giovedì 24 settembre 2015

ANTOLOGIE POETICHE A CONFRONTO



CRESCONO, SI MOLTIPLICANO, CONVENGONO A EDITORI E AD AUTORI






Non siamo alle prese, diciamolo subito, con raccolte del rilievo di “Linea Lombarda” (a cura di Luciano Anceschi, 1952), “I Novissimi” (curata da Alfredo Giuliani, 1961), “Il pubblico della poesia” (di Berardinelli e Cordelli, 1975), “La parola innamorata” (di Di Mauro e Pontiggia, 1978), “Poesia degli anni Settanta” (di Porta, 1979), ormai classici, di non facile o immediata reperibilità. E neanche si tratta dei due bei volumi monografici “Poesia del Novecento euro-occidentale e americana”, a cura di Sandro Boato, usciti nel primo semestre del 2011 per la storica rivista emiliana “In forma di parole” (diretta da Gianni Scalia dal 1980): edizione plurilinguistica con testi originali a fronte, presenta e propone 65 poeti, tra cui molte donne, da Marguerite Yourcenar a Sylvia Plath, al premio Nobel Gabriela Mistral, con l’inescludibile Emily Dickinson. Antologia certo non a buon mercato (30 euro a volume), ma che un liceo può ben permettersi di adottare o quanto meno consigliare alle insegnanti abuliche, disinformate e odiatrici dell’ottima poesia, propense all’apparire (abbigliamento, trucco, macchinone, optionals, vacanze esclusive, parties, alta bigiotteria, iniezioni di botulino per trattamenti antirughe) invece che all’essere, prima che segnalarla agli alunni, spesso, paradossalmente, piú inclíni alla curiositas.
Le antologie che prolificano oggi sono assai piú modeste, e sono finalizzate non al tentativo di suggerire ‘profeti e precettisti della poesia che si dovrebbe fare’, per usare le parole di Giovanni Raboni, ma allo scopo alimentare degli editori avidi e sovente privi del benché minimo riguardo alla dignità; pubblicano infatti tutti e di tutto, purché i poetini domenicali siano pronti ad essere adescati e a pagare per vedersi inseriti in brutte antologie inutili.
Conviene ricordare che anche i poeti che si sono oggettivamente guadagnati tale appellativo sono affamati di attenzione; chiedono di essere letti, gustati, analizzati: un po’ per quella misurata vanità che rientra nel legittimo, un po’ per testare le qualità di compenetrazione e di empatia dei rispettivi elaborati.
Figuriamoci le orde di mediocri versificatori, gli stormi e le flotte di plebaglia ignorante, disattrezzata, sprovvista del benché minimo strumento espressivo, gente che ha letto (male) uno o due libri scolastici in tutta la vita, e che dovrebbe continuare a scrivere l’elenco della spesa al supermercato.
Ma non si può impedire a nessuno di sognare, di illudersi che quelle proprie quattro stupidaggini gareggino in bellezza e in importanza con la produzione di Giuseppe Guglielmi, Nino Pedretti, Angelo Maria Ripellino, Giovanni Giudici, Paolo Volponi, Vittorio Sereni, Attilio Bertolucci, Elena Milesi, Maurizio Cucchi, Giorgio Caproni (nomi che farebbero esclamare all’esercito ‘schizorampante’ dei poetucoli d’occasione e/o di vizio: ‘Carneade…chi era costui?’).
Logico e inevitabile che ai poetini corrispondano gli ‘editorini’, che si soffregano le mani e a cui viene l’acquolina in bocca all’atto di venire loro incontro con proposte-capestro, la cui unica funzione è gabbare gabellando i primi e gratificare le finanze dei secondi. Noi definiamo ‘Case Mereditrici’ quei marchi di indubbia disqualità, soprattutto quando vengono gestiti da donne.
In questo articolo prendiamo in considerazione due iniziative: la prima, attenta a salvare quantomeno la faccia, mescolando precauzionalmente il sacro con il profano: “Letteratura Italiana Contemporanea/Antologia del Nuovo Millennio”, Edizioni Helicon, Arezzo (febbraio 2015); la seconda, naturalmente a nostro avviso, un quadernaccio in digitale dal titolo sbrigativo: “Sentire”, per le fantomatiche ‘edizioni’ Pagine, Roma (2014).
Quel che accomuna le due antologie è l’esasperazione del prezzo: quaranta euro quella dell’Helicon, venti quella di ‘Pagine’.
Vero è che l’Antologia del Nuovo Millennio è un tomo di ben 862 papiri (dalla copertina immediatamente deperibile); tuttavia neanche la raccolta iniziale di pregevoli saggi (servono a coonestare la ‘serietà’ tecnico-letteraria del libro) su Dino Campana (Marino Biondi), sull’ermetismo (Giancarlo Quiriconi), sul Novecento italiano (Silvio Ramat) e la selezione dei poeti del secondo Novecento (a cura di Michele Rossi) giustificano l’enormità della spesa, tenendo in conto che lo spazio preponderante del volumone è occupato da illustri sconosciuti, la cui cifra, tranne in un cespuglietto profumato (Maria Grazia Duval, Mario Massa, Iolanda Fonnesu, Isabella Sordi, Mirella Raschi, Siro De Padova, Milvia Lauro, Marco Ignazio De Santis, Ignazio Gaudiosi, Mario De Rosa, Lorenzo Cimino, Paola De Lorenzo Ronca, Antonio Rossi, Rodolfo Vettorello)  non si eleva dall’aurea mediocritas.
I notevoli saggi di Biondi, Quiriconi e Ramat sono funestati da seccanti ed evitabilissimi refusi, ai quali si sarebbe ovviato se la C.E. avesse alle sue dipendenze uno straccio di correttore di bozze. L’inserimento dei Grandi (l’indice non ne riporta i nomi, per far largo ai Piccoli paganti) è un escamotage non insolito per ingolosire i candidati alla partecipazione non gratuita: fa effetto, su uno sconosciuto (noto –forse–  agli inquilini del proprio condominio), essere inserito accanto a Nanni Balestrini, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Patrizia Cavalli, Milo De Angelis, Luciano Erba, Franco Fortini, Alfonso Gatto, Giovanni Giudici, Franco Loi, Mario Luzi, Valerio Magrelli, Alda Merini (immancabile), Eugenio Montale (idem), Elio Pagliarani, Pier Paolo Pasolini, Sandro Penna (con due testi non compromettenti dal punto di vista tematico, l’omosessualità), Lucio Piccolo, Antonio Porta, Giovanni Raboni, la complessa Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti, Vittorio Sereni, Maria Luisa Spaziani, Patrizia Valduga, Andrea Zanzotto. Il buon Paolo Saggese si inalbererebbe di fronte a gravi esclusioni (non solo, stavolta, limitate ai poeti del sud), ma il responsabile del capitolo, Michele Rossi, deve essere stato soggetto al diktat editoriale di non estendere l’elenco oltre la concessione dei 5 sedicesimi, per cui si è limitato ad una scelta non esaustiva, tutto sommato onesta.
La sperequazione del numero esagerato di pagine ad alcuni (Edio Felice Schiavone: 40!, Paolo Rametta: 59!) rispetto alle due in media [tra biografia con schizzetto critico alla buona e poesia o microracconto o estratto di saggio all’acqua di rose (Enza Sanna)] della maggior parte dei partecipanti rivela l’asta monetaria e non il merito quale criterio di assegnazione e di visibilità. Schiavone e Rametta non sono, infatti, né Vittorio Bodini né Toti Scialoja, né Césare Pavese né Josè Saramago.   I responsabili dei profili bio-critici (cretici sarebbe opportuno definirli, depennando i bravi e preparati Quiriconi e D’Episcopo), Giuliano Adorni (si occupa di Stefano Spreafichi), Alessandro Bedini, Eugene Josef Ceska (presenta Francesco Federico) Neuro Bonifazi, Francesco D’Episcopo, Rodolfo Tommasi, Lara Pasquini, Andrea Pellegrini, Corrado Pestelli, Giancarlo Quiriconi, Michele Rossi (che cura soltanto il libanese Hafez Haidar), Cristiana Vettori (firme a noi ignote) si arrampicano sugli specchi per dire qualcosa dei poetini di cui si occupano, e comunque non si riscattano dall’ovvietà e dal cliché sempre più stanco e clonato. La stakanovista del gruppetto è l’eroica Cristiana Vettori, che si è sobbarcata la tredicesima fatica di Eracle, recensendo la maggior parte dei claudicanti poienauti, e che, versione femminile di Sisifo, si arrabatta a ripetere cose già lette e ascoltate. Una noia. Terrificante etichettare certuni come “appassionato di poesia”, quasi l’arte delle Muse si riducesse ad un hobby accalorante, equiparato al collezionismo di conchiglie o francobolli, a una sfida enigmistica, a una gara di accaparramento di dubbi nastri azzurri dei poveri. La Vettori va in brodo di giuggiole, fa fuoriuscire gli occhi dalle orbite e spalanca la bocca in un ‘oooooh’ di meraviglia e di stupore, quando, a proposito di Piero S. Costa (insegnante di Storia e Filosofia), blatera di taglio filosofico-esistenziale, di ‘sorprendente’ recupero del latino perché il poverino usa (in neretto, casomai sfuggissero originalità e raffinatezza) il termine ‘mens’ e il modesto accostamento (manco una crasi) ‘stancamens’. La cretica [palesemente a digiuno di surrealismo, dadaismo, imagismo Ia  maniera (poundiano), IIa maniera (“amygismo” lowelliano), vorticismo, e delle avanguardie superate e neo-ripigliate] scrive: “Come si vede (chi lo vede? Gli asini), la poesia del nostro Autore (adopera la maiuscola, quasi si riferisse a Petrarca, a Raboni, a Luzi, a Neri, alla Calandrone, a Derek Walcott o a Tomas Tranströmer) si gioca su un profondo (sic) rinnovamento (sic) di tecniche e forme stilistiche e linguistiche (ma quando mai! E dove? -NdR), un periodare che ricorda gli antichi ‘cantari’, inserti dialettali, neologismi, la scomposizione di termini e parole.” La Vettori cerca di guadagnarsi la pagnotta, ignorando che esiste Niva Lorenzini, con la scoperta dell’acqua calda. Non osiamo immaginare l’apice delle sue reazioni, qualora si trovasse di fronte i testi di Jolanda Insana, di Enrica Salvaneschi, di Wanda Marasco e di Ugo Piscopo. Di Tricarico, di Ioni. Di Scarselli, Lucciola, Di Spigno. Della Eisenberg, di Iandolo, Gaita, Gnerre. Della Argentino, della Iorio, dell’Anedda, della Maleti, della Martino, della Coppola, di Agostina Spagnuolo, della (purtroppo scomparsa il 6 marzo 2006) Biagia Marniti (Masulli). E persino dei giovani Giovanni Nazzaro, Costantino Pacilio, Gerardo Iandoli, Davide Cuorvo, Angelo e Salvatore Iermano, Melania Panico. Non rende un buon servizio, la Vettori, al non eccelso Piero S. Costa, insegnante laureato in Storia e Filosofia e non filosofo, né poeta rivoluzionario e destrutturatore, per il quale la massima incursione nello sperimentalismo si limita nell’introdurre qua e là dei cervellotici virgolettati sul nulla (“ ”), e che fa uso indiscriminato e abusivo dell’apocope (or, avvenir, sfoltir, sentier, astro-sol, com Ercole, cozzerem, uom-animal, fragor, fiel, sfogliar, sideral, lor, ragionar, normal), convinto che il troncamento (giustificato da precise esigenze metriche o da parchi e intelligenti effetti fonico-estetici) sparso a manciate di sale e di pepe o di parmigiano reggiano renda piú autentica e aulica la poesia. Ogni tanto un’espressioncina in dialetto piemontese, un vocabolo francese. Ma insomma! Ma la vogliamo finire? Vadano a leggersi, Costa e Vettori, la nostra “Dazio” (dedicata a Giuseppe Vetromile) nella sezione ‘Les herbes folles’ in “Spiniger” (Per Versi editori, Grottaminarda, 2009)! Per tacer, sempre nella stessa raccolta, dei componimenti ‘At Dusk’, ‘Santa Maria della Rupe’, ‘Nego altri addii’. Oppure il morceau celebrativo ‘Nuptialis’ (“Nel mio cuore la tua figura”-Poesie Italiane d’amore- Michelangelo 1915 Communications- 2007 – Palma Campania-Na).
I cretici della Helicon saranno, crediamo, retribuiti a cottimo, tenuto conto che dei 141 antologizzati la Vettori ne ‘esamina’ circa sessanta, tallonata disperatamente da Pestelli, Pellegrini e Pasquini, che nonostante l’affanno debbono gettare la spugna. Vettori è irraggiungibile.
Del resto lo spessore critico non è rivolto ai succedanei di Spagnoletti, né ad Arnaldo Colasanti né ad Enzo Rega o a Paolo Lagazzi, a Ezio Savino. Va bene per la degustazione di palati medio-bassi.
Manca un’introduzione ragionata al volumone, altro indizio di sciatteria e di frettolosità, altro elemento che rafforza la spiccia modalità meramente commerciale dell’iniziativa.
Meritano una nota Iolanda Fonnesu e Paola De Lorenzo Ronca. La Fonnesu, trapiantata in Toscana, a Firenze, studiosa della letteratura italiana del Novecento, autrice di un romanzo (“La croce sull’uscio”), coautrice (in tandem con Leonardo Rombai) del volume ‘Letteratura e paesaggio in Toscana: geografia e letteratura/paesaggi di ieri e di oggi”, compare qui con una novella che non sarebbe dispiaciuta a Verga, a Vasco Pratolini, a Bianca Pitzorno, a Italo Calvino): ‘Antonicu e il malsegno’; una narrazione solida e spedita, sapientemente movimentata, sul filo dell’immedesimazione empatica.
Paola De Lorenzo Ronca è una signora in penombra, che senza botti e grancasse compone bei versi profondi, denotanti marcato angst esistenziale e l’opposizione costante a non lasciarsene travolgere, grazie alla fede cattolica e a quella laica ancorata alla creatività (il dipinto, la scrittura, qualche breve e circoscritta esperienza periegetica del suo territorio). Frequenti, negli elaborati, i flash del passato, l’ombelicale legame con la terra mirabellana, con la casa e le tradizioni; il rapporto meno bello con una madre spartana, anaffettiva, offensiva, che la Ronca è riuscita a perdonare. Ma le antiche ferite restano, sanguinano ancora, la spingono ad identificarsi epicamente e romanticamente, nel contempo, ad eroine della statura di Antigone, di Aspasia e di una sottaciuta Medea. Tradimento, solitudine, incomprensione e indifferenza non ne stercorano né sottomettono l’animo, che, libero, sancisce con la carne emotiva il migliore e piú tenace sodalizio.

                                                                                               ARMANDO SAVERIANO


AA.VV. ANTOLOGIA DEL NUOVO MILLENNIO (LETT. IT. CONTEMP.) – ED. HELICON, POPPI (AR) – 2015 – 862 PP - € 40,00




SQUADERNAR “NULLESIA”


TERMINE IDONEO PER UN PENOSO VOLO






Nel panorama delle frequenti pubblicazioni poetiche, amatoriali o professionali, in questo quaderno, “Sentire”, ‘edito’ da “Pagine” (Roma), emergono rari nomi degni di attenzione; i partecipanti sono entusiasti concorrenti della storica “Corrida”: versificatori della domenica che non leggono, non nutrono lo spirito e la mente, ancorati a un lessico ànidro, poverissimo, ingenuo e ripetitivo.
Trattano la materia poetica come un trastullo da fascicolo estivo sotto l’ombrellone, giocano con un’arte sconosciuta, ma contemporaneamente soffrono di acromegalia dell’ego, supponendo di aver prodotto chissà quale capolavoro. A stento hanno sentito parlare di Leopardi e di Montale, ignorano scuole, correnti e tendenze storiche e attuali. Per loro Fernanda Romagnoli, Amelia Rosselli, Lucio Mariani, Cesar Vallejo, Tomas Tranströmer, Czelaw Milosz, Milo De Angelis, Massimo Bacigalupo (ma persino colonne come Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Franco Fortini, Franco Loi, Costantino Kavafis – e l’elenco potrebbe prolungarsi all’eternità) sono entità astratte, suoni alieni, vuoto.
Tra gli autori tronfi, illusi e illeggibili, c’è qualche germoglio interessante: Francesco Miserocchi, con un verso frase che talvolta si protende verso una ricerca e un uso originale della parola melodrammatica, che occulta una sottocutanea ironia; Francesco Guidace, autore di un verso denso, che pur con diverse cadute tonali, non arriva mai al disarticolato, con una capacità sintattica di apprezzabile tenuta; Alessandro Guerrini mostra ricorrenti ingenuità formali, ma conserva delle qualità di schiettezza e di limpida osservazione dell’in sé e dell’altro da sé.
Le presenze femminili sono terrificanti, vere talebane o kamikaze della maldestra poetica, tranne una giovane ebolitana, filodrammatica e sensibile divoratrice di fantasy, Enza Maria Mastrangelo. Le letture e l’esperienza teatrale le fruttano uno stile di promettente iridescenza, soprattutto nel migliore dei suoi componimenti, “Hey Donna”, che si contrappone al più classico e melodico “17:30”. Il tema sociale è affrontato con un piglio scanzonato che rende acuto il disagio della condizione femminile tutt’altro che equiparata a quella maschile, pur nel nostro occidente emancipato. Lo spirito impertinente si rivela nel componimento “Il teatro è la mia arte”, con un tono scanzonato e goliardico, punteggiato di ritrattini sapidi e bonariamente canzonatorii, in un omaggio affettuoso ad amici e compagni di percorso, dove la satira lieve e non mordace diventa un pretesto letterario. Consigliamo a questa ragazza buone letture, numerose, intense e meditate, da Sylvia Plath a Cristina Campo, da Antonella Anedda a Gabriella Maleti, Barbara Lanati, Mariella Bettarini, Ingeborg Bachman, Louise Glück. ‘Alit lectio ingenium et studio fatigatum reficit’, ricorda Seneca nelle Epistulae morales ad Lucilium. Ne tenga conto Mastrangelo.
Prefazione assente. Ma in quarta di copertina appare un buon morceau critico, che apre aspettative – ahinoi – deluse, data la qualità pessima di gran parte degli autori, i quali, dal canto loro, nulla accennano delle rispettive poetiche, limitandosi ad inopportune e irritanti informazioni sulla loro convenzionale vita privata di casalinghe, di padri di famiglia che si confessano bagnini, calciatori, fanatici di tatuaggi, e quel che è peggio, “scrittori”(sic!)…  
Accluso al volumetto, un CD con delle incisioni senza infamia e senza lode. L’inserto non giustifica l’esosità richiesta dall’editore (probabilmente, riteniamo noi, una tipografia gestita alla men peggio): il prezzo è tirannicamente elevato, se si pensa che l’epocale romanzo della scrittrice Wanda Marasco, “Il genio dell’abbandono”, candidato al Premio Strega, costa “solo” 18 euro!
                                                                                                   ARMANDO SAVERIANO


AA.VV. SENTIRE – PAGINE ED. ROMA – 2014 – PP 96 - € 20,00

sabato 19 settembre 2015

L’ARTEFATTA NON FA PERDERE LE “TRACCE”



Nella difficile realtà odierna l’associazione afragolese non demorde





Fare arte in ogni campo, a meno che non si abbiano le tradizionali protezioni, diventa un compito ingrato, non pagato e non riconosciuto. Se tuttavia gli operatori culturali piú agguerriti (e sognatori) non continuassero a sguazzare nei loro ideali, il nostro orizzonte creativo sarebbe soltanto specchio di resa e deserto di doglianza.
Da anni lontani l’associazione di Carmina Esposito, “L’Artefatta”, si distingue per l’ostinata coerenza nel proporre progetti che tengono in vita il segnale fiammeggiante della centralità di un pensiero performativo rivolto a smuovere antiche e moderne inertitudini e inettitudini.
Ha pertanto promosso una rassegna felice, intitolandola opportunamente “Tracce”, con la quale presenta eventi letterari, teatrali, di arti visive e quant’altro la duttile mente minervina della pittrice e poetessa inventi e suggerisca.
Ha trasformato settembre in un mese di fiaccole culturali, coinvolgendo l’associazione amica “Logopea”, designando due differenti location come sfondo d’azione; la scelta del bar pasticceria “L’Arancia Blu” per due dei tre appuntamenti è meno bizzarra di quel che potrebbe apparire. Nei gloriosi anni sessanta/settanta del secolo alle nostre spalle, molte compagnie filodrammatiche itineravano per la costiera amalfitana, proponendo le loro esibizioni, anche molto accurate, in cambio di visibilità e del rimborso spese. Era un’attività tutt’altro che avvilente, contribuiva a forgiare l’attore e a stimolarne le risorse, oltre che a diffondere l’arte di Tespi. Oggi questo si fa molto molto piú di rado, benché sopravviva onorevolmente il ‘teatro di strada’, che tuttavia è un’altra cosa. Oggi i gruppuscoli non rischiano, s’aggrappano pateticamente a un repertorio scarpettiano e eduardiano sbertucciando i dvd con le registrazioni televisive e sfruttando le economie dei paesini d’appartenenza oltre all’ignoranza belluina di un pubblico miseramente plaudente.
Eppure il teatro ha muse esigenti ed ombre insigni, non sa tollerare improvvisatori, oltremodo arroganti, come tutti i mistificatori e gli imbelli.
L’Artefatta e Logopea si tengono fuori da simili circuiti e svolgono i propri compiti con onestà intellettuale e con le competenze guadagnate sul campo dell’esperienza.
Tre –dicevamo– le date di “Tracce”: 12 e 18 settembre alle ore 19,30 presso “L’Arancia blu” e il 25 (sempre alla stessa ora) al Chiostro della Basilica Pontificia di Sant’Antonio.
Sabato 12 settembre Logopea ha messo in scena il récital “Questa nostra vita: indiscrezioni tra commedia e dramma” per la direzione artistica di Armando Saveriano, inossidabile patron dell’associazione avellinese, e del giovane Davide Cuorvo, suo pupillo. Mena Matarazzo, poliedrica voce che sarebbe stata assai apprezzata da tanti maestri del passato oggi caduti nell’oblio, come Nanny Loy e Regina Senatore, ha presentato due piatti forti del suo ricco repertorio napoletano: Filumena e Bammenella, riscuotendo vivaci consensi. Come pure il giovanissimo Michele Amodeo, ormai calato nel ruolo fortemente caratterizzato di uno dei capolavori di Annibale Ruccello, il “Mal di denti”. Ottime tutte le interpretazione del cast, dalla sexy e raffinata esecuzione di Hera Guglielmo, alla conturbante e perversa pagina di Lee Masters da parte dell’imprevedibile Alessandra Iannone. Christian Cioce con le sue effervescenti provocazioni verbali e la maschera di gomma del suo volto ílare e affettato ha fatto da cuscinetto fra due ruoli estremamente impegnativi che in genere fanno tremare le vene dei polsi agli interpreti: Aston di Harold Pinter (Davide Cuorvo) e il malato terminale di Luigi Pirandello (Antonio Mazzocca).
Venerdí 18 si presenterà il monumentale, splendido romanzo-saga di Wanda Marasco, scrittrice di eccezionale riverbero, candidato al Premio Strega (e di esso meritevole su tutti gli altri): “Il genio dell’abbandono”, imperniato intorno alla vita, agli amori, alle follie e ai traguardi del piú grande scultore italiano fra Otto e Novecento, Vincenzo Gemito, sullo sfondo di una Napoli (e di una Parigi) d’epoca perfettamente ricostruita nei dettagli, nel linguaggio, nei fascini e nelle miserie terrene. Geniale l’intuizione dello ‘spirito dell’abbandono’ che accompagnerà e condizionerà per sempre, dalla nascita alla scomparsa, nel bene e nel male, nelle avversità e nelle fortune, il passaggio terreno indelebile di una pietra miliare della storia dell’arte italiana e internazionale. Relazioneranno i critici Assunta Pagliuca e Gerardo Santella. Moderazione e letture di Armando Saveriano, affiancato da Cuorvo, mentre al piano siederà l’eclettica Hera Guglielmo.
La rassegna si concluderà il 25 settembre al già citato Chiostro della Basilica Pontificia di Sant’Antonio, con “PartenOpera-Napoli dal ventre all’anima”, un complesso lavoro che prende spunto da tradizione e superstizione partenopea dei tempi andati, mescolandone i guizzi e i lazzi, citando personaggi che hanno fatto epoca o che appartennero all’immaginario popolare, sul filo dell’inimitabile verve napoletana che è diventata nota e proverbiale in tutto il mondo. Azione scenica e musica, suggestioni e vivide rimembranze, su testi e regia di Biagio Zanfardino e Franco Russo. Interpreti, Luigi Caiazzo, Sara Iorio, Antonella e Rosalba Izzo, Mimmo Russo, i già nominati Zanfardino e (Franco) Russo. Alla chitarra il M° Patrizio Rainone, con le allieve Giuliana Dono e Carla Manna, flauto e voce del M° Martina Nappi.
La Rassegna “Tracce 2015” è inserita nel programma estivo “ArtSummer2015” a cura dell’Assessorato agli Eventi, con il Patrocinio eminentemente Morale del fortunato Comune di Afragola.
                                                                                                                LOGOPEA




Carmina Esposito
Da destra: Armando Saveriano,
Carmina Esposito













Davide Cuorvo
Antonio Mazzocca












Davide Cuorvo
Hera Guglielmo














Michele Amodeo
Mena Matarazzo












Christian Cioce
Michele Amodeo












Gli attori di "Logopea"
Una parte del pubblico in sala












Un'altra parte del pubblico

mercoledì 16 settembre 2015

CONZA POESIA



LA CONFERENZA STAMPA UFFICIALIZZA IL PREMIO






Sabato 12 settembre u.s. la Sala Consiliare del Comune di Conza della Campania ha sancíto l’istituzione del Premio Letterario dedicato al genere di scrittura piú diffuso nel mondo, ma non per questo meglio praticato.
L’associazione culturale irpina Logopea ha individuato Conza come territorio vergine da colonizzare, con corsi di scrittura creativa e magari di teatro, per sollevare il Comune dal pressappochismo e dall’indifferenza nei confronti di due grandi poteri educativi, che avrebbero da offrire delle incomparabili possibilità di crescita e di evoluzione ai giovani, distogliendoli dall’ozioso nullismo delle strade, da alcool, discoteche, risse e sagre trappane, o dalle solite partitelle a pallone.
Certo è necessario l’impegno. E l’impegno dipende dalla curiositas iniziale e dalla passione nascente.
Una sfida che Logopea e il Sindaco Vito Cappiello hanno deciso di porre in atto proprio con l’istituzione di un certamen finalizzato anche e soprattutto ad individuare le locali voci, magari in sordina, nascoste, intimidite, con tanta esitazione a venir fuori, recuperando da cassetti e da diari versi buttati giú in momenti di speranza o di sconforto, di piccoli entusiasmi e di malinconie.
Il Premio si articola in due sezioni: una a tema libero, l’altra con una precisa traccia: ‘Utopia e verità’. Il giovane attore/ poeta conzano (rara avis nella terra d’adozione: ha natali napoletani) Davide Cuorvo ha illustrato i punti principali del regolamento e ha spiegato finalità e funzioni dell’inserimento dei Lauri, particolari riconoscimenti alla carriera per vite meritevoli, dedite alla custodia dei valori altrove trascurati, sotto l’egida del motto ciceroniano honos alit artes.
La giornalista Vera Mocella (Il Quotidiano del Sud) ha condotto i lavori, accollandosi anche la parte dell’assente Antonella Russoniello, e ha intervistato brevemente il sindaco, il Presidente del Consorzio dei Servizi Sociali “Alta Irpinia” Raffaele Vito Farese, la Presidente della Pro Loco Compsa Antonella Petrozzino, il giudice/poeta Gennaro Iannarone, il patron di Logopea Armando Saveriano, il prof. Alfonso Nannariello, fine e schivo scrittore, giurato nella commissione del certamen. In altri siti il prof. Alessandro Di Napoli, che pure dà tanto alla diffusione poetica, grazie alle pagine della rivista Silarus.
Le due assenze non hanno vivaddio compromesso neanche in minima parte l’andamento fruttuoso e vivace della mattinata. Evidentemente, benché l’invito fosse stato rivolto loro con un ampio anticipo, la rispettiva adesione di entrambi i latitanti è stata formulata senechianamente a summis labris, in senso aleatorio.
Il pubblico non era neanche granché scarso, come di solito succede in seno a queste iniziative; pauci sed boni, i convenuti hanno manifestato attenzione ed interesse.
Sul territorio irpino (non soltanto a Conza) occorrono valenze che diano efficace input, che facciano da traino sociale, per ridestare le coscienze dalla sonnolenza e rendere attiva/fattiva l’azione culturale, come fondamentale fulcro di emancipazione e di crescita. È di questo che hanno dibattuto Nannariello e Saveriano. Le nuove generazioni hanno bisogno di specializzarsi; non possono continuare a non far nulla, bighellonando, oppure approcciandosi negativamente, insufficientemente, a programmi confusi e a raffazzonate configurazioni messe insieme con lo sputo.
Sullo specifico argomento del poetare, sui contenuti, sulla forma, sul tono e sulle funzioni, Nannariello ha esposto la sua posizione di diffidenza riguardo agli ‘effetti speciali’, creati con furbizia di mestiere a tavolino; ma già essi costituiscono, secondo noi, un punto a favore dell’abilità linguistica, rispetto al becero parlatismo di vocaboli banali, insipidi e insipienti, allineati senza alcuna cognizione di un metalinguaggio, presente –eccome!– anche nelle linee apparentemente semplici dell’orientamento della scuola lombarda.
Conza è fortunata ad avere, nella triade Cappiello/Farese/Petrozzino, delle voluntates ben disposte ad affrontare un percorso di engagement; voluntates che alla fine, ne è convinto anche il giudice Iannarone, prevarranno sull’attuale inertitudine, spargendo semi felici e sradicando malepiante con organismi di provata competenza. Un ottimo suggerimento a Cappiello, da parte del giudice, quello di sensibilizzare alla lettura, affidando qualche pagina di classici o di contemporanei a chiunque si senta di confrontarsi con la letteratura, con i linguaggi espressivi, in una forma quasi di ‘libroterapia’. Un sistema per guadagnare un’attenzione in piú alla pagina scritta, per assicurare un visitatore in piú a biblioteche e librerie.
L’evento si è concluso sotto l’arcata dell’ottimismo: l’Irpinia è in grado di affrontare e superare ogni ostacolo, di svellere les herbes folles (come dicono i francesi) e dar rigoglio alle sue rose intellettuali. Davide Cuorvo potrebbe a tutti gli effetti fungere da piccolo faro per gli esponenti delle ultime generazioni: poeta in ascesa, attore rampante, giovane di nerbo, fiducioso nelle risorse di intelletto e di estro, sta cominciando a farsi strada e a farsi conoscere in entrambi gli ambiti che preferisce e pratica senza riserve.
                                                                                                                                 LOGOPEA





L'intervento del giudice/poeta
Gennaro Iannarone
Il discorso del poeta Davide Cuorvo











Da sinistra: Raffaele Vito Farese,
Gennaro Iannarone, Davide Cuorvo,
Antonella Petrozzino, Vito Cappiello,
Armando Saveriano, Alfonso Nannariello
La Presidente della
Pro Loco "Compsa"
Antonella Petrozzino
e il poeta Davide Cuorvo
















La Sala Consiliare del Comune di
Conza della Campania dove si è svolta
la Conferenza Stampa 
La locandina del
Premio Nazionale di Poesia
"Città di Conza della Campania"










domenica 6 settembre 2015

LA PAROLA-SEGNICA DI KETTI MARTINO E LA SUA ACCORATA PAVANA



UN UNICO, LUNGO CARME INEFFABILE PER FRANCHEZZA E PUDORE PER INCANTO ED ENERGIA MORALE






Il distacco, piú che una categoria dell’impermanenza, come il titolo della raccolta di Ketti Martino (“Del distacco e altre impermanenze”) induce a pensare, è un suo effetto, subíto, affrontato e vissuto con un disagio, uno spiazzamento, un angst in graduazione scalare dalla società occidentale impreparata razionalmente ed emotivamente a gestire il cambiamento, la mutazione, il passaggio da uno stato/stadio all’altro. Eppure avviene di continuo, in tutte le sfere della conoscenza: biologica, fisica, atmosferica, sociale, tecnologica, medica, etica, ambientale: poggiandosi la vita, l’esistenza del multiverso stesso, l’ipotesi addomesticata del destino, sul movimento, sulla incessante metamorfosi di tutte le cose, res materiali e immateriali.
‘Omnia mutantur et nihil interit’, recita Ovidio nelle Metamorfosi (si rifà al tòpos eraclitèo ‘Panta rèi òs potamós’); una variante è: ‘Omnia mutantur et nos mutamur in illis’; Simmaco declama: ‘In omnium rerum fuga vivitur’ (si vive in un tutto che fugge); parimenti, in Properzio: ‘Omnia vertuntur’ (tutto cambia). Una condizione sentimentale, intellettivo-intellettuale, fisica, biologica, sociale è soggetta a movimento, e il movimento trasforma, evolve o involve, progredisce o regredisce; niente resta in posizione di stallo, nulla è durevole, uguale, eterno, indissolubile, come le insicurezze e le fobie individuali, o un aspetto popolare del romanticismo, auspicherebbero. Così come il fato d’impermanenza legato agli oggetti d’arte è stato decifrato, con la conseguente attivazione di misure cautelative di attenzione tecnica e di vigilanza contro attentati, altrettanta metabolizzazione del cambiamento attinente ai diversi ambiti (infiniti nella varietà loro) dovrebbe essere compreso, introiettato, sussunto con la maggiore serenità possibile, e non temuto, avversato, scotomizzato, con acceso atteggiamento apofatico. Il valore specifico del movimento matura modalità a carattere innovativo. Una cosa è per quell’attimo, e in quell’attimo già dispone il cambiamento per l’attimo successivo, e cosí via . La permanenza è utopica, l’impermanenza una legge anche naturale e fisica, semplicemente inevitabile. L’angst che essa può ingenerare nelle culture occidentali denota anche l’angustia nell’accezione favorita dal giovane italianista Gerardo Iandoli: il ‘senso del limite’ individuale e collettivo di una cultura fobico-possessiva che finge di usufruire del concetto di transitorietà mentre mira alla stasi dell’eterno per quanto e per quel che le conviene. Clifford D. Simak, in un suo famoso romanzo (‘Ring around the sun’, nella brutta traduzione Mondadori ‘Mondi senza fine’) ipotizza una uto/distopia (a seconda dei punti di vista) che contraddice l’impermanenza, condannando al collasso e alla catastrofe la società dei consumi, l’intero sistema economico mondiale, grazie alla comparsa sul mercato di oggetti d’uso comune (lampadine, lamette, accendisigari) eterni, seguiti da automobili, case prefabbricate, indumenti eterni… Non soggetti ad usura e a degrado alcuno. E a prezzo stracciato. Ecco la contraddizione di una società tecnocratico-consumista che procede ormai da duecent’anni sul filo del Leviatano della fretta, mentre tende contemporaneamente a conservare/preservare dai danni la giovinezza, la salute, lo scettro di una primazia, di un potere che invece è cadúco, temporale, transeúnte, in ogni caso governato dal fattore di mobilità/rinnovamento. L’aspetto negativo della mobilità è il suo ascesso nel mobilismo a-valoriale e nevrotizzante, dove il fattore intrapsichico resta inetto e inerte, decoscenziato se non incosciente. Immaginare o desiderare la soluzione della condizione dinamica dell’impermanenza è un istinto anomico da rieducare, nonostante (e proprio per –aggiungeremmo–) le formidabili resistenze dell’io sostanziale. L’introiezione metabolizzata dei processi impermanenti non conduce a né presuppone l’atarassia, quanto piuttosto una forma di entelechia, di frònesi individuale e comunitaria, laddove un’identità saluta come favorevole la conseguenza del distacco ai fini dell’affermazione di una differenza in progress, contro l’arroganza del pensiero volitivo che vorrebbe arroccarsi nel mancato riconoscimento delle differenze provocate dai processi di impermanenza, con il conseguente guadagno del superamento di elaborazioni/situazioni egologiche di illusione e di delirio. La sognata/agognata permanenza (di un amore, di uno status economico-politico, di un’epoca storica, di una fase fenomenica, di un segmento sensorio momentaneo del percetto, della vita individuale e dell’altro da sé, della durata senza fine dell’universo e via discorrendo) non rigenererebbe energie integrate al moto, e alle diversità che il movimento implica; comprometterebbe altresí i passaggi dall’Erklärung (ordine della spiegazione) al Sinn (ordine del senso), con la strozzatura senz’altro decrementale e nociva dell’attraversamento dei campi d’essere. Possibilità impossibile, tollerata nel campo della poesia lirica, o come nel caso di romanzi SF del genere ‘Mondi senza fine’, nella letteratura delle ipotesi fantastiche. Si pensi poi alla volubilità insita nell’essere umano, soggetto a stancarsi presto di un amore, di un’amicizia, di un oggetto, di un alimento, di un sito, di uno status (ancora Ovidio: ‘ Est quoque cunctarum novitas carissima rerum’, da cui il motto ‘Grata rerum novitas’ e la volgarizzazione tedesca ‘Neukommen willkommen’; la novità è cosa gradita per antonomasia,‘varietas delectat’ – variazioni si trovano in Varrone, Cicerone, Fedro, Quintiliano, Seneca, Frontone, Valerio Massimo, Giustino – ): dove mettiamo il motore dell’incontentabilità, che spinge a varcare le ‘colonne d’Ercole’? Eppure l’uomo mastica e rimastica sul concetto inapplicabile e uto/distopico di eternità e immutabilità! La finitudine di uno stadio porta al cominciamento del successivo, in una tensione fusionale di simboli, sovente inavvertiti dall’uomo comune preoccupato della perdita di quanto aveva arbitrariamente elevato a certezza. Ebbene, la parola ‘impermanenza’ racchiude una fascinazione straordinaria per le sue dinamiche di apertura, delle quali si nutrono (e le abitano) l’arte e la poesia, quelle alte della Martino, che qui presto s’incarnano nelle sequenze logico-metaforiche (pur e inevitabilmente nel ‘precario-necessario’) e realizzano un’adiacenza intra-soggettiva della scrittrice tra vissuto corpomentale e spostamento metonimico nell’insondabile. Il tempo mentale della poeta napoletana è trino: passato-presente, attrazione teleologica al futuro, attimalità dell’Io; il moto è elicoide, spinge Martino a misurarsi (ineluttabilmente) con il visibile e l’invisibile, il distinto e l’indistinto, la ferocia del dolore e l’esaltazione conseguente ad esso di una ebbrezza estatica collegantesi al sentimento oceanico (l’irruzione benefica e funzionale della riunione-comunione prenatale e dell’intuizione della morte catartica, essa stessa impermanente). Il distacco da una fase, da un punto che ci si insuperbí a definire ‘fermo’ (e non provvisorio, e mai provvisorio) figlia e cagiona nella nostra cultura una dismorfia sofferente, dalla quale la poesia che la canta e l’amplifica poi fatalmente la solleva dalla condizione di improduttività per trasferirla in una modalità perlomeno tetica.
La modernità della Martino e la sua unicità artistica si fondano in gran parte sulla spoliazione dei segni referenziali nei quali indugiano altri, magari pour épater (fuori tempo, fuori luogo, nel malcontesto intempestivo della vanità), sulla trasgressione a ogni pur dissimulata retorica, sulla ricerca, sull’adozione e sull’uso di una barthesiana parole exacte (una parola-segno inclusiva, al servizio di una sineddoche grandangolare) e -non ultima opzione- sulla cura di un versibus componere attento e coerente a un relazionarsi interno, pur elasticizzandosi alla partecipazione dell’economia vitale della comunità. In aggiunta, il segno della Martino denota una costante coscienza etica che riveste, per ermeneutismi e per proairetismi aristotelici (empiría), la sua bella leggibilità come con un’armatura estetico-semantica, con precisa migrazione di senso, con musicale emersione dei codici in quelle che de Mallac e Eberbach chiamano lessíe. Questo, nelle quattro sezioni del libro - edito presso la prestigiosa Casa milanese “La Vita Felice”, di cui è direttore editoriale Diana Battagia - (una pavana letteraria dédiée et donnée alla presenza-assenza dell’amato sul quale è tragicamente calato il sipario), costantemente in bilancio, dallo scintillante incipit di ‘Capitolo di te’ (‘Se tu guardassi nel buco/che hai tracciato in cielo/vedresti il labirinto che conosci/e i punti stretti a ricucire albe’) allo scolpito distico finale (‘Partorisco fossili e parole/resto incisa nella terra’) de ‘I Fiori e le buone nuove’. Temi e toni s’infittiscono, si sublimano, s’incuneano ora in un’oasi di vibrato ora in un vortice di suggestioni spiraliformi per congiunzioni e fatalità nella sezione ‘Dov’è lo spazio vuoto e cosa’ (‘Quando avevo il dono del diniego, e il cuore non/voleva dire, preparavo già la solitudine’; ‘Trovo la parola dietro a ogni muro/e nel primo sorso di caffè trovo te,/intatto raggrumato sangue, risposta/ saggia a domande impronunciate’; ‘Di non ritorni è fatta la discesa/e di mille miglia i versi/che a frotte vanno e rincorrono/gli spettri e il mio letargo’; ‘Il carico del sonno frantuma le parole./Cadono le lettere una ad una come acqua/che dagli occhi va per altre vie’; ‘Sembra tutto calmo in quest’ora del mattino,/ fatta di niente e di niente fatta, ché non/agita il disastro, la resa e la condanna’; ‘Precisi e nudi gli angoli nell’essere superstite,/in imprevisto purgatorio/ mentre i giorni, come sale, consumano i miei denti.//Mangio il cielo in perenne obbligo di nascita.’; ‘Se poi dovessi dirti come quella volta,/mentre stringevo il mondo nelle spalle,/che l’assenza di ogni tua parola è solo/un parlare piano, ritornerebbe rifondata/l’allegria, senza silenzi, a dispiegare i giorni.’; ‘Nel bianco  dentro l’orizzonte cresco,/moltiplico le piogge e i sensi, e nella casa, /le ispessite moltitudini dell’io…’). Il capitolo ‘Porte’ dà l’impressione, almeno a noi, di un inserimento a posteriori, di un introíbo giustificato, perfetto, lievemente scorporato dall’insieme per la sua natura monologante e versofrasata, per il diverso codice barthesiano di ‘voce della persona’ (i sèmi o significati di connotazione nel piú ampio e delicato registro del ‘campo simbolico’). Il tono descrittivo (parallelamente analitico) esegue sotto i nostri occhi un ritratto ‘liquido’ giocato sui piani specchiati e convergenti di interiorità ed esteriorità condotto con maestria dentro e fuori ‘la casa di psiche’ e il ‘paesaggio naturale’ (‘Nei vicoli, salendo Chiaia’) o la virtualità del non luogo (la notte, il buio di un corridoio, il centro dell’occhio, la luna). In questa tranche, a nostro avviso, oltre a plasmare un suo parametro di bellezza nelle intercapedini del pensiero doloroso, Martino annulla piú che mai l’antitesi d’emblée récusée tra vivre et écrire. (‘Meno ardente il passo che affrettavo: quale assurdo/e complicato peso/era guardarsi nell’angolo piú polveroso…/Sgomenti, mentre tutto era ripiegarsi e piovere// Venivo a trovarti solo di notte,/in quell’astrusa quiete che si oppone./Venivo per fermare il tempo e nulla era mancante./Nella notte (in quelle notti)/ quando frantumato il sonno orizzontale,/e il segno della mente aveva solo orme a primavera//Non ci erano errati i suoni del mattino,/ma sconosciuti i cenni oltre il muro,/e mi atterrivano piú del ronzío dentro alle orecchie./ Di travertino feci il lenzuolo;/fino all’angolo convesso del ginocchio/e bisbigliai.’) Tutt’al più Martino riconosce e (ci) ricorda che l’écrire è una maniera di (soprav)vivere. E la ‘parola esatta’ della Martino è medesimamente duttile, dotata di rifrazioni multiplettiche, in allegoria con virtuali linee spettroscopiche plurisenso; il che potrebbe indurre a formulare una contraddizione, mentre in realtà afferma il carattere saldo della peculiarità in cui questa parola si adopera, e nello stesso tempo estrude la capacità/qualità plurivoca attraverso la sublimazione del metalinguaggio. A tanto provvede e soccorre il fuoco acustico, quello che con perspicacia creativa Giorgio Bonacini chiama ‘sudorazione fonica’ (graphè-phonè), quello, ancora, che Hilde Domin denota e pronuncia quasi aforisticamente: ‘lanonparola /tesa / tra/ parola e parola”. E lo verifichiamo nelle sequenze: “Il gelo, affilando le dita sconsacrate,/si annodava come un rospo alla mia testa”; “Mentre io esisto, e tu mi dai qualche respiro,/dicembre spiuma già nell’aria”; “Il domani, ai piedi del letto,/era come sentirsi bene oppure vuoti/nel bianco del foglio/del muro/del nulla/nel bianco/nel bianco…”; “Città circoscritta, circoncisa, assottigliata/nella memoria, non ti cerco.”; “…e non so se mi voglio se ti voglio/se mi trovo se ti trovo./Giro in asse e mi perdo.”; “Da posto a posto appari,/da posto a posto mi attraversi/quando il golfo tra i capelli è vela…”; “Di tutti i discorsi fatti/… …di pochi conservo la certezza/ di aver taciuto o desiderato dire ancora”; “le tracce e il seme di una stanza,/le albe/e lo stupore dissipato a ricordare”; “Si assottigliano le ombre con l’estate;/ i profumi e i gesti si fanno occhi e nodi da capire/ Tu lasciavi per le scale la musica del mare,/ un cumulo di stanze e girasoli”; “Come anonimo vestito inabitato/ho cercato un corpo da coprire/dopo”.
Il fulcro dello spirito poietico gravita intorno alle collateralità del distacco: l’assenza/mancanza (Mangel), lo sgomento/paura (Bestürzung/Furcht); il vero trauma s’incista nei meccanismi dell’abbandono; un abbandono causato dalla dipartita (exit) del partner (è purtroppo il caso di Ketti Martino) o dall’improvviso, brusco disinnamoramento, che implica il rifiuto, il rigetto; sensazioni spiacevoli per tutti, che, in quest’accezione (essa –ripetiamo– non riguarda la poeta napoletana) detronizzano la proiezione della virilità nel maschio, mentre mortificano e infibulano la proiezione seduttivo-materna nel connaturato complesso d’Elettra nella femmina. Un argomento di ben sferzante drammaticità, di tale potenzialità indagativa (Thanatos che si sovrappone a Bíos), viene invece presentato dalla poeta napoletana con tatto, con Feinheit, con fine dolcezza; la straziante privazione non passa in secondo piano; viene abbracciata da una malinconia che espone allo struggimento la compartecipazione spontanea di chi legge i versi. Qui Ketti Martino supera, inconsapevole, il piú grande ostacolo che la poesia riserva ai suoi adepti. E questo ostacolo evitato ne conferma le qualità. “Dire qualcosa che è stato detto in precedenza, rende la poesia uno dei generi letterari piú difficili ed eccitanti da comporre”. È l’affermazione (condivisa) della poeta di Glasgow, ‘Poet Laureate’ del Regno Unito (nel 2009), Carol Ann Duffy. Conveniente aggiungere che il ‘dire qualcosa che è stato detto in precedenza’ deve necessariamente includere una originalità precipua, una riconfigurazione di modello che bandisca in chi ne fruisce la sensazione del déjà lit/déjà écouté. Specialmente se riandiamo con la memoria alla sentenza terenziana ‘Nullum est iam dictum quod non sit dictum prius’ (Eunuchus, 41). Non possiamo peraltro esimerci dal raffronto con l’épreuve estenuante e letterariamente sfavillante (sia scacciato, nella mente di chi hic et nunc legge, il sospetto di cinismo nelle nostre parole!) di ‘Album’ (Book Editore, 2005) dell’irpina Giuseppina Luongo Bartolini (naturalizzata beneventana): “Se per un attimo la poetessa Bartolini ha pensato che ‘Album’ le offrisse l’occasione imperdibile della confessione, della catabasi e del riscatto, in realtà ancora una volta sacerdotessa e vittima della poesia” -scrivevamo nella postfazione- “sposa di Pellegrino e del Sublime, è stata madre facitrice di un memoriale spiazzante, di un canzoniere che apre fenditure ed eleva picchi, di un palpitante diario, affrescato di bellezza insostenibile e di amore all’estremo grado: capace di urticare il cuore e di sconvolgere il nostro immaginario.”
Oggi abbiamo opera parimenti destra, turgida, palpitante ed armonica con “Del distacco…” di Ketti Martino. Il dolore esteso genera capolavori. Sembrerebbe disumano rimarcarlo, ma quando a patire è il genio, avviene mescidanza epistemico-semantica, razio-emotiva, e si afferma quella nicciana ‘libertà di stare sopra le cose’ (finanche sopra la morte); e volentieri il/la poeta paga il prezzo dell’erranza, dell’esilio: il bello più struggente ‘accade’, la poesia genuina ‘accade’. Il rapporto tra il prima e il dopo è il passaggio (il movimento causa/effetto dell’impermanenza) dal prima al dopo, dall’Eros e da Bíos all’umbra thanatica che partorisce creazione luminosa, qui, con Bartolini e Martino, la Poesia. La Poesia medesima. Il passaggio esige, esplica, effettua la presa di posizione ‘verticale’ verso la Trascendenza. Necessaria, priva di soluzione di continuità. Ogni istante è un incontro, un contatto con la trascendenza, essendo immanenza solo Dio e/o il concetto di Dio che abbiamo creato (Dio causa immanente e non transitiva del mondo, secondo Spinoza); l’impermanenza già permea l’attimo che precede. Kierkegaard spiega bene che il fondamento costitutivo dell’angst, derivante dalla disaccettazione dell’impermanenza, è la relazione fra il divenire e l’essere, le principali categorie filosofiche del pensiero occidentale: l’essere si muta in essere stato e diviene altro, che a sua volta subisce trasformazione e decede/rinasce nel nuovo, in un divenire perpetuo, dove la perpetuità si protende all’infinito, e forse l’eterno è proprio e solo il divenire dell’impermanenza. La continuità ad oltranza è il processo di mutazione, di erosione, di decomposizione, quindi, l’impermanenza; illusorio il resistere per persistere in quello che altro non è se non autoinganno, un cocciuto solipsismo che incespica e capitombola nella hybris, l’arroganza dell’imporre un’idea fallace. ‘Restare’ è negativo, divenire altro è lo scorrere primordiale alla radice dell’essere impermanente; semmai ‘restare’ è rappresentativo dell’ordine del divenire/diventare. Divenire/diventare altro sia nell’evidenza clamorosa sia nella sottigliezza piú inavvertita/inavvertibile dai sensi distratti, disallenati, o per natura e condizione umana di inconoscibilità del vero reale effettivo, ‘ciechi’.
Quanto all’amore compromesso nel suo amperaggio (collaudato solo nell’ambito delle aspettative irrealistiche: l’impermanenza ancora docet), è altra storia e ben diverso senso di angst; l’amore reietto, stracciato, non piú corrisposto, enucleato della metà del cielo, o della mela, quindi reciso, metaforicamente ‘anciso’, causa disorientamento (l’incubo della spersonalizzazione), perdita della fiducia in sé, instabilità, insicurezza (disappartenenza alla vita sociale), sia nella vittima (chi ancora ama e non ha voluto e neanche immaginato l’allontanamento) sia nell’offender (chi ha messo in atto l’abbandono). In misura diversa, entrambi i protagonisti si scoprono lesi, debbono affrontare un nuovo comportamento che sostituisca quello abituale sconvolto (nel quotidiano e nel ‘sopraquotidiano’). In tale prospettiva l’angst non è primario, ma secondario: è un angst di colpa, quando l’uomo e/o la donna che ne vengono assaliti non si trovano a combattere con l’indefinito e l’indecifrabile dell’angst primario, ma pensano di essere colpevoli di tutto ciò che accade e li terrifica, li paralizza.
Per Ketti Martino l’antidoto alla scomparsa del partner non è un pulsionale sigillare con l’epifragma la conchiglia-Io, è ricorrere a una forma di anaptissi emotivo-razionale-letteraria: narrare in forma di poesia, diarizzare la pena, lo sconcerto, lo spettro di un’inedita disidentità, inserendo l’arte (e l’ottimismo fondato nell’efficacia taumaturgica della parola) come se fosse un morbido tampone ‘vocalico’ tra l’asprezza corrosiva di Mangel e di Bestürzung/Furcht. La guarigione, se mai c’è, chiede scarpe di ferro e morso di silicio e si dipana come nastro di ortica per leghe di pazienza.
Nella logopea (intesa nell’accezione di spazio bianco poundiano, di inespresso attraverso il logos, ma emergente nella sottotraccia generale) dei versi di siffatto elaborato, sincero, acribioso e forbito, esplicito e pudíco come in analogia con l’opera testamentale di Gabriella Maleti (“Prima o poi” – Gazebo ed. Firenze – 2014), elaborato che può vantare a tutti gli effetti le connotazioni del poemetto, ravvisiamo una costante anacenòsi nella voce martiniana: la poeta si rivolge proprio al viaggiatore-ombra luminosa, all’assente-presente che fu carne ed ecceità supremizzata del rapporto connubiale per ottenere non tanto lo scioglimento dell’insolvibile mistero dell’impermanenza dell’amore (sia essa sopraggiunta per moira di finitudine –le forbici di Atropo– e abbia imposto status di Witwenstand, o per quel frequentissimo fenomeno di disaffezione a cui conduce l’Instinkt atavico della poligamia), non tanto lo slegamento dall’irrazionale Schuldgefühl di ‘essere rimasta’, quanto un suggerimento (una serie di fantasmatici sussurri oltremondani) per non sdrucciolare nell’essudante strappo, per non vagabondare nell’errore dello shock, per non dislocarsi in un’area adimensionale, per (imparare ad) abitare, al contrario, con la migliore serenità contusa, una nuova dimora che sorga ‘altrove’, ma porti con sé i forzieri colmi del ricordo, consentendo, con grevi ritmi, di ‘risollevare la vasta vita’, per parafrasare Borges (“Assenza”, 1923): “Dovrò rialzare la vasta vita/ che ancora adesso è il tuo specchio:/ ogni mattina dovrò ricostruirla”. Una nuova dimora che sorga ‘altrove’, e che sia propria.   

                                                                                             ARMANDO SAVERIANO



KETTI MARTINO – DEL DISTACCO E ALTRE IMPERMANENZE – LA VITA FELICE 2014 – MI –  PP. 72 –  € 10,00



Quale fosse la dea che mi portava
al giorno, non mi è dato sapere
ma ricordo il bianco dei tuoi occhi
al cielo, contro i palazzi. E le pupille
a fissare l’ultimo fermo-immagine.

*

Nella pioggia che sfiora il bavero è la sera,
quando nel divenire di dicembre un lampo muove
gli occhi tuoi inzuppati fin dentro ai marciapiedi.
Ingorghi di gambe e gonne assaltano la metro:
parlano di strade, di vite già percorse ma
io non le ho mai ascoltate
tu invece sí.

*

Vieni a ricordarmi il cielo,
figlio di lotofagi. Carne d’ebano
fitta e succosa, hai lingua di capra
e occhi senza ombre.
L’alito tuo, verginale dimenticanza, plana
come vento del deserto che sa di gelsomino.
Sparge nell’aria i sogni leggeri della luna e
giorno dopo giorno mi guarisce.




Armando Saveriano
Ketti Martino