Ho un volto e delle mani.
Orecchie sì, anche quelle. Guardo, scruto e memorizzo. Provo a decifrare e
resto teso. Mi sorprendo quando qualcuno non capisce e pensa che io sia un
pagliaccio. Faccio un segno piccolo e spero nella comprensione altrui. E quasi mai
incontro esseri capaci di sensibilità e amorevolezza. Mi perdo nelle diverse
anime del mio cuore quando il canale comunicativo è ormai appiattito. Sono come
un uccello con le ali che non vola. Come la punta di una penna carica
d’inchiostro che non scrive. Non c’è parola che possa descrivere il mio essere.
Neanche se la spiegazione la portassi penzoloni al collo, capirebbero, quelli,
intontiti dalle parole. Ci sono solo silenzi, segni e distanze perpetue per me.
Nulla che possa ascoltare. Questo è il mio verbo.
So volteggiare nell’aria
e guardarmi allo specchio. Tocco la punta dei miei piedi anche solo con il
pensiero. Sento il battito del mio cuore e tutte le emozioni. Sento delle cose
che non so spiegare. Sento e non sono le cose che voi ascoltate. L’orecchio è
eterno e forse musicale; ma purtroppo la via è sbarrata e non passa proprio
niente.
Gioco, palla, nascondino,
ansia, fiatone, cono gelato, pantaloncino, erba del prato, ginocchia sbucciate,
comodino con foto, ossa allungate, mamma che abbraccia, capelli da pazzo,
occhiali dorati, mani unte, piedi neri, labbro che pronuncia, scarpa perduta,
papà che legge, colore del cielo, mare che bagna, spiaggia serena, macchina
ferma, labbro che sorride, vigile bianco, albero giù, pioggia di casa, rientri
imprevisti, pomelli d’ottone, luce davanti, macchie di vita, libri distanti,
forza nascente, muro, cuore, ansia, fumo, calza, stima, sensazione, rima,
oggetti toccati e solite cose.
Tutto un flusso di azioni
vissute. Toccate. Osservate. Distrutte. Pulite. Segnate. Sparite. Mai
ascoltate. Mai parlate.
Mi chiamo Adelmo e sono
sordo e anche muto. Sono sempre stato Adelmo. E sempre sarò sordo e anche muto.
Un sordomuto che sbraita a suo modo senza vergognarsi.
Non scopri di essere
sordomuto. Non è come quando ti ritrovi una specie di barba sul pene
all’improvviso. O quando dalle ascelle cominciano a spuntare i primi peli. No.
Quelli sono cambiamenti naturali che si presentano allo specchio o sotto la
doccia con un lento preavviso. Perché un’idea della crescita te la sei già
fatta guardando gli adulti.
Da bambino, era come se
qualcuno avesse schiacciato il tasto mute, sul telecomando delle mie funzioni
fisiche e aspettavo solo che poi si ricordasse di rifare la stessa azione e
restituirmi la parola. È un’illuminazione improvvisa. Comprendi in un attimo
che la tua strada è diversa e che esistono altre cose che puoi sviluppare e
vivere. Anche senza parola. Anche senza ascoltare. Perché ognuno trova una via
per comunicare. Anche uno come me.
Io comunico sì, ma come
mi pare. So fare gesti ed anche segnali. Penso a una parola e poi ne penso due
e poi ancora e ancora. Parole che non posso pronunciare e che per me non hanno
suono. Poi penso alla musica. E a ogni parola accosto la mia musica. Una musica
per vocale. Una musica per consonante. Una musica, per ogni singolo stato
d’animo. Un suono. Due suoni. Tre suoni. Un non suono e uno. Un non suono e
due. Un non suono e tre.
Amo la musica, ma non
posso ascoltarla. Amo la musica e con essa parlo, mi descrivo, mi sostengo e faccio
finta di essere normale, di avere voce e poterla usare. Ho messo al primo posto
l’amore. Quello per cui uno sguardo dice tutto e non servono parole. L’amore
era l’unica cura che avevo sempre cercato. Il perdersi ostentatamente negli
occhi di una sconosciuta all’uscita di un bar o davanti alle vetrine di un
coiffeur pensando e sperando di poterla amare più di come il migliore amante
abbia mai amato prima di te.
Passeggio spesso e ben
volentieri. Osservo le persone, ne scruto le movenze e per ognuno trovo un
soprannome.
Sig. nasone, la donna
barbuta, zia puzzona, sorella racchia e tizio zazzera.
Passeggio sempre e vado
soprattutto alla ricerca del bello. Colgo un profumo, appunto una rima nel mio
taccuino, mi godo un raggio di sole mezzo pronunciato e trovo piacere nelle mie
piccole cose. E tra un gesto e l’altro d’improvviso la vidi.
Una ragazza che
passeggiava muovendo le labbra, tutta sola, al ritmo di una musica mentale. Fu
amore eterno, pacifico, umano, onesto, dirompente di gioia e ansia. Fu amore
invano, assente, vuoto, osceno, nudo e poetico. Fu amore come se fosse da
sempre. Era lei, che avevo sempre amato. Lei nei miei sogni ad occhi aperti.
Lei che sorride ogni notte e che non ritrovo mai nella realtà. Lei che sembra
finta, e invece è lì che canticchia una musica a memoria e sorride, fiera,
mentre osserva la vetrina di una libreria. Resta così. Non ti muovere!
Fatti osservare ancora un
po’, te ne prego. Lascia che memorizzi ogni misura del tuo corpo. Lascia che la
mia anima tenda alla tua. Lasciati a me. Ti curo io.
Mi avvicinai lentamente
senza mai perdere le sue labbra dalla mia vista. Le avrei dato tutto me stesso
in quello stesso istante. Se mi avesse chiesto il cuore, lo avrei strappato dal
mio petto e posto nelle sue mani rosee. Sentivo sensazioni nuove, che mai,
avevo provato prima. Mi sentivo gioioso e allo stesso tempo terribilmente solo.
Ero pazzo di gioia e intontito dai sentimenti e triste per la mia limitazione
verbale. Avrei voluto dirle cosa provavo e sperare nel suo reciproco amore; ma
non potevo e la cosa mi fece perdere, da subito, il sorriso.
Posso leggere le labbra
di una persona. Mi basta osservare la scansione delle parole ed è quasi come
ascoltarla. Osservavo le sue labbra e riuscivo a musicare nella mia testa i
versi, e quelle parole diventavano le nostre. Leggo spesso e poi memorizzo i
testi delle canzoni, di cui però non conosco la musica. E allora la invento e
muovo la testa come se fossi a un concerto solo mio, dove il cantante e lo
spettatore sono un’unica cosa.
Era come se lei parlasse
con me, ma da lontano, senza vedermi. Ed io cantavo con lei.
La mia idea romantica, il
mio sogno di paglia. La ragazza sconosciuta non si era accorta della mia
insistenza “occhiuta”, non sapeva chi fossi, non mi ascoltava. E come darle
torto poi; in fondo ero uno dei tanti sguardi che la accompagnavano lungo il
suo cammino, in quella affollata via del centro. Se lei avesse visto le mie
labbra, se avesse notato come si muovevano all’unisono con le sue. Allora sì,
allora non sarei diventato lo sguardo fra tanti e lei mi avrebbe finalmente
visto. Forse sarei stato l’unico che, guardandola, avrebbe parlato con le sue
parole, anche se le mie, l’ho detto, erano mute.
Non avevo speranza alcuna
di poter avvicinare il mio amore, non sapevo come fare. Continuavo a seguirla
con lo sguardo, ma ormai non cantavo più e le mie labbra erano tese e il mio
sguardo triste. Si allontanò e sparì tra la folla fragorosa di quella domenica
mattina. Ecco il dolore. Ecco l’ansia, la solitudine che annienta. Senza parole
e senza amore.
Fu allora che pensai alla
musica, non come verso, ma come sostituto della parola. Della parola che non
potevo avere. Pensai allo strumento che avevo sempre amato e sognato un giorno
di poter suonare: il clarinetto. Ero sicuro che l’idea della musica potesse
funzionare, semmai fossi riuscito a ritrovarla. Le avrei dedicato il mio amore
con la voce dello strumento.
Acquistai il mio primo
clarinetto in si bemolle e corsi a casa. La prima cosa era imparare qualche
nota romantica e correre da lei per suonarle la mia dichiarazione. Sarei
rimasto davanti alla libreria, la domenica successiva, nella speranza che lei
passasse di nuovo di lì. Il giorno del nostro possibile incontro si avvicinava
e la mia mano tremante non riusciva più a suonare. Ormai avevo quasi rinunciato
ad andare da lei e speravo che la domenica non arrivasse più, per non ammettere
di averla persa senza mai averla avuta. La domenica arrivò ed io restai chiuso
in camera, in attesa di qualcosa. A un certo punto mi alzai e decisi di andare
a pattugliare quella benedetta libreria. Presi il clarinetto, m’incamminai. Ero
teso e i miei passi impauriti. Arrivai davanti alla vetrina che mi aveva visto
amante senza unione e restai fermo a lungo in attesa di vederla. Fissavo il
clarinetto sperando di riuscire a suonarlo come avrei voluto. Un senso di
oscuro smarrimento mi assaliva. I dubbi mi divoravano il cervello. E se fosse
arrivata con qualcuno? Il fidanzato magari, oppure un’amica? Che cosa avrei
fatto? Quanta ansia. Se questo è l’amore, allora è meglio non amare! Troppi
spasmi. Troppi tuffi al cuore.
Mentre valutavo se
perseguire la strada dell’amante solitario, l’occhio sinistro comunicò qualcosa
al cervello, che girava vorticoso con i miei dubbi. Era lei, proprio lei che
arrivava dal fondo della strada, da sola, come sempre. Sudavo ed ero pronto a
scappare per la paura. Poi mi feci coraggio, attraversai la strada e le andai
incontro. Era a pochi metri da me ed io portai alla bocca il clarinetto e
cominciai a suonare, ma capii che uscivano solo sbuffi e note senza senso. Non
riuscivo a calmarmi, il battito accelerato del cuore mi faceva tremare e
sudare. Basta, mi fermai e alzando lo sguardo vidi che lei mi stava fissando
come spaesata: non riusciva a comprendere cosa volessi. Immaginai di aver
suonato talmente male che lei, poverina, non riusciva a dire niente. Poi la
ragazza alzò le mani e portandole a mezz’aria fece dei segni che conoscevo bene
e capii qualcosa che mi fece sorridere. Mi disse, con le mani, <<scusa ma
non posso sentire, sono sordomuta>> ed io, lasciando cadere il
clarinetto, le dissi, sempre con le mani, <<anch’io!>>.
Ci sorridemmo e spalla a
spalla, ci avviamo lungo la strada, fissandoci negli occhi.
Io sono Adelmo e sono
sordomuto. La donna che amo si chiama Anna ed è sordomuta.
Oggi passeggiamo e
cantiamo le nostre canzoni solo con le labbra e questo ci fa sentire liberi da
ogni limite.
La musica di Adelmo non
ha note, ma solo segni.
PAOLO GIANNATTASIO
E' un bel racconto. Una scrittura veloce che non si piange addosso. Mi mette la fretta di quella voglia di comunicare attraverso la musica. La parola è musica. Finisce bene come ogni fiaba che si rispetti, e mi piace. Complimenti a Paolo Giannatasio
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