straziante della prima moglie, Liliana, è probabilmente un ulteriore segnale impressivo che lo induce, dieci anni dopo, a dimettersi dalla Magistratura e ad accettare la carica di Presidente del Teatro Carlo Gesualdo, protrattasi fino al settembre 2007.
Intanto, molteplici le pubblicazioni, i convegni, i mini-saggi, le prefazioni e le collaborazioni a riviste (“Nuovo Meridionalismo”, “Sinestesie”), gli incontri scolastici sul tema dell’Educazione alla Legalità. Con l’editore Guida di Napoli stampa: “Io, giudice cristiano ed eretico” (2004); “Verità al risveglio” (2006); “Percorsi tra Legalità e Valori” (2009); “Sentinella di Vita” (2010), “Sciroppo amaro ed altri veleni” (2012); con la Poligrafica Ruggiero di Avellino: “I ragazzi della Via Vasoli” (2012).
Decisivo l’incontro con Anna, che diverrà sua sposa in seconde nozze, creatura che racchiude in sé la sensibilità per il bello e l’armonico, sempre pronta a permearsi di attrait verso la musica, la pittura, il logos lirico, epico, sublime, filosofeggiante e parateatrale; compagna degna nell’avventurosa navigazione sul “Bateau Ivre” di Rimbaud. 
La scelta del verso di Vincenzo Cardarelli (lo scrittore di Tarquinia, co-fondatore de “La Ronda”, il cui vero nome era Nazareno Caldarelli) che beccheggia in copertina a dar titolo alla raccolta edita da Scuderi (“Vivere balenando in burrasca”) è emblematico per la comprensione dell’uomo nelle sue vicende personali, professionali e familiari, e della poetica dell’autore, un autore che accoglie in palmo di mano, di volta in volta, la verità irrecusabile dell’atto compositivo, interpellando la memoria, chiamando al banco dei testimoni l’istintualità e la volatile libertà del dire, sia nelle alcove del metalinguaggio sia negli spazi aperti e diretti di un parlare tanto trasparente e leale da patteggiare con la prosa (il poemetto “Il Destino e L’Anima”). Benché ami Montale assai più di Leopardi (a cui però tendeva esplicitamente Cardarelli nel suo programma di restaurazione classica), Iannarone subisce il fascino della schiettezza emotiva dell’autore (in parte imbevuto di sensualità di marca quasi dannunziana) di “Viaggi nel tempo”, “Favole e memorie”, “Parole all’orecchio”, “Solitario in Arcadia”, “Villa Tarantola”, “Il Viaggiatore insocievole”, e per slanci adempienti non si congeda mai dalla lezione dantesca (“Io mi son un che quando amor m’ispira” - citaz. in “Nozze d’amore” dal Purgatorio, canto XXIV 52-54; “che mai da me non fia divisa”, citaz. in “Cella di San Pio” dall’Inferno, canto V -135) o dall’irresistibilità delle allegorie shakespeariane (“La tempesta”, Atto IV, Scena I, in exergo a “Un viaggio sognato”).
È Anna che lo spinge a misurarsi con la Poesia, certa di suscitare in lui un nuovo, rigenerante idillio, dove la percezione della realtà sfreghi la propria schiena contro le svettanti, incandescenti, mutevoli, cangianti pareti del simbolo, nella rimodulazione di paesaggi creaturali, di passaggi interiori a stretto contatto con l’umoralità e i piccoli rintocchi della coscienza. Si aggregano quindi pagine che oscillano tra stilnovismo paesano e privato e tra figuralità, struttura persuasiva, esattezza gnomica risalenti a Rebora, a Saba, a Delio Tessa, dentro e fuori la traiettoria diagrammatica del poeta di “Satura”, “Ossi”, “Occasioni”. Nel diario delle fasi cruciali d’una vita si coglie a tratti una cadenza kavafisiana, uno scarnirsi mastersiano: confessioni a pelo dell’acqua o fuggevoli brulichìi nella rena sul fondo, ammissioni nette, allusioni prismatiche, sul dorso sgusciante dell’imprendibilità.
Iannarone è essenzialmente sincero e immediato, tuttavia, malgré soi, possiede una duplicità aurorale con cui intaglia l’ebano in un sottotesto che è proiezione di torsione interna, a volte di avvitata vertigine metafisica, quando interpella, ora vibratamente partecipe, ora corrugato in uno straniamento protettivo, la finitudine o la responsabilità dolorosa e bifocale del dubbio. Si vada, per esempio, a “Paura dell’attesa”.
L’atteggiamento verbale, il profilo del discorso seguono una linea evolutiva evidente anche nella progressiva collocazione dei testi, dall’aspro “Parto distocico”, al melanconicissimo “Fratelli di latte”, all’inaspettata franchezza del sorprendente contenuto precognitivo di “Nozze d’amore”, di tagliente dolcezza, di spiazzante consapevolezza (specialmente nei versi “mentre la bellezza del tuo volto non lieto,/saliva pensosa il limitar di quelle scale” o nella conclusione che luccica di terribilità “se non fu già la vita a separarci l’anima,/prima del tuo doloroso, annunciato morire.”). L’incombere del destino si profila in taluni passaggi de “La sua prima scuola”, ma si esplicita nel successivo “L’ultima dimora”: la felicità, la completezza, comunque la tensione ad entrambe, convitano la spiacevolezza dell’imprevisto, la secchezza abrasiva dello scarto tra sogno e evidenza pragmatica; nella ricetta accuratamente annotata s’intrude un “quid” che ne spossessa la legittimità dell’attesa pregustativa con l’amarulenza di una serie di particolari incalcolabili, prepotentemente ineludibili, impossibili da prevenire. Dunque l’amore può divenire estraneità, nel migliore dei casi rimasticata abitudinarietà, l’immaginazione impotenza di fronte alla fatalità che mai offre indulgenze. Predestinazione e rimorso già si profilano in queste prime composizioni, nelle quali tremola lo spettro di una solitudine che confina con l’assenza di senso dominata dal chaos delle probabilità, a dispetto di ogni scintillante (o cauto) calcolo.
La pena del distacco si arricchisce di pur irrazionali “colpe”, per cui la lontananza fisica, geografica, si fa bestemmia impronunciata e latente, macabro sberleffo di un celeste Motore le cui volontà sfuggono, suonano anzi irrisorie, castigano e travolgono la religiosità che non si vorrebbe intaccare, aspergere di fumo, di risentimento. Eppure, un nucleo d’amore eroico nella sua coerente follia assistenziale (il marito che non si separa neanche un attimo dalla moglie per ben cinque anni è genuina manifestazione di “affectio maritalis”, fondamento giuridico e etico del matrimonio: ciò che fa il matrimonio non è il rapporto sessuale né la convivenza, bensì l’autentico, forte legame affettivo) offre la re-sistenza ad un Dio, il cui senso di giustizia pare focomelico, mistericamente ermetico, desunto come crudele.
“Io non vi fui accanto, mi trovai lontano./L’ingiustizia di un Dio, adorato padre,/recluse voi nello studio al pianterreno,/vi sprofondò entrambi in quella stanza,/come in una cella d’attesa della morte,/ove l’amor tuo consumò l’ultima follia./Lei colse il sonno all’alba del Battista,/tu cacciasti via il mondo dal tuo cuore/prima che al solstizio rinascesse il sole./Io non vi fui accanto, mi trovai lontano.” (“Morte dei genitori”)
Qui l’andamento del testo, la cadenza metrica, le ombre tra espresso e impronunciato, riportano a certo Kavafis, a certo Penna; la parola si ferma all’esattezza dell’essenziale, vibra in un unico fotogramma replicato; rabbia e rammarico fasciano la sofferenza, una macabra ironia crocida facendo quadrato intorno all’io poetante, smarrito nello sgomento, nella collera impotente, nella reiterata lacerazione. Tutto è nettamente percepibile, nel pudore d’un nastro di pietà.
Il tema della Giustizia, la giustizia legale, quella dell’applicazione corretta dei diritti e dei doveri, e quella umana e morale, che prevede e favorisce all’occorrenza flessibilità, è uno dei perni che dirime coscienza e condotta nella vita professionale e privata del poeta, e prima di lui, di suo padre. Una interpretazione ambigua di giustizia può condurre all’errore e al danno, spesso irreversibile. In Bioetica è l’ideale umano più pregnante di un mondo che aspiri al riconoscimento e al rispetto dei diritti altrui, assicurando e dispensando a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge. Nella teologia cristiana è virtù cardinale, sinonimo di moralmente buono, essenza della moralità, condizione di imparzialità. I filosofi se ne sono occupati dai pitagorici ai sofisti, da Socrate a Platone, fino a Cicerone che nel “De inventione” formula: “Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem”; tradotta da Ulpiano (in Dig.I, 1,10): “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi”; ‘l’habitus animi’ diventa la ‘constans et perpetua voluntas’, mentre la ‘dignitas’ diventa lo ‘ius’. S.Tommaso sosterrà che la ‘pietas’ è virtù annessa alla giustizia, mentre Bacone e Cartesio derivano la nozione della giustizia dal senso o dalla ragione; per Hume l’idea della giustizia deriva dall’esperienza psicologica dell’uomo, che essendo diviso tra altruismo ed egoismo ha necessità di stabilire norme a garanzia della proprietà privata in nome della comune utilità e necessità (non per la loro verità o razionalità intrinseche). Secondo Leibnitz la giustizia che si basa su considerazioni di utilità e di convenienza sociale è forma imperfetta della giustizia eterna, essenza stessa di Dio, innata nell’uomo. I giusnaturalisti cercheranno di conciliare empirismo e razionalismo con le esigenze della vita giuridica e politica. Kant sintetizza contrapponendo al concetto di giustizia come eguaglianza il concetto di giustizia ergo libertà, di cui l’eguaglianza è il limite oggettivo. Hegel col suo idealismo integra il concetto kantiano. La giustizia, così come lo spirito che la produce, non è, ma diviene. I dualismi tra giustizia razionale e naturale, assoluta e relativa, l’essere e il dover essere del giusto, perdono valore in un sistema che afferma la razionalità del reale e concepisce la realtà in quanto pensiero obiettivato. Benché Hegel asserisca anch’egli che la giustizia è libertà, nondimeno solo nello Stato essa si afferma in forma concreta e universale, mentre trova attuazione astratta nell’individuo e nei rapporti interindividuali. Ardigò, Comte e Spencer cercano il fondamento della giustizia nella biologia e nella sociologia, per i quali (esplicitamente Spencer) la giustizia è “l’etica della vita sociale”. Nei tempi più recenti si sono attestate posizioni di reazione a tale concezione positivista (con il ritorno almeno parziale all’idealismo) o di rinuncia a una precisa definizione filosofica.
Quel che turba il giurista, che è anche onest’uomo, sono le implicazioni dell’adagio “Summum ius summa iniuria”: l’applicazione rigida della legge senza la necessaria duttilità porta a commettere pesanti ingiustizie, a comminare vere e proprie ‘croci’. Il che è espresso egregiamente da quest’altro motto: “Si careat pietate rigor pietasque rigorem non habeat, perdit iustum sententia florem” (“Se il rigore manca di pietà e la pietà non è sostenuta dal rigore, la sentenza perde il fiore della giustizia”).
Nella storia della poesia diversi uomini di legge hanno addirittura tralasciato tòcco e toga per riversare l’animo loro nell’improduttiva (economicamente parlando), ma salvifica poesia; ad esempio Edgar Lee Masters, che preferì la gloria di “Spoon River” (raccolta delle epigrafi di un cimitero, i cui defunti, appartenuti alla comunità  immaginaria di un’inesistente cittadina americana di provincia, risorgono a narrarsi, per miracolo e condanna), e sull’onda del successo di pubblico e critica, di lettori e di addetti ai lavori, finì col dedicarsi interamente alla letteratura.
L’allontanamento dalle discipline giurisprudenziali, la presa distanza, la ripulsa (vuoi per una viziata o mancata applicazione di epicheia o quant’altro) trovano enfasi nell’atto edace e rivendicativo descritto in “Fine del Diritto”, in un compiaciuto sbarazzo goliardico, che mescola stanchezza a furia, malsopportazione a indiavolata ironia, ad allegorica taranta primitiva (nei versi l’assonanza ‘contrappasso’/‘sparso’) che esorcizza il feticcio amatodiato.
“…Al suono di campana del mio ultimo giro,/un forte impulso a distruggere ha segnato/l’ora notturna, fatale alle giurisprudenze./Una fine illegale, una discarica abusiva/ha riservato loro il giusto contrappasso/al tanto di disumano che hanno sparso…”
A tanto, che trasforma il giurista in un elfo da pògrom sulle orme della personale catarsi, si contrappone l’idealismo di un’allieva “che da poco viveva/ nel mondo del diritto con una fede cieca,/ innamorata delle verità di un Tribunale” (“Fiore di stoffa”).
Eros e Thanathos sono contendenti nella silloge, nonché scandaglio dell’alba nuova e dell’assoluta fissità cieca della notte finale: nel bilancio, preferiamo dar peso sostanziale all’amore, così potente da scacciare il terrifico profilo della Falciatrice. Anna, la seconda moglie, assurge a icona romantica: creatura grecizzante (e grecale, come il vento che porta scompiglio, qui positivo e rigenerante), fasciata di pathos, un pathos né episodico e transitorio né tantomeno dissolubile; protagonista e oggetto d’un timido amor cortese, ella resta semplice, vera, “padrona di cuori” senza esercizi di “dominio” sul ‘trobador’ amato; deliziosa nota in sottofondo, medaglione ovale di Monsieur Gallé “clair de lune” e schizzo d’Egon Schiele, ella che custodisce ed estrude la rinascita luminosa e ‘illuminata’, appartata, diafana (eppur concreta) per elegante discrezionalità, mai per subalternità di ruolo e significato. Il suo Gennaro le concerta una delicata sinfonia nel bellissimo “Meriggio sonnolento”, ineguagliato rispetto agli altri due.
“Cella di San Pio” e “Il Quadro di Gesù” sono componimenti che ci paiono speculari delle due fedi, religiosa e laica, ed entrambi frullano le ali dell’unico bene liberato dalla curiosa Pandora: la speranza, liquida gemma che di sé irrora il sangue spossato, ammalato del mal di vivere. E la speranza non si limita a consolare, fa da guida, è un faro a guardia dei vascelli attirati verso devastanti scogli. “Un Viaggio Sognato” è una fiaba melodrammatica che celebra il connubio tra fantasia e materia creazionale, dipinge un balletto ipnagogico, corteggia il Sommo, guizza tra Shakespeare e Anton Cechov, chiama a sé, bisbigliando, un meno inquietante Max Ernst e Calderón de la Barca.
Tra segno meno e segno più, meno che prosa, più che poesia, il poemetto di congedo, “Il Destino e l’Anima”,  soliloquio concentrato e commosso, recitato in un invisibile confessionale, che si espande a dialogo con gli scomparsi genitori e rende sublime e spudorata la franchezza, nuda e priva di ogni infingimento. C’è lo scorrimento d’un fiumiciattolo pluviale, acqua frammista a qualche lacrima d’ambrosia, con pietrisco residuo nel letto, che però non taglia più le piante ignude e i talloni del poeta che lo guada. In particolare si verifica o sussiste lo sdoppiamento tra l’io e l’entità paterna, un inluiarsi dantesco conseguente alla divaricazione psicologica, che surrealisticamente potrebbe addirittura dirsi e farsi reciproca, quasi da flusso osmotico. Significherebbe andare troppo in là. “Giocare” con incarnazioni simbolico-oggettuali. Minore “simpatia” è riservata alla madre, che a noi il poeta rende apparizione corrucciosa, incline all’aggrottar della fronte, stretta nelle labbra che ammoniscono parcellizzando i sorrisi. Ma è un’impressione. Lecita per chi, analizzando, la coglie. Iannarone si scusa apertamente, con lei, di aver ceduto all’amore “revenant”, nella stagione in cui è facile e pressappoco scontato rinunciare, per la vergogna, per l’ipocrita, antiquato scrupolo di concepire soprattutto l’abbraccio carnale (Si pensi al Padre nei Sei Personaggi pirandelliani). Sia come sia, nel frattempo Anna ha vinto, ha abbattuto sciocche e oscuranti reticenze, ha scardinato grigi pregiudizi, ha sostituito con risate, allegria e sensualità la polvere e i cascami di un’angoscia adesso, finalmente, e definitivamente, sottochiave.

                                                                                                 ARMANDO SAVERIANO



GENNARO IANNARONE – VIVERE BALENANDO IN BURRASCA – SCUDERI ED. – 2015 – PP. 48 – Euro 12.00 



MERIGGIO SONNOLENTO

Nel meriggio sonnolento c’è il timore
di squilli di telefono, di porte malchiuse
ai rintocchi del cucco e della pendola,
al fischiante vortice della lavatrice,
allo sciacquìo della lavastoviglie,
al tremito stridulo del frigorifero,
che riprende il suo ciclo.
Poi tutto è fermo, e ora son fasciato
in un letto dove mi pare d’esser solo…
Il pensiero di te è ancor sospeso
come la promessa di un bacio.
Se mi rileggo sento che, forse,
quando l’ho scritta già dormivo,
e i versi mi son giunti che sognavo.
Certo ch’era disteso il corpo mio,
e il volto tuo, vicino, più che vivo.

GENNARO IANNARONE





Gennaro Iannarone



Carmela Testa (la Madre)
Nicola Iannarone (il Padre)


giovedì 2 aprile 2015

IL NODO SPEZZATO


QUANDO UN PADRE SOPRAVVIVE AL FIGLIO





Con uno stile e una configurazione strutturale narrativa più matura e consapevole, Vittorio Graziosi si ripropone al pubblico con un racconto lungo, “Sangue di Rosa Scarlatta”, che si muove tra scavo interiore in ogni nicchia dell’io abraso e mutilato e studio d’una vita sullo sfondo sociale traumatizzato dalle deflagrazioni anomiche del terrorismo con la sua atroce strategia del terrore. Graziosi resta qui più che mai un prosatore poetico, che carezza e esalta le virtù radianti della parola, curata come un gatto di razza, e nutrita d’appassionata attenzione al tono, al suono, alla caratura. Questo impreziosisce e rende fluidissime le pagine, senza mai tradire il ritmo di scorrimento, che appartiene alla novella e non alla cadenza tradizionale del romanzo. La materia è disturbante, il nucleo della trama s’attorce attorno agli effetti d’una violenza subìta e per ritorsione programmata; l’andamento è quello frammentato dell’annotazione diaristica con la morbidezza estetica di metafore eleganti, che conquistano e contrastano la tragedia, rendendone più digeribile l’avvenienza; bilanciano la spietatezza della sfiliazione e la crudezza della vendetta acquattata nell’inconscio e reificata quasi per abreazione indotta dal personaggio “distante” della moglie del protagonista. Graziosi rende con plausibilità lo shock permanente che investe come una bomba neuronale, psicogena, il padre “sfigliato” sia brutalmente sia fatalmente: l’orrore della morte è addirittura superato dal ruolo beffardo del destino, che ha stabilito diaboliche casualità e che ha appiccato la miccia per le ricadute catastrofiche sulle vite di almeno tre altre persone, sradicate dal ruolo di genitore e di fidanzata. Le immagini descrittive si muovono con coerenza sul filo di linearità e simultaneità, potenziando, con la parola e nella parola, la coesistenza degli opposti: visione-visionarietà, reale-fantasticato, desiderio-sogno. Il padre resta e si muove in solitudine, nonostante la tentazione d’inluiarsi in Paolo, possedendone, desiderato e posseduto, la compagna Francesca. La stessa ex moglie è una “revenante”, benché giochi un ruolo di catalizzatrice di eventi, di macchina motrice, di coscienza esterna che s’incarna in una erinni giustiziera illegittima (secondo il codice penale). Restano, la moglie Lucia e la mancata nuora, amante episodica e per inevitabilità, Francesca, sullo sfondo, lungo una parete un po’ sfocata. In primo piano, solitario, in bilico tra sanità e psicopatia montante, l’uomo adulto, il padre “sfigliato”, che usa le pagine del diario come tele cartacee su cui far danzare pennelli espressivi, quasi un’estetica della mania, una grazia della follia, un impari risarcimento allo strazio della perdita, brutale e prostrante. È pezzente, smarrito, dilacerato in una non luoghità che non riesce più né a comprendere né a reggere, se non con un atteggiamento spiritato, posto sulla riva d’un altro mare, dalla parte del cannocchiale rovesciato. E diverrebbe monade incancrenita, nolontà, nescienza, se non fosse per la presenza reale e/o fantasmatizzata di Francesca, che più che circuirlo plasma la sua carne e modella la sua mente predisposta fino al tentativo di trasformarlo in Paolo, fino a indurlo a calarsi nell’animus e nell’anima del giovane morto, senza che Graziosi renda macabro o morboso il processo induttivo. Magistrale, per delicatezza ed esplicitazione non volgare, la sequenza erotica nella scena del bagno, tra l’uomo adulto e la donna giovane trasfigurati nei ruoli; tra il padre e la fidanzata golpizzati dalla sorte, detronizzati della paternità e dell’uxorietà, rinati attraverso l’evocazione reificata del terzo elemento collegante, Paolo. Esisterà, persisterà sempre un velo tra realtà e reinterpretazione della realtà, per gli occhi del protagonista, e quindi per il lettore, favorito dall’abilità empatica di Graziosi nell’immedesimazione. Un ennesimo “coup de plot” Graziosi lo riserva verso la fine, quando tutto, a Londra, si ribalta, e i piani si capovolgono, i destini reclamano una loro inconcepibile gemmazione. La quadratura del cerchio si attua con una sorprendente, spiazzante semplicità. E il diario si spinge in un futuro che tutti potrebbero ritenere fiabesco, improbabile, se la magistrale penna (e i talenti empatici) di Graziosi non riuscissero, con naturalezza, a farcelo accettare.
Splendida la tavola di copertina di Eugenio Derevyanko. Quanto alla prefazione, andiamoci cauti: Antonella Montecchiari non entra nel merito e nelle competenze della letterarietà; si limita a informare sui (lodevolissimi) propositi umanitari e altruistici dello scrittore, il quale, nel sostenere il progetto “Solidarietà contro il Terrorismo”, devolve l’intero ricavato della vendita del volumetto all’Associazione onlus Nabat, “che opera a Kiev a sostegno di bambini in situazione di grave disagio”. 
Infine, il gradevole, delicatissimo racconto “La storia di Sasha” (un’odissea del cuore) fa da insolita postfazione (e giammai da ruota di scorta) al testo portante che dà titolo al libretto; è più di un cameo, è anzi un dono del ricordo, una commemorazione ad perpetuum, una stilla di commozione che ci rimanda ai migliori racconti e allo stile dell’indimenticabile Ray Bradbury o alla potenza penetrativa di Taylor Caldwell.

                                                                                        ARMANDO SAVERIANO



SANGUE DI ROSA SCARLATTA–V. GRAZIOSI–SCRIPTORAMA ED. PRIVATA–2014–FERMO–PP 100–EURO 12.00




Il volume verrà presentato al Circolo della Stampa, sabato 4 aprile p.v. alle ore 17.00, a cura dell’Associazione Culturale “Logopea” e del Centro di Documentazione sulla Poesia del Sud. Relazioneranno: Paolo Saggese e Alessandro Di Napoli, critici letterari; Stefania Marotti, giornalista de “Il Mattino”; Armando Saveriano, patron di Logopea, direttore artistico della manifestazione con Davide Cuorvo, modererà il dibattito e interpreterà brani scelti. Accompagnamento musicale di Hera Guglielmo.




Vittorio Graziosi
Vittorio Graziosi











Vittorio Graziosi