domenica 6 settembre 2015

LA PAROLA-SEGNICA DI KETTI MARTINO E LA SUA ACCORATA PAVANA



UN UNICO, LUNGO CARME INEFFABILE PER FRANCHEZZA E PUDORE PER INCANTO ED ENERGIA MORALE






Il distacco, piú che una categoria dell’impermanenza, come il titolo della raccolta di Ketti Martino (“Del distacco e altre impermanenze”) induce a pensare, è un suo effetto, subíto, affrontato e vissuto con un disagio, uno spiazzamento, un angst in graduazione scalare dalla società occidentale impreparata razionalmente ed emotivamente a gestire il cambiamento, la mutazione, il passaggio da uno stato/stadio all’altro. Eppure avviene di continuo, in tutte le sfere della conoscenza: biologica, fisica, atmosferica, sociale, tecnologica, medica, etica, ambientale: poggiandosi la vita, l’esistenza del multiverso stesso, l’ipotesi addomesticata del destino, sul movimento, sulla incessante metamorfosi di tutte le cose, res materiali e immateriali.
‘Omnia mutantur et nihil interit’, recita Ovidio nelle Metamorfosi (si rifà al tòpos eraclitèo ‘Panta rèi òs potamós’); una variante è: ‘Omnia mutantur et nos mutamur in illis’; Simmaco declama: ‘In omnium rerum fuga vivitur’ (si vive in un tutto che fugge); parimenti, in Properzio: ‘Omnia vertuntur’ (tutto cambia). Una condizione sentimentale, intellettivo-intellettuale, fisica, biologica, sociale è soggetta a movimento, e il movimento trasforma, evolve o involve, progredisce o regredisce; niente resta in posizione di stallo, nulla è durevole, uguale, eterno, indissolubile, come le insicurezze e le fobie individuali, o un aspetto popolare del romanticismo, auspicherebbero. Così come il fato d’impermanenza legato agli oggetti d’arte è stato decifrato, con la conseguente attivazione di misure cautelative di attenzione tecnica e di vigilanza contro attentati, altrettanta metabolizzazione del cambiamento attinente ai diversi ambiti (infiniti nella varietà loro) dovrebbe essere compreso, introiettato, sussunto con la maggiore serenità possibile, e non temuto, avversato, scotomizzato, con acceso atteggiamento apofatico. Il valore specifico del movimento matura modalità a carattere innovativo. Una cosa è per quell’attimo, e in quell’attimo già dispone il cambiamento per l’attimo successivo, e cosí via . La permanenza è utopica, l’impermanenza una legge anche naturale e fisica, semplicemente inevitabile. L’angst che essa può ingenerare nelle culture occidentali denota anche l’angustia nell’accezione favorita dal giovane italianista Gerardo Iandoli: il ‘senso del limite’ individuale e collettivo di una cultura fobico-possessiva che finge di usufruire del concetto di transitorietà mentre mira alla stasi dell’eterno per quanto e per quel che le conviene. Clifford D. Simak, in un suo famoso romanzo (‘Ring around the sun’, nella brutta traduzione Mondadori ‘Mondi senza fine’) ipotizza una uto/distopia (a seconda dei punti di vista) che contraddice l’impermanenza, condannando al collasso e alla catastrofe la società dei consumi, l’intero sistema economico mondiale, grazie alla comparsa sul mercato di oggetti d’uso comune (lampadine, lamette, accendisigari) eterni, seguiti da automobili, case prefabbricate, indumenti eterni… Non soggetti ad usura e a degrado alcuno. E a prezzo stracciato. Ecco la contraddizione di una società tecnocratico-consumista che procede ormai da duecent’anni sul filo del Leviatano della fretta, mentre tende contemporaneamente a conservare/preservare dai danni la giovinezza, la salute, lo scettro di una primazia, di un potere che invece è cadúco, temporale, transeúnte, in ogni caso governato dal fattore di mobilità/rinnovamento. L’aspetto negativo della mobilità è il suo ascesso nel mobilismo a-valoriale e nevrotizzante, dove il fattore intrapsichico resta inetto e inerte, decoscenziato se non incosciente. Immaginare o desiderare la soluzione della condizione dinamica dell’impermanenza è un istinto anomico da rieducare, nonostante (e proprio per –aggiungeremmo–) le formidabili resistenze dell’io sostanziale. L’introiezione metabolizzata dei processi impermanenti non conduce a né presuppone l’atarassia, quanto piuttosto una forma di entelechia, di frònesi individuale e comunitaria, laddove un’identità saluta come favorevole la conseguenza del distacco ai fini dell’affermazione di una differenza in progress, contro l’arroganza del pensiero volitivo che vorrebbe arroccarsi nel mancato riconoscimento delle differenze provocate dai processi di impermanenza, con il conseguente guadagno del superamento di elaborazioni/situazioni egologiche di illusione e di delirio. La sognata/agognata permanenza (di un amore, di uno status economico-politico, di un’epoca storica, di una fase fenomenica, di un segmento sensorio momentaneo del percetto, della vita individuale e dell’altro da sé, della durata senza fine dell’universo e via discorrendo) non rigenererebbe energie integrate al moto, e alle diversità che il movimento implica; comprometterebbe altresí i passaggi dall’Erklärung (ordine della spiegazione) al Sinn (ordine del senso), con la strozzatura senz’altro decrementale e nociva dell’attraversamento dei campi d’essere. Possibilità impossibile, tollerata nel campo della poesia lirica, o come nel caso di romanzi SF del genere ‘Mondi senza fine’, nella letteratura delle ipotesi fantastiche. Si pensi poi alla volubilità insita nell’essere umano, soggetto a stancarsi presto di un amore, di un’amicizia, di un oggetto, di un alimento, di un sito, di uno status (ancora Ovidio: ‘ Est quoque cunctarum novitas carissima rerum’, da cui il motto ‘Grata rerum novitas’ e la volgarizzazione tedesca ‘Neukommen willkommen’; la novità è cosa gradita per antonomasia,‘varietas delectat’ – variazioni si trovano in Varrone, Cicerone, Fedro, Quintiliano, Seneca, Frontone, Valerio Massimo, Giustino – ): dove mettiamo il motore dell’incontentabilità, che spinge a varcare le ‘colonne d’Ercole’? Eppure l’uomo mastica e rimastica sul concetto inapplicabile e uto/distopico di eternità e immutabilità! La finitudine di uno stadio porta al cominciamento del successivo, in una tensione fusionale di simboli, sovente inavvertiti dall’uomo comune preoccupato della perdita di quanto aveva arbitrariamente elevato a certezza. Ebbene, la parola ‘impermanenza’ racchiude una fascinazione straordinaria per le sue dinamiche di apertura, delle quali si nutrono (e le abitano) l’arte e la poesia, quelle alte della Martino, che qui presto s’incarnano nelle sequenze logico-metaforiche (pur e inevitabilmente nel ‘precario-necessario’) e realizzano un’adiacenza intra-soggettiva della scrittrice tra vissuto corpomentale e spostamento metonimico nell’insondabile. Il tempo mentale della poeta napoletana è trino: passato-presente, attrazione teleologica al futuro, attimalità dell’Io; il moto è elicoide, spinge Martino a misurarsi (ineluttabilmente) con il visibile e l’invisibile, il distinto e l’indistinto, la ferocia del dolore e l’esaltazione conseguente ad esso di una ebbrezza estatica collegantesi al sentimento oceanico (l’irruzione benefica e funzionale della riunione-comunione prenatale e dell’intuizione della morte catartica, essa stessa impermanente). Il distacco da una fase, da un punto che ci si insuperbí a definire ‘fermo’ (e non provvisorio, e mai provvisorio) figlia e cagiona nella nostra cultura una dismorfia sofferente, dalla quale la poesia che la canta e l’amplifica poi fatalmente la solleva dalla condizione di improduttività per trasferirla in una modalità perlomeno tetica.
La modernità della Martino e la sua unicità artistica si fondano in gran parte sulla spoliazione dei segni referenziali nei quali indugiano altri, magari pour épater (fuori tempo, fuori luogo, nel malcontesto intempestivo della vanità), sulla trasgressione a ogni pur dissimulata retorica, sulla ricerca, sull’adozione e sull’uso di una barthesiana parole exacte (una parola-segno inclusiva, al servizio di una sineddoche grandangolare) e -non ultima opzione- sulla cura di un versibus componere attento e coerente a un relazionarsi interno, pur elasticizzandosi alla partecipazione dell’economia vitale della comunità. In aggiunta, il segno della Martino denota una costante coscienza etica che riveste, per ermeneutismi e per proairetismi aristotelici (empiría), la sua bella leggibilità come con un’armatura estetico-semantica, con precisa migrazione di senso, con musicale emersione dei codici in quelle che de Mallac e Eberbach chiamano lessíe. Questo, nelle quattro sezioni del libro - edito presso la prestigiosa Casa milanese “La Vita Felice”, di cui è direttore editoriale Diana Battagia - (una pavana letteraria dédiée et donnée alla presenza-assenza dell’amato sul quale è tragicamente calato il sipario), costantemente in bilancio, dallo scintillante incipit di ‘Capitolo di te’ (‘Se tu guardassi nel buco/che hai tracciato in cielo/vedresti il labirinto che conosci/e i punti stretti a ricucire albe’) allo scolpito distico finale (‘Partorisco fossili e parole/resto incisa nella terra’) de ‘I Fiori e le buone nuove’. Temi e toni s’infittiscono, si sublimano, s’incuneano ora in un’oasi di vibrato ora in un vortice di suggestioni spiraliformi per congiunzioni e fatalità nella sezione ‘Dov’è lo spazio vuoto e cosa’ (‘Quando avevo il dono del diniego, e il cuore non/voleva dire, preparavo già la solitudine’; ‘Trovo la parola dietro a ogni muro/e nel primo sorso di caffè trovo te,/intatto raggrumato sangue, risposta/ saggia a domande impronunciate’; ‘Di non ritorni è fatta la discesa/e di mille miglia i versi/che a frotte vanno e rincorrono/gli spettri e il mio letargo’; ‘Il carico del sonno frantuma le parole./Cadono le lettere una ad una come acqua/che dagli occhi va per altre vie’; ‘Sembra tutto calmo in quest’ora del mattino,/ fatta di niente e di niente fatta, ché non/agita il disastro, la resa e la condanna’; ‘Precisi e nudi gli angoli nell’essere superstite,/in imprevisto purgatorio/ mentre i giorni, come sale, consumano i miei denti.//Mangio il cielo in perenne obbligo di nascita.’; ‘Se poi dovessi dirti come quella volta,/mentre stringevo il mondo nelle spalle,/che l’assenza di ogni tua parola è solo/un parlare piano, ritornerebbe rifondata/l’allegria, senza silenzi, a dispiegare i giorni.’; ‘Nel bianco  dentro l’orizzonte cresco,/moltiplico le piogge e i sensi, e nella casa, /le ispessite moltitudini dell’io…’). Il capitolo ‘Porte’ dà l’impressione, almeno a noi, di un inserimento a posteriori, di un introíbo giustificato, perfetto, lievemente scorporato dall’insieme per la sua natura monologante e versofrasata, per il diverso codice barthesiano di ‘voce della persona’ (i sèmi o significati di connotazione nel piú ampio e delicato registro del ‘campo simbolico’). Il tono descrittivo (parallelamente analitico) esegue sotto i nostri occhi un ritratto ‘liquido’ giocato sui piani specchiati e convergenti di interiorità ed esteriorità condotto con maestria dentro e fuori ‘la casa di psiche’ e il ‘paesaggio naturale’ (‘Nei vicoli, salendo Chiaia’) o la virtualità del non luogo (la notte, il buio di un corridoio, il centro dell’occhio, la luna). In questa tranche, a nostro avviso, oltre a plasmare un suo parametro di bellezza nelle intercapedini del pensiero doloroso, Martino annulla piú che mai l’antitesi d’emblée récusée tra vivre et écrire. (‘Meno ardente il passo che affrettavo: quale assurdo/e complicato peso/era guardarsi nell’angolo piú polveroso…/Sgomenti, mentre tutto era ripiegarsi e piovere// Venivo a trovarti solo di notte,/in quell’astrusa quiete che si oppone./Venivo per fermare il tempo e nulla era mancante./Nella notte (in quelle notti)/ quando frantumato il sonno orizzontale,/e il segno della mente aveva solo orme a primavera//Non ci erano errati i suoni del mattino,/ma sconosciuti i cenni oltre il muro,/e mi atterrivano piú del ronzío dentro alle orecchie./ Di travertino feci il lenzuolo;/fino all’angolo convesso del ginocchio/e bisbigliai.’) Tutt’al più Martino riconosce e (ci) ricorda che l’écrire è una maniera di (soprav)vivere. E la ‘parola esatta’ della Martino è medesimamente duttile, dotata di rifrazioni multiplettiche, in allegoria con virtuali linee spettroscopiche plurisenso; il che potrebbe indurre a formulare una contraddizione, mentre in realtà afferma il carattere saldo della peculiarità in cui questa parola si adopera, e nello stesso tempo estrude la capacità/qualità plurivoca attraverso la sublimazione del metalinguaggio. A tanto provvede e soccorre il fuoco acustico, quello che con perspicacia creativa Giorgio Bonacini chiama ‘sudorazione fonica’ (graphè-phonè), quello, ancora, che Hilde Domin denota e pronuncia quasi aforisticamente: ‘lanonparola /tesa / tra/ parola e parola”. E lo verifichiamo nelle sequenze: “Il gelo, affilando le dita sconsacrate,/si annodava come un rospo alla mia testa”; “Mentre io esisto, e tu mi dai qualche respiro,/dicembre spiuma già nell’aria”; “Il domani, ai piedi del letto,/era come sentirsi bene oppure vuoti/nel bianco del foglio/del muro/del nulla/nel bianco/nel bianco…”; “Città circoscritta, circoncisa, assottigliata/nella memoria, non ti cerco.”; “…e non so se mi voglio se ti voglio/se mi trovo se ti trovo./Giro in asse e mi perdo.”; “Da posto a posto appari,/da posto a posto mi attraversi/quando il golfo tra i capelli è vela…”; “Di tutti i discorsi fatti/… …di pochi conservo la certezza/ di aver taciuto o desiderato dire ancora”; “le tracce e il seme di una stanza,/le albe/e lo stupore dissipato a ricordare”; “Si assottigliano le ombre con l’estate;/ i profumi e i gesti si fanno occhi e nodi da capire/ Tu lasciavi per le scale la musica del mare,/ un cumulo di stanze e girasoli”; “Come anonimo vestito inabitato/ho cercato un corpo da coprire/dopo”.
Il fulcro dello spirito poietico gravita intorno alle collateralità del distacco: l’assenza/mancanza (Mangel), lo sgomento/paura (Bestürzung/Furcht); il vero trauma s’incista nei meccanismi dell’abbandono; un abbandono causato dalla dipartita (exit) del partner (è purtroppo il caso di Ketti Martino) o dall’improvviso, brusco disinnamoramento, che implica il rifiuto, il rigetto; sensazioni spiacevoli per tutti, che, in quest’accezione (essa –ripetiamo– non riguarda la poeta napoletana) detronizzano la proiezione della virilità nel maschio, mentre mortificano e infibulano la proiezione seduttivo-materna nel connaturato complesso d’Elettra nella femmina. Un argomento di ben sferzante drammaticità, di tale potenzialità indagativa (Thanatos che si sovrappone a Bíos), viene invece presentato dalla poeta napoletana con tatto, con Feinheit, con fine dolcezza; la straziante privazione non passa in secondo piano; viene abbracciata da una malinconia che espone allo struggimento la compartecipazione spontanea di chi legge i versi. Qui Ketti Martino supera, inconsapevole, il piú grande ostacolo che la poesia riserva ai suoi adepti. E questo ostacolo evitato ne conferma le qualità. “Dire qualcosa che è stato detto in precedenza, rende la poesia uno dei generi letterari piú difficili ed eccitanti da comporre”. È l’affermazione (condivisa) della poeta di Glasgow, ‘Poet Laureate’ del Regno Unito (nel 2009), Carol Ann Duffy. Conveniente aggiungere che il ‘dire qualcosa che è stato detto in precedenza’ deve necessariamente includere una originalità precipua, una riconfigurazione di modello che bandisca in chi ne fruisce la sensazione del déjà lit/déjà écouté. Specialmente se riandiamo con la memoria alla sentenza terenziana ‘Nullum est iam dictum quod non sit dictum prius’ (Eunuchus, 41). Non possiamo peraltro esimerci dal raffronto con l’épreuve estenuante e letterariamente sfavillante (sia scacciato, nella mente di chi hic et nunc legge, il sospetto di cinismo nelle nostre parole!) di ‘Album’ (Book Editore, 2005) dell’irpina Giuseppina Luongo Bartolini (naturalizzata beneventana): “Se per un attimo la poetessa Bartolini ha pensato che ‘Album’ le offrisse l’occasione imperdibile della confessione, della catabasi e del riscatto, in realtà ancora una volta sacerdotessa e vittima della poesia” -scrivevamo nella postfazione- “sposa di Pellegrino e del Sublime, è stata madre facitrice di un memoriale spiazzante, di un canzoniere che apre fenditure ed eleva picchi, di un palpitante diario, affrescato di bellezza insostenibile e di amore all’estremo grado: capace di urticare il cuore e di sconvolgere il nostro immaginario.”
Oggi abbiamo opera parimenti destra, turgida, palpitante ed armonica con “Del distacco…” di Ketti Martino. Il dolore esteso genera capolavori. Sembrerebbe disumano rimarcarlo, ma quando a patire è il genio, avviene mescidanza epistemico-semantica, razio-emotiva, e si afferma quella nicciana ‘libertà di stare sopra le cose’ (finanche sopra la morte); e volentieri il/la poeta paga il prezzo dell’erranza, dell’esilio: il bello più struggente ‘accade’, la poesia genuina ‘accade’. Il rapporto tra il prima e il dopo è il passaggio (il movimento causa/effetto dell’impermanenza) dal prima al dopo, dall’Eros e da Bíos all’umbra thanatica che partorisce creazione luminosa, qui, con Bartolini e Martino, la Poesia. La Poesia medesima. Il passaggio esige, esplica, effettua la presa di posizione ‘verticale’ verso la Trascendenza. Necessaria, priva di soluzione di continuità. Ogni istante è un incontro, un contatto con la trascendenza, essendo immanenza solo Dio e/o il concetto di Dio che abbiamo creato (Dio causa immanente e non transitiva del mondo, secondo Spinoza); l’impermanenza già permea l’attimo che precede. Kierkegaard spiega bene che il fondamento costitutivo dell’angst, derivante dalla disaccettazione dell’impermanenza, è la relazione fra il divenire e l’essere, le principali categorie filosofiche del pensiero occidentale: l’essere si muta in essere stato e diviene altro, che a sua volta subisce trasformazione e decede/rinasce nel nuovo, in un divenire perpetuo, dove la perpetuità si protende all’infinito, e forse l’eterno è proprio e solo il divenire dell’impermanenza. La continuità ad oltranza è il processo di mutazione, di erosione, di decomposizione, quindi, l’impermanenza; illusorio il resistere per persistere in quello che altro non è se non autoinganno, un cocciuto solipsismo che incespica e capitombola nella hybris, l’arroganza dell’imporre un’idea fallace. ‘Restare’ è negativo, divenire altro è lo scorrere primordiale alla radice dell’essere impermanente; semmai ‘restare’ è rappresentativo dell’ordine del divenire/diventare. Divenire/diventare altro sia nell’evidenza clamorosa sia nella sottigliezza piú inavvertita/inavvertibile dai sensi distratti, disallenati, o per natura e condizione umana di inconoscibilità del vero reale effettivo, ‘ciechi’.
Quanto all’amore compromesso nel suo amperaggio (collaudato solo nell’ambito delle aspettative irrealistiche: l’impermanenza ancora docet), è altra storia e ben diverso senso di angst; l’amore reietto, stracciato, non piú corrisposto, enucleato della metà del cielo, o della mela, quindi reciso, metaforicamente ‘anciso’, causa disorientamento (l’incubo della spersonalizzazione), perdita della fiducia in sé, instabilità, insicurezza (disappartenenza alla vita sociale), sia nella vittima (chi ancora ama e non ha voluto e neanche immaginato l’allontanamento) sia nell’offender (chi ha messo in atto l’abbandono). In misura diversa, entrambi i protagonisti si scoprono lesi, debbono affrontare un nuovo comportamento che sostituisca quello abituale sconvolto (nel quotidiano e nel ‘sopraquotidiano’). In tale prospettiva l’angst non è primario, ma secondario: è un angst di colpa, quando l’uomo e/o la donna che ne vengono assaliti non si trovano a combattere con l’indefinito e l’indecifrabile dell’angst primario, ma pensano di essere colpevoli di tutto ciò che accade e li terrifica, li paralizza.
Per Ketti Martino l’antidoto alla scomparsa del partner non è un pulsionale sigillare con l’epifragma la conchiglia-Io, è ricorrere a una forma di anaptissi emotivo-razionale-letteraria: narrare in forma di poesia, diarizzare la pena, lo sconcerto, lo spettro di un’inedita disidentità, inserendo l’arte (e l’ottimismo fondato nell’efficacia taumaturgica della parola) come se fosse un morbido tampone ‘vocalico’ tra l’asprezza corrosiva di Mangel e di Bestürzung/Furcht. La guarigione, se mai c’è, chiede scarpe di ferro e morso di silicio e si dipana come nastro di ortica per leghe di pazienza.
Nella logopea (intesa nell’accezione di spazio bianco poundiano, di inespresso attraverso il logos, ma emergente nella sottotraccia generale) dei versi di siffatto elaborato, sincero, acribioso e forbito, esplicito e pudíco come in analogia con l’opera testamentale di Gabriella Maleti (“Prima o poi” – Gazebo ed. Firenze – 2014), elaborato che può vantare a tutti gli effetti le connotazioni del poemetto, ravvisiamo una costante anacenòsi nella voce martiniana: la poeta si rivolge proprio al viaggiatore-ombra luminosa, all’assente-presente che fu carne ed ecceità supremizzata del rapporto connubiale per ottenere non tanto lo scioglimento dell’insolvibile mistero dell’impermanenza dell’amore (sia essa sopraggiunta per moira di finitudine –le forbici di Atropo– e abbia imposto status di Witwenstand, o per quel frequentissimo fenomeno di disaffezione a cui conduce l’Instinkt atavico della poligamia), non tanto lo slegamento dall’irrazionale Schuldgefühl di ‘essere rimasta’, quanto un suggerimento (una serie di fantasmatici sussurri oltremondani) per non sdrucciolare nell’essudante strappo, per non vagabondare nell’errore dello shock, per non dislocarsi in un’area adimensionale, per (imparare ad) abitare, al contrario, con la migliore serenità contusa, una nuova dimora che sorga ‘altrove’, ma porti con sé i forzieri colmi del ricordo, consentendo, con grevi ritmi, di ‘risollevare la vasta vita’, per parafrasare Borges (“Assenza”, 1923): “Dovrò rialzare la vasta vita/ che ancora adesso è il tuo specchio:/ ogni mattina dovrò ricostruirla”. Una nuova dimora che sorga ‘altrove’, e che sia propria.   

                                                                                             ARMANDO SAVERIANO



KETTI MARTINO – DEL DISTACCO E ALTRE IMPERMANENZE – LA VITA FELICE 2014 – MI –  PP. 72 –  € 10,00



Quale fosse la dea che mi portava
al giorno, non mi è dato sapere
ma ricordo il bianco dei tuoi occhi
al cielo, contro i palazzi. E le pupille
a fissare l’ultimo fermo-immagine.

*

Nella pioggia che sfiora il bavero è la sera,
quando nel divenire di dicembre un lampo muove
gli occhi tuoi inzuppati fin dentro ai marciapiedi.
Ingorghi di gambe e gonne assaltano la metro:
parlano di strade, di vite già percorse ma
io non le ho mai ascoltate
tu invece sí.

*

Vieni a ricordarmi il cielo,
figlio di lotofagi. Carne d’ebano
fitta e succosa, hai lingua di capra
e occhi senza ombre.
L’alito tuo, verginale dimenticanza, plana
come vento del deserto che sa di gelsomino.
Sparge nell’aria i sogni leggeri della luna e
giorno dopo giorno mi guarisce.




Armando Saveriano
Ketti Martino


1 commento:

  1. Ringrazio Armando Saveriano per la bellissima ed approfondita recensione che stimola innumerevoli ed interessanti spunti di ulteriore riflessione.

    Ketti Martino

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