giovedì 16 aprile 2015

SENTIMENTO ED ETICA RESISTENZIALI IN GENNARO IANNARONE


La rapida maturazione di un poeta ‘imprevisto’ acuminato e pacato





Non è raro l’approdo poetico in età non verde; si può anzi vivere gran parte dell’esistenza all’ombra di una nuvola gentile e vagabonda che attende il suo momento per essere notata, invocata a braccia tese, presa al laccio dell’anima; anima che quella stessa eterea, vaga nube aveva già corteggiato, carezzato, con discrezione e pazienza, forse da sempre. L’essenza poetica sa maturarsi in chi per essa è semi-inconsapevolmente vocato;
e dalla prima, anche lunga fase di apprezzamento e di letture, vinta una nobile reticenza, si può essere indotti,  un giorno magico e imprevedibile, a praticarla, a darle aggetto personale, testando tono e timbro, estetica ed efficacia del messaggio verbale, della generale funzionalità. Sicché, da desiderio astratto e intermittente, il praticarla si fa concretezza, produzione di pensiero emotivo, quel raccordo tra mente e cuore, testimonianza e sogno, diario realistico e immaginazione al galoppo.
Così è successo per Gennaro Iannarone, nato con un temperamento artistico, portato per gli interessi umanistici e per la pratica delle lettere, ma dirottato, ovviamente sotto il firmamento delle migliori intenzioni, e senza forzature, allo studio e alla carriera giurisprudenziale, forense, da una famiglia profondamente immersa nel clima severo e impegnativo della toga e dei tribunali, dei codici e del martelletto di giustizia. Seguendo direttive e piste del papà giudice presso il tribunale di Ariano Irpino (e tuttavia anch’egli animo duale, amante dell’arte in ogni sua manifestazione, dal teatro alla pittura e scultura, dalla musica alle cattedrali di pensiero, discepolo altresì delle muse sull’Elicona virtuale della poesia alta) ecco il brillante e volitivo studente laurearsi a Napoli nel 1963 e divenire magistrato due anni dopo. Prima pretore a Partenope, quindi giudice ordinario e tributario nei corridoi e per le aule del tribunale di Avellino. Onorevole e onorata carriera, benché picchiettata di inquietudini, di un latente, inspiegabile tarlo di insoddisfazione, come per una marsina stretta o un copricapo che non ci convince, un modello di scarpa che si vorrebbe diverso. La perdita straziante della prima moglie, Liliana, è probabilmente un ulteriore segnale impressivo che lo induce, dieci anni dopo, a dimettersi dalla Magistratura e ad accettare la carica di Presidente del Teatro Carlo Gesualdo, protrattasi fino al settembre 2007.
Intanto, molteplici le pubblicazioni, i convegni, i mini-saggi, le prefazioni e le collaborazioni a riviste (“Nuovo Meridionalismo”, “Sinestesie”), gli incontri scolastici sul tema dell’Educazione alla Legalità. Con l’editore Guida di Napoli stampa: “Io, giudice cristiano ed eretico” (2004); “Verità al risveglio” (2006); “Percorsi tra Legalità e Valori” (2009); “Sentinella di Vita” (2010), “Sciroppo amaro ed altri veleni” (2012); con la Poligrafica Ruggiero di Avellino: “I ragazzi della Via Vasoli” (2012).
Decisivo l’incontro con Anna, che diverrà sua sposa in seconde nozze, creatura che racchiude in sé la sensibilità per il bello e l’armonico, sempre pronta a permearsi di attrait verso la musica, la pittura, il logos lirico, epico, sublime, filosofeggiante e parateatrale; compagna degna nell’avventurosa navigazione sul “Bateau Ivre” di Rimbaud. 
La scelta del verso di Vincenzo Cardarelli (lo scrittore di Tarquinia, co-fondatore de “La Ronda”, il cui vero nome era Nazareno Caldarelli) che beccheggia in copertina a dar titolo alla raccolta edita da Scuderi (“Vivere balenando in burrasca”) è emblematico per la comprensione dell’uomo nelle sue vicende personali, professionali e familiari, e della poetica dell’autore, un autore che accoglie in palmo di mano, di volta in volta, la verità irrecusabile dell’atto compositivo, interpellando la memoria, chiamando al banco dei testimoni l’istintualità e la volatile libertà del dire, sia nelle alcove del metalinguaggio sia negli spazi aperti e diretti di un parlare tanto trasparente e leale da patteggiare con la prosa (il poemetto “Il Destino e L’Anima”). Benché ami Montale assai più di Leopardi (a cui però tendeva esplicitamente Cardarelli nel suo programma di restaurazione classica), Iannarone subisce il fascino della schiettezza emotiva dell’autore (in parte imbevuto di sensualità di marca quasi dannunziana) di “Viaggi nel tempo”, “Favole e memorie”, “Parole all’orecchio”, “Solitario in Arcadia”, “Villa Tarantola”, “Il Viaggiatore insocievole”, e per slanci adempienti non si congeda mai dalla lezione dantesca (“Io mi son un che quando amor m’ispira” - citaz. in “Nozze d’amore” dal Purgatorio, canto XXIV 52-54; “che mai da me non fia divisa”, citaz. in “Cella di San Pio” dall’Inferno, canto V -135) o dall’irresistibilità delle allegorie shakespeariane (“La tempesta”, Atto IV, Scena I, in exergo a “Un viaggio sognato”).
È Anna che lo spinge a misurarsi con la Poesia, certa di suscitare in lui un nuovo, rigenerante idillio, dove la percezione della realtà sfreghi la propria schiena contro le svettanti, incandescenti, mutevoli, cangianti pareti del simbolo, nella rimodulazione di paesaggi creaturali, di passaggi interiori a stretto contatto con l’umoralità e i piccoli rintocchi della coscienza. Si aggregano quindi pagine che oscillano tra stilnovismo paesano e privato e tra figuralità, struttura persuasiva, esattezza gnomica risalenti a Rebora, a Saba, a Delio Tessa, dentro e fuori la traiettoria diagrammatica del poeta di “Satura”, “Ossi”, “Occasioni”. Nel diario delle fasi cruciali d’una vita si coglie a tratti una cadenza kavafisiana, uno scarnirsi mastersiano: confessioni a pelo dell’acqua o fuggevoli brulichìi nella rena sul fondo, ammissioni nette, allusioni prismatiche, sul dorso sgusciante dell’imprendibilità.
Iannarone è essenzialmente sincero e immediato, tuttavia, malgré soi, possiede una duplicità aurorale con cui intaglia l’ebano in un sottotesto che è proiezione di torsione interna, a volte di avvitata vertigine metafisica, quando interpella, ora vibratamente partecipe, ora corrugato in uno straniamento protettivo, la finitudine o la responsabilità dolorosa e bifocale del dubbio. Si vada, per esempio, a “Paura dell’attesa”.
L’atteggiamento verbale, il profilo del discorso seguono una linea evolutiva evidente anche nella progressiva collocazione dei testi, dall’aspro “Parto distocico”, al melanconicissimo “Fratelli di latte”, all’inaspettata franchezza del sorprendente contenuto precognitivo di “Nozze d’amore”, di tagliente dolcezza, di spiazzante consapevolezza (specialmente nei versi “mentre la bellezza del tuo volto non lieto,/saliva pensosa il limitar di quelle scale” o nella conclusione che luccica di terribilità “se non fu già la vita a separarci l’anima,/prima del tuo doloroso, annunciato morire.”). L’incombere del destino si profila in taluni passaggi de “La sua prima scuola”, ma si esplicita nel successivo “L’ultima dimora”: la felicità, la completezza, comunque la tensione ad entrambe, convitano la spiacevolezza dell’imprevisto, la secchezza abrasiva dello scarto tra sogno e evidenza pragmatica; nella ricetta accuratamente annotata s’intrude un “quid” che ne spossessa la legittimità dell’attesa pregustativa con l’amarulenza di una serie di particolari incalcolabili, prepotentemente ineludibili, impossibili da prevenire. Dunque l’amore può divenire estraneità, nel migliore dei casi rimasticata abitudinarietà, l’immaginazione impotenza di fronte alla fatalità che mai offre indulgenze. Predestinazione e rimorso già si profilano in queste prime composizioni, nelle quali tremola lo spettro di una solitudine che confina con l’assenza di senso dominata dal chaos delle probabilità, a dispetto di ogni scintillante (o cauto) calcolo.
La pena del distacco si arricchisce di pur irrazionali “colpe”, per cui la lontananza fisica, geografica, si fa bestemmia impronunciata e latente, macabro sberleffo di un celeste Motore le cui volontà sfuggono, suonano anzi irrisorie, castigano e travolgono la religiosità che non si vorrebbe intaccare, aspergere di fumo, di risentimento. Eppure, un nucleo d’amore eroico nella sua coerente follia assistenziale (il marito che non si separa neanche un attimo dalla moglie per ben cinque anni è genuina manifestazione di “affectio maritalis”, fondamento giuridico e etico del matrimonio: ciò che fa il matrimonio non è il rapporto sessuale né la convivenza, bensì l’autentico, forte legame affettivo) offre la re-sistenza ad un Dio, il cui senso di giustizia pare focomelico, mistericamente ermetico, desunto come crudele.
“Io non vi fui accanto, mi trovai lontano./L’ingiustizia di un Dio, adorato padre,/recluse voi nello studio al pianterreno,/vi sprofondò entrambi in quella stanza,/come in una cella d’attesa della morte,/ove l’amor tuo consumò l’ultima follia./Lei colse il sonno all’alba del Battista,/tu cacciasti via il mondo dal tuo cuore/prima che al solstizio rinascesse il sole./Io non vi fui accanto, mi trovai lontano.” (“Morte dei genitori”)
Qui l’andamento del testo, la cadenza metrica, le ombre tra espresso e impronunciato, riportano a certo Kavafis, a certo Penna; la parola si ferma all’esattezza dell’essenziale, vibra in un unico fotogramma replicato; rabbia e rammarico fasciano la sofferenza, una macabra ironia crocida facendo quadrato intorno all’io poetante, smarrito nello sgomento, nella collera impotente, nella reiterata lacerazione. Tutto è nettamente percepibile, nel pudore d’un nastro di pietà.
Il tema della Giustizia, la giustizia legale, quella dell’applicazione corretta dei diritti e dei doveri, e quella umana e morale, che prevede e favorisce all’occorrenza flessibilità, è uno dei perni che dirime coscienza e condotta nella vita professionale e privata del poeta, e prima di lui, di suo padre. Una interpretazione ambigua di giustizia può condurre all’errore e al danno, spesso irreversibile. In Bioetica è l’ideale umano più pregnante di un mondo che aspiri al riconoscimento e al rispetto dei diritti altrui, assicurando e dispensando a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo la ragione e la legge. Nella teologia cristiana è virtù cardinale, sinonimo di moralmente buono, essenza della moralità, condizione di imparzialità. I filosofi se ne sono occupati dai pitagorici ai sofisti, da Socrate a Platone, fino a Cicerone che nel “De inventione” formula: “Iustitia est habitus animi, communi utilitate conservata, suam cuique tribuens dignitatem”; tradotta da Ulpiano (in Dig.I, 1,10): “Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi”; ‘l’habitus animi’ diventa la ‘constans et perpetua voluntas’, mentre la ‘dignitas’ diventa lo ‘ius’. S.Tommaso sosterrà che la ‘pietas’ è virtù annessa alla giustizia, mentre Bacone e Cartesio derivano la nozione della giustizia dal senso o dalla ragione; per Hume l’idea della giustizia deriva dall’esperienza psicologica dell’uomo, che essendo diviso tra altruismo ed egoismo ha necessità di stabilire norme a garanzia della proprietà privata in nome della comune utilità e necessità (non per la loro verità o razionalità intrinseche). Secondo Leibnitz la giustizia che si basa su considerazioni di utilità e di convenienza sociale è forma imperfetta della giustizia eterna, essenza stessa di Dio, innata nell’uomo. I giusnaturalisti cercheranno di conciliare empirismo e razionalismo con le esigenze della vita giuridica e politica. Kant sintetizza contrapponendo al concetto di giustizia come eguaglianza il concetto di giustizia ergo libertà, di cui l’eguaglianza è il limite oggettivo. Hegel col suo idealismo integra il concetto kantiano. La giustizia, così come lo spirito che la produce, non è, ma diviene. I dualismi tra giustizia razionale e naturale, assoluta e relativa, l’essere e il dover essere del giusto, perdono valore in un sistema che afferma la razionalità del reale e concepisce la realtà in quanto pensiero obiettivato. Benché Hegel asserisca anch’egli che la giustizia è libertà, nondimeno solo nello Stato essa si afferma in forma concreta e universale, mentre trova attuazione astratta nell’individuo e nei rapporti interindividuali. Ardigò, Comte e Spencer cercano il fondamento della giustizia nella biologia e nella sociologia, per i quali (esplicitamente Spencer) la giustizia è “l’etica della vita sociale”. Nei tempi più recenti si sono attestate posizioni di reazione a tale concezione positivista (con il ritorno almeno parziale all’idealismo) o di rinuncia a una precisa definizione filosofica.
Quel che turba il giurista, che è anche onest’uomo, sono le implicazioni dell’adagio “Summum ius summa iniuria”: l’applicazione rigida della legge senza la necessaria duttilità porta a commettere pesanti ingiustizie, a comminare vere e proprie ‘croci’. Il che è espresso egregiamente da quest’altro motto: “Si careat pietate rigor pietasque rigorem non habeat, perdit iustum sententia florem” (“Se il rigore manca di pietà e la pietà non è sostenuta dal rigore, la sentenza perde il fiore della giustizia”).
Nella storia della poesia diversi uomini di legge hanno addirittura tralasciato tòcco e toga per riversare l’animo loro nell’improduttiva (economicamente parlando), ma salvifica poesia; ad esempio Edgar Lee Masters, che preferì la gloria di “Spoon River” (raccolta delle epigrafi di un cimitero, i cui defunti, appartenuti alla comunità  immaginaria di un’inesistente cittadina americana di provincia, risorgono a narrarsi, per miracolo e condanna), e sull’onda del successo di pubblico e critica, di lettori e di addetti ai lavori, finì col dedicarsi interamente alla letteratura.
L’allontanamento dalle discipline giurisprudenziali, la presa distanza, la ripulsa (vuoi per una viziata o mancata applicazione di epicheia o quant’altro) trovano enfasi nell’atto edace e rivendicativo descritto in “Fine del Diritto”, in un compiaciuto sbarazzo goliardico, che mescola stanchezza a furia, malsopportazione a indiavolata ironia, ad allegorica taranta primitiva (nei versi l’assonanza ‘contrappasso’/‘sparso’) che esorcizza il feticcio amatodiato.
“…Al suono di campana del mio ultimo giro,/un forte impulso a distruggere ha segnato/l’ora notturna, fatale alle giurisprudenze./Una fine illegale, una discarica abusiva/ha riservato loro il giusto contrappasso/al tanto di disumano che hanno sparso…”
A tanto, che trasforma il giurista in un elfo da pògrom sulle orme della personale catarsi, si contrappone l’idealismo di un’allieva “che da poco viveva/ nel mondo del diritto con una fede cieca,/ innamorata delle verità di un Tribunale” (“Fiore di stoffa”).
Eros e Thanathos sono contendenti nella silloge, nonché scandaglio dell’alba nuova e dell’assoluta fissità cieca della notte finale: nel bilancio, preferiamo dar peso sostanziale all’amore, così potente da scacciare il terrifico profilo della Falciatrice. Anna, la seconda moglie, assurge a icona romantica: creatura grecizzante (e grecale, come il vento che porta scompiglio, qui positivo e rigenerante), fasciata di pathos, un pathos né episodico e transitorio né tantomeno dissolubile; protagonista e oggetto d’un timido amor cortese, ella resta semplice, vera, “padrona di cuori” senza esercizi di “dominio” sul ‘trobador’ amato; deliziosa nota in sottofondo, medaglione ovale di Monsieur Gallé “clair de lune” e schizzo d’Egon Schiele, ella che custodisce ed estrude la rinascita luminosa e ‘illuminata’, appartata, diafana (eppur concreta) per elegante discrezionalità, mai per subalternità di ruolo e significato. Il suo Gennaro le concerta una delicata sinfonia nel bellissimo “Meriggio sonnolento”, ineguagliato rispetto agli altri due.
“Cella di San Pio” e “Il Quadro di Gesù” sono componimenti che ci paiono speculari delle due fedi, religiosa e laica, ed entrambi frullano le ali dell’unico bene liberato dalla curiosa Pandora: la speranza, liquida gemma che di sé irrora il sangue spossato, ammalato del mal di vivere. E la speranza non si limita a consolare, fa da guida, è un faro a guardia dei vascelli attirati verso devastanti scogli. “Un Viaggio Sognato” è una fiaba melodrammatica che celebra il connubio tra fantasia e materia creazionale, dipinge un balletto ipnagogico, corteggia il Sommo, guizza tra Shakespeare e Anton Cechov, chiama a sé, bisbigliando, un meno inquietante Max Ernst e Calderón de la Barca.
Tra segno meno e segno più, meno che prosa, più che poesia, il poemetto di congedo, “Il Destino e l’Anima”,  soliloquio concentrato e commosso, recitato in un invisibile confessionale, che si espande a dialogo con gli scomparsi genitori e rende sublime e spudorata la franchezza, nuda e priva di ogni infingimento. C’è lo scorrimento d’un fiumiciattolo pluviale, acqua frammista a qualche lacrima d’ambrosia, con pietrisco residuo nel letto, che però non taglia più le piante ignude e i talloni del poeta che lo guada. In particolare si verifica o sussiste lo sdoppiamento tra l’io e l’entità paterna, un inluiarsi dantesco conseguente alla divaricazione psicologica, che surrealisticamente potrebbe addirittura dirsi e farsi reciproca, quasi da flusso osmotico. Significherebbe andare troppo in là. “Giocare” con incarnazioni simbolico-oggettuali. Minore “simpatia” è riservata alla madre, che a noi il poeta rende apparizione corrucciosa, incline all’aggrottar della fronte, stretta nelle labbra che ammoniscono parcellizzando i sorrisi. Ma è un’impressione. Lecita per chi, analizzando, la coglie. Iannarone si scusa apertamente, con lei, di aver ceduto all’amore “revenant”, nella stagione in cui è facile e pressappoco scontato rinunciare, per la vergogna, per l’ipocrita, antiquato scrupolo di concepire soprattutto l’abbraccio carnale (Si pensi al Padre nei Sei Personaggi pirandelliani). Sia come sia, nel frattempo Anna ha vinto, ha abbattuto sciocche e oscuranti reticenze, ha scardinato grigi pregiudizi, ha sostituito con risate, allegria e sensualità la polvere e i cascami di un’angoscia adesso, finalmente, e definitivamente, sottochiave.

                                                                                                 ARMANDO SAVERIANO



GENNARO IANNARONE – VIVERE BALENANDO IN BURRASCA – SCUDERI ED. – 2015 – PP. 48 – Euro 12.00 



MERIGGIO SONNOLENTO

Nel meriggio sonnolento c’è il timore
di squilli di telefono, di porte malchiuse
ai rintocchi del cucco e della pendola,
al fischiante vortice della lavatrice,
allo sciacquìo della lavastoviglie,
al tremito stridulo del frigorifero,
che riprende il suo ciclo.
Poi tutto è fermo, e ora son fasciato
in un letto dove mi pare d’esser solo…
Il pensiero di te è ancor sospeso
come la promessa di un bacio.
Se mi rileggo sento che, forse,
quando l’ho scritta già dormivo,
e i versi mi son giunti che sognavo.
Certo ch’era disteso il corpo mio,
e il volto tuo, vicino, più che vivo.

GENNARO IANNARONE





Gennaro Iannarone



Carmela Testa (la Madre)
Nicola Iannarone (il Padre)


Nessun commento:

Posta un commento