mercoledì 24 giugno 2015

LE ALTRE DA IFIGENIA



STATO DELL’ESSERE IN PUBBLICO E PRIVATO DI DONNE

 CHE RACCONTANO DI DONNE




Giuseppe Vetromile














La mitologia greca classica abbonda di eroine meravigliose e di sulfuree, inquietanti anti-eroine (basti Medea per tutte): dalla coraggiosa e sensibile Antigone ad Alcesti, sposa che cede la vita in favore della reviviscenza del marito Admeto, laddove neanche gli anziani genitori di lui accettano di rinunciare agli anni che restano loro per salvarlo; dalla straziata vedova di Ettore, Andromaca, che si vede strappare il figlioletto Astianatte, affinché il dominatore acheo lo precipiti dalle rupi per impedirgli, crescendo, di vendicare il padre e la famiglia decimata (Neottolemo, figlio di Achille, lo ucciderà, gettandolo giú da una delle torri di Troia presso la porta Scea) ad Ecuba, annosa ma temprata regina di Ilio, che, in un celeberrimo monologo di Euripide, smonta con infallibile eloquio le pretestuose giustificazioni della maliarda Elena e consiglia al tronfio e manipolabile Menelao di non tradurla in patria sulla stessa nave, col rischio di essere ancora sedotto e gabbato dai fascini dell’insidiosa fedifraga. E come dimenticare Penelope, la fedelissima, la paziente, la previdente, l’icona maxima della compagna che confida nell’impossibile ritorno fino all’estremo, riuscendo a tenere a bada per lunghi, interminabili anni, la masnada dei ruvidi e avidi pretendenti?
Siamo titubanti nell’assegnare al nome di Ifigenia l’apposizione “eroina”, che il titolo della silloge suggerisce con marker invisibile e che le autrici invitate a partecipare con personali scritture in versi sul tema della donna combattiva, idealista, disposta ad avviarsi e a subire (allegorica) immolazione calamitosa, senza minimamente scomporsi hanno accettato (magari con qualche riserva, magari svicolando lungo i cunicoli di altri miti e altre protagoniste, come vedremo, o tout-court evitando ogni riferimento classico). Ifigenia è nota non per quel che fa, (non sfida né il fato né l’autorità terrena, come Antigone, che, opponendo a Creonte le ragioni del cuore e l’obbedienza alla prescrizioni divine, commette hybris, ingranaggio inesorabile) ma per quel che il suo destino scatena. 
Figlia di Agamennone e di Clitemnestra (sorella di Elena, entrambe nate dall’uovo di Leda, fecondata da Zeus), fu indicata dall’indovino Calcante come vittima per placare la suscettibile Artemide, irata contro il re che vantava maggiore perizia di lei nelle pratiche dell’arco; con il ricorso all’ingannevole prospettiva delle nozze con Achille, la fanciulla venne attirata al sacrificio; ma la stessa Artemide, all’ultimo momento, la trasse in salvo, sostituendola sull’ara con una cerbiatta; condusse la risparmiata vittima tra i Tauri, ove sarebbe divenuta sacerdotessa addetta alla rituale soppressione degli stranieri transfughi o semplicemente indesiderati. 
Una leggenda parallela vuole, invece, che i capricciosi dei esigano dai greci un sacrificio umano propiziatorio, altrimenti lasceranno i mari in bonaccia e flosce le vele della potente flotta. Ifigenia, neonata o comunque infante, prescelta come crudele prezzo da pagare per l’affrancante, sospirato soffio dei venti, è sottratta alla disperata e (vanamente) supplichevole Clitemnestra, che per questo atto odierà con implacabile crescendo il marito Agamennone, architettando una cruenta vendetta al suo ritorno in Patria dopo la subdola presa di Troia, rasa al suolo in una notte, grazie al tranello del ligneo cavallo dal capace ventre cavo. 
Anche in questa versione, gli dei, notoriamente inclini a mutare decisione, si impietosiscono e la trasformano nella dea Ecate, mentre la disumanità dei mortali sarà punita con una serie di sanguinose conseguenze. In ogni caso, neonata o ragazza, Ifigenía si salva, o ottiene una compensazione.
In sé, Ifigenia, ignara o semi-inconsapevole, è travolta da decisioni stabilite per lei.
Sia come sia, il personaggio ha stimolato fior d’autori: Jean Racine (1674), P.J. Martello (1709), Guimond de la Touche, Ippolito Pindemonte, Goethe. E cosí i melodrammi di Scarlatti, di Jommelli, di Piccinni; mentre per la pittura incanta l’affresco del Tiepolo a villa Valmarana in Vicenza. 
Il titolo e il tema dell’antologia del volume curato dall’inossidabile polivalenza di Giuseppe Vetromile per i tipi di Scuderi un anno fa suggeriscono la chiamata testimoniale di autrici che immaginano, descrivono, raccontano la nobiltà del femminino contro gli abusi, lo sciovinismo, l’iniqua ragion di stato. Molte poetesse nel passato e nel nostro immediato hanno subito persecuzioni, intimidazioni, concussioni, detenzione, perdita degli elementari diritti, torture, stupri, ritorsioni trasversali. Cosa che per fortuna è stata ed è risparmiata (che noi si sappia, dalle note biografiche in calce al volumetto) a Lucianna Argentino, Victoria Artamonova, Gaetana Aufiero, Floriana Coppola, Ulrike Draesner, Federica Giordano, Anila Hanxhari, Giovanna Iorio, Amalia Leo, Ketti Martino, Vera Mocella, Regina Célia Pereira da Silva, Monika Rinck, Anna Tumanova, Vanina Zaccaria. E a Rita Pacilio.
Di fronte a poetesse che hanno vissuto sulla pelle umiliazioni, angosce, sevizie fisiche e psicologiche in nome della libertà, e della verità, in Paesi che coartano, stroncando ogni pur minimo anelito in contrapposizione al diktàt governativo (nel nostro beneamato Stivale spessissimo in seno alla famiglia, ad opera di scellerati consorti o congiunti), e che purtroppo sapevano quel che descrivevano, le nostre imperterrite autrici “ifigeniadi” denunciano per sentito dire, cercano, buon dio, anche di immedesimarsi per quel che possono suggerire loro empatia e talento. ‘Testimoniano’ a seconda dei gradi della propria ars poetica.
Nel complesso, iniziativa e libro risultano accattivanti, e Vetromile ha intúito e mestiere; ovunque mette mano, il risultato è garantito. Complice qui la splendida tavola evocativa di Eliana Petrizzi, scrittrice, fotografa, designer e blogger, selezionata nel 2011 da Vittorio Sgarbi per la 54^ Biennale di Venezia, Padiglione Campania.
A noi non piace il biancore (patinato!) e la qualità della carta interna; la stampa è in digitale (insistiamo); mancano del resto le relative informazioni in seno al colophon, il quale ospita insolitamente un brano di Lucrezio in latino. L’inserimento di versi (siano del curatore del libro, del/degli autori o di poeti celebri) è una raffinatezza che va inserita a margine, nel colophon, dopo i dati tipografici). Utile, al contrario, l’apporto biografico sulle protagoniste della collettanea, corredato di commento critico succinto e compendioso, frutto delle solide competenze del demiurgo di Sant’Anastasia.
Lucianna Argentino, Floriana Coppola, Federica Giordano, Giovanna Iorio, Ketti Martino e Vanina Zaccaria sono, a nostro legittimo avviso, autrici di punta che fanno della parola/gesto mentale pessoano il flusso mirabile dell’ecceità poietica stessa; è, qui, la parola ad incarnarsi, non l’argomento a farsi parola, pur turgido che appaia il suo dettato. Ognuna lavora a favore di una fondazione poetriante di cifra, che si differenzi, che non cloni (tutto sommato anche inconsapevolmente) i miti, o peggio ancora, selli il destriero della prevedibilità, dello scontato, del luogo comune. Abitano, almeno queste autrici, nuove fondanti appartenenze, srotolano un filo muscolare, diremmo fisiologico quanto filologico, penetrano i contrasti, non demonizzano le contraddizioni, reggono il ritmo con una cadenza misurata e coerente; non disdegnano chiazze d’ombra tra i cui piovaschi fogliacei miscelare la verità e quel pizzico di irresistibile finzione che è patrimonio del creativo, da Lorenzo il Magnifico a Olimpo da Sassoferrato, da Gozzano a D’Annunzio, a Giambattista Marino, da Clemente Rebora a Umberto Saba, da Gaspara Stampa a Elsa Morante, alla Merini, a Vivian Lamarque.
Piace il nitore stringato, eminentemente tonale di Giovanna Iorio che ha la cura netta, quasi ossequiosa dell’essenziale; produce un verso percussivo, esatto, aerodinamico, che nei ‘feuillets’ de ‘Le dodici pietre’ fende il sangue e scioglie riserve all’inserzione della voce intima, quella che si ascolta riprodotta dall’occhio intelligente di chi legge a voce allenata. Si limita a incrociare Níobe (convertita in pietra dal dolore dopo la strage dei figli ad opera di Apollo e Artemide, indi tradotta dagli dei sul monte Sipilo nell’odierna Turchia) e lo fa in un radente passaggio, segnando i tempi della leggerezza nello struggimento; si mimetizza per un attimo bluastro in una peruviana masticatrice/conciatrice di Tumbes; per il resto non lascia dileguare l’appartenenza a un sé che si rastrema (senza occultare) con tutta la grazia della trasparenza di partizione strofica e di estensione emotiva. Non carica i simboli, non sbava in nessuna persistenza, è artiera di una pietra nobile, scabra e duttile quasi per metaplasica derivazione.
Lucianna Argentino interpella il desiderio, l’errore e il peccato con la suasione suggestiva di un sogno allo specchio (rimandiamo il lettore al saggio/romanzo del pensiero umano “La corazza ricamata”, di Roberto Peregalli, Bompiani, 2008; nella fattispecie al cap.2 ‘Il rischio della conoscenza’), che la proietta in controcanto nel ratto di una Proserpina custode di languori, consensualità e impulso ribelle ricacciato giú per un ubiquo raddoppiamento di istante e di distanza, di prossimità e di fuga, entrambe tentazioni che confondono ed eccitano la mente-cuore, in perenne stato d’alterna sublimità e terragna cocenza sessuata. Il suo stile è una confessione a voce spiegata, mai tremula: anzi determinata, non oltrepassante la soglia di una esplicitazione spellante e sfacciata, vira inaspettatamente nell’accostamento a Maria di Luca, permutata in una figuretta isolata, parte dell’immagine fiabesca di un Capuana, di un Basile, ricca d’una lanterna e di un foglio nel quale riversarsi in tutt’uno.
Ifigenia, oggetto di eventi piú grandi, e tragici precursori di effetti ancor piú devastanti, Ifigenia che non sa e non può scegliere, in realtà non muore, viene trasfigurata e gravata di inedite responsabilità, divenga essa Ecate o designata sacerdotessa mortifera per capriccio e per pietà di Artemide/Diana. Con originalità e genio complessivo, Federica Giordano disegna e proietta un gesto scaramantico che in ogni epoca si irràdi, in ogni tempo si sprigioni; tempo che per lei s’intuisce essere un’unica retta ove scarso senso hanno le distinzioni di passato/momento attuale/avvenire. Luminosi e numinosi gli accostamenti lessicali, cosí le invidiabili intuizioni, mentre scivola avanti/indietro, contemporaneamente nella bella (e impressionante) atemporalità la voce anch’essa logicamente atavica e profetica di sé, in prossimità e lontananza che solo la poliedrica plasmabilità mitica (greca o egizia che sia) può formare e aggregare. E se è la poetessa napoletana di “Nomadismi” a suggerire involontariamente la nominazione alquanto malintesa del titolo della raccolta, giacché la Giordano non si sogna di elevare Ifigenia a icona del sacrificio o a pasionaria antroposociale politicizzata (basta e avanza Antigone), il suo dire scava nell’eterno ritorno derivato dall’illusorio ‘andare’. Dal visibile alla decifrazione dell’invisibile. Eccellente, illuminante, mistico-straniante eppure straordinariamente etico-spirituale il morceau ‘Cicli’, dove fine e inizio (naturalmente) collimano.    
Ketti Martino mantiene alto (e piú che mai alto) il registro prendendo misure precauzionali di distanza dall’ovvietà in cui una scrittrice del suo calibro non può scivolare neanche per un frammento di distrazione, o per diabolico sberleffo del caso; non ha bisogno di rileggere la cronaca (morbosa) alla moda, di calcare il tallone per viottoli praticati fino alla nausea, alla guida di un SUV o con la testa cotonanda in un casco dal parrucchiere, mentre ci si gingilla a rivendicare le beau geste dell’engagement sartriano, scomodando il succo di discorsi storico-teorici di storici maîtres à penser, magari ricombinando espressioni còlte dagli editoriali di Travaglio o dal compianto palinsesto di ‘NoiDonne’ (Cooperativa Libera Stampa). Diciamo basta alla retorica su Gaza, su Lampedusa, sul Nepal, frignando con un occhio solo sui bimbi arsi dal napalm! Confrontiamoci, piuttosto, con l’arguto –e agghiacciante– testo di ‘The Bombs’ di Martha Collins, tutto in strofe di un solo verso, compreso nella raccolta “Sheer”!(Tanto per verificare il superamento del banale e dell’enfatico artificiosamente riprodotto ad effetto, prendendo atto, in umile esercizio, che ben altre sono le vette dell’originalità…) ‘In fieri’ è un petit chef-d’œuvre dove ‘l’imperfezione’ sublima paradossalmente ogni mancanza, ogni addio, ogni esilio, ogni ferrea o equivoca/equivocata ‘legge’. Eppure a nostro (opinabile) giudizio la Martino avrebbe potuto concludere alla seconda strofa della sequenza II, espunta con l’abolizione dei due versi terminali, inglobabili invece all’inizio della parte III: “La tenerezza ha angoli nascosti,/ non li vedi?” E à ce propos, i finali due versi de “L’Io scrivente” risultano una possente dichiarazione di poetica. Val la pena di citarli: “Alla luna lascio le mie carte, le sospensioni e ogni confine./ Inoltro bolle di sapone senza attesa di risposta.”
Vanina Zaccaria si tuffa e ci rituffa nelle atmosfere classiche (da buona attrice non può non amare la Triade  insostituibilmente formativa Eschilo/Sofocle/Euripide) di una Atene immortalata come alfa e omega, metafora
della bellezza, del pensiero, dell’arte della parola, di prodigiose armonie; prosegue cantando del Peloponneso rovente di spade, scudi corruschi e roghi di navi, quindi in trasvolata lambisce il Dodecàneso (o Dodecanèso, le 12 isole dell’Egeo che dal 1912 al 1947, incluse Rodi, Lisso e Coo, furono sotto il dominio italiano), indica Lindos, Ialissos, Kamiros, ne saggia gli odori, i colori, tentata dai misteri che ogni scrigno/adyton/non luoghità riserva al curioso pellegrino, per approdare ad Argo, dove “ci siamo venduti al vento un corpo di ragazza/ne abbiamo baciato le dita con intima vergogna/ne abbiamo scorto i seni bianchi/dibattersi alla corda/come blande meduse/trascinate dalla chiglia”. Il metro è gentile, fende le stanze della mente, ci invita a esporci, ad accedere direttamente ai cataloghi del tempo, ripesca il mito, ma lo fa con grazia, con cautela, consapevole che la crudeltà imbratta l’idillio, appanna l’ideale, interrompe l’incanto e i flauti, apparecchia la catastrofe, l’angoscia epocale.
Per ultima, e non ultima delle italiane a nostro avviso e gusto significative in questa antologia, anzi collocata in cauda come per assaporare con ‘trepidante calma’, ossimoricamente, il boccone piú ghiotto, Floriana Coppola ci regala l’Ineffabile Poetico con il poemetto “Non sono che la madre”. Qui il pathos ascende allo zenit e lo fa con una pluralità di toni, in un recitativo teatrale che richiama “Toutes voix confondues” del menestrello della ‘banlieue’ parigina, amico di Aragon e di Frénaud, Gérard Noiret, ma anche conduce alla summenzionata nordamericana Martha Collins con le diverse storie, le ‘Several Things’, le diverse cose che compongono un puzzle eloquente e terribile, dove una voce s’insinua in un’altra voce, che poi è la stessa, il disgiunto diventa connessione splendida e meditativa, il punto focale assume un fascino disturbante che non offende ma tiene desti, allerta, in attesa di rivelazioni, mentre intervalli significativi acquistano funzioni e frequenze uditive/visive. La metafora materica (corallo, giada, cartapesta, piombo, legno aromatico, sasso, frutto, foresta, rovo, carne incatenata alle inferriate) non è tanto versatilità trasformista ab ovo quanto polifonia enunciativa di verità (o quantomeno di inveramento): ‘terra, sogno, punto, istante racchiuso da un cerchio’ (per rifarci a Francisco de Quevedo); la madre spende tutto di sé senza risparmio, per eletta condizione, istinto, DNA. E lo fa in sordina, senza reboanti esplosioni di guerriera temprata dalle bufere, senza percuotersi il petto; senza rendiconto di sacrifizi; anzi, scarne definisce carezze e parole che offre ogni giorno, riservando a se stessa immagini di ali alle caviglie e proiezioni di chimere, miraggi, mentre restituisce crediti, impasta il pane del mattino, contempla la traccia dormiente dei corpi piccini e belli nella culla vuota. E si confessa ombra domestica ma anche ardore, che s’attarda nei cortili a sgranare buffole di bugie (e non menzogne) in una sospensione d’animo reificante. Sembra sorgere e delinearsi in un lampo d’ombra l’aria di Quasimodo, che alla Aleramo si rivolgeva a cuor gonfio: “Ti penso serena, regale. E le ali, le ali, mio amore?”
Pregevole, dunque, il libretto, che promuove anche la Scuderi; libretto che se si fosse arricchito di un bouquet nostrano e partenopeo/casertano di altrettante tedofore, portatrici di armoniosa idealità e di combustiva figurazione espressiva e immaginativa (stiamo parlando di Mariastella Eisenberg, Monia Gaita, Antonietta Gnerre, Claudia Iandolo, Agostina Spagnuolo, Carla De Falco) avrebbe magnificato nella molteplicità degli scatti e dei vetri zigrinati (per parafrasare Magrelli) di tic, umori, illuminazioni e nevrosi un panorama di inconsueta perfezione d’incontro, e musicale e semantica, capace di reggere l’impossibile confronto con quelli che noi unanimemente nominiamo ‘Spiriti Magni’ ( Saffo, Catullo, Ovidio, Petrarca, Dante, Ariosto, Foscolo, Leopardi, Rimbaud, Lorca, Achmatova, Cvetaeva, Neruda, Prévert, Luzi…). E scusate se è poco.
Non ci soffermiamo sulle straniere: non conoscendo il russo, non sufficientemente il tedesco e il portoghese, ci dobbiamo rifare alle traduzioni, che sono immancabilmente dei ‘tradimenti’, dei ‘travisamenti’ rispetto all’originale, nonostante la preparazione del traduttore, che spesso è egli stesso poeta (qui Federica Giordano nel caso di Monika Rinck). L’altissima incidenza di inevitabile ‘riscrittura’ e di proposizione di poesie ‘diverse’ (e sinceramente eviscerate, piallate) ha persino toccato, illo tempore, Pasquale Martiniello, quando ha traslato in lingua le sue formidabili produzioni in koinè (‘No munno spierso’); l’onestà di Maria Grazia Marzot, pregevolissima traduttrice, le ha impedito di trasporre alcuni sonetti di Martha Collins, per esempio, zeppi di ‘double entendre’ dal garbuglioso scioglimento e di giochi di parole impossibili da rendere in una lingua differente senza che il gusto e il senso andassero dispersi, vanificati. Costretti a basarci sulle versioni in italiano, assegniamo il nostro apprezzamento a Ulrike Draesner  (‘What is poetry?’), a Regina Célia Pereira da Silva ed a Monika Rinck per eclettismo, Witz mordace, graffiante disincanto weberiano, per indizio di irripetibilità. Deludente Victoria Artamonova, il cui componimento (pretenzioso nel titolo, ma arente e scialbo nei contenuti) ‘Lettera a Petrarca dalla Russia’ risulta un’occasione mancata.

                                                                                                ARMANDO SAVERIANO



AA.VV. IFIGENIA SIAMO NOI – A CURA DI G. VETROMILE – SCUDERI ED. 2014 – PP.96 € 12.50




Ifigenia vista dal pittore Tiepolo



Federica Giordano
Floriana Coppola





Giovanna Iorio
Ketti Martino









Lucianna Argentino
Vanina Zaccaria






sabato 20 giugno 2015

QUANDO UN’INTENSA VITA ANNUNCIA IL SUO CONGEDO



Tra pessimismo e ironico autocompatimento






Ho dovuto consultare il mio vecchio vocabolario di latino per riscoprire il significato, dimenticato, di “perfungor, perfungeris, perfunctus sum, perfungi”.  Perfuncta: compiuta interamente, adempiuta, ma anche sostenuta, “sopportata”, sperimentata e, perché no?, goduta. Armando Saveriano ci offre una plaquette, di dodici pagine, soltanto sei poesie, la più recente in ordine di tempo, con un titolo complesso ed erudito, come è il suo solito. L’immagine di copertina, di Dino Valls, mostra il volto di una graziosa fanciulla dallo sguardo penetrante e incisivo, rafforzato dal dito indice della mano, rivolto al lettore. Un altro volto, lo stesso, alle spalle, fissa con lo stesso sguardo, e sembra allontanarsi, all’indietro, con le mani aperte. Un’immagine surreale, come le poesie della plaquette.  “Sei tarli nel giustacuore” dice il sottotitolo e ci anticipa che l’accezione sperata, di vita goduta, non è. Un titolo dal forte pessimismo, dunque, e di solitudine. Nessun segno di punteggiatura a intercalare le righe delle poesie: uno sfogo tutto d’un fiato: “Non c’è più rosso- Ogni notte cambia il suo dolore- Troppo provato per soffrire ancora- Ho cessato di porre domande al cielo- Sospingimi eterea sospingimi- Una scudisciata nel cielo dibattuto ammutolì”. Sono i versi con i quali iniziano, in ordine, i sei componimenti poetici. Neanche un filo di luce trapela, se non quello, fioco, della prima lirica dal titolo “Sfinita la notte ed insaziata”: “… fanciulle nelle Apuane/ognuna scalza con un rocchetto di lana/ e un chiaro ciotolino d’olio alla luna/ s’avventa la memoria sugli usci delle case/ poi alle tegole s’alza sbigottita/ e filtra nei pori delle vecchie addormentate.” Ma “è sfinita la notte ed insaziata/ per pochi occhi soli/ e per spaziose mani/ frugifera e mendace”. Ritorna l’immagine di copertina. La vita si allontana e non indica più, le mani sono aperte. E si è soli. Ma perché tanto pessimismo nel poeta?  “Il mondo è solo una lapide che attende iscrizioni” dirà nell’ultima poesia della raccolta. Anche le liriche “Nel nulla” e “Nato da Macchina e Sfinge” sono sfogo ad altri momenti di sconforto. Toccante il ricordo di Elizabeth Eleanor Siddal, la poetessa dalla triste avventura di vita, di cui Saveriano ripercorre in “Cerimonia per Elizabeth” il sacrario in cui riflette se stesso: “Non sono che una creatura straziata” scrivevi/Né la mia sorte potrà mutare”. Questo pessimismo, tuttavia, chiama il poeta a nuova luce, la luce della poesia, la luce salvifica, di cui egli sempre si nutre e ammaestra. Gli occhi della vita, quella rappresentata in copertina, sembrano dire: “Che cos’è la vita se non il proprio sé che s’imponga comunque sulle sorti?” E l’indice, rivolto al lettore, che cosa indica se non che la vita va guidata, non subita? Vi è una luce, anche se flebile fiammella, che non bisogna mai far sfuggire, una luce da afferrare, da rendere torcia per i propri passi. Diceva lo stesso autore in “Se poesia è verità”, una lirica che non appartiene a questa plaquette: “Avremmo se potessimo ascoltare molte cose su cui meditare”. È il caso di meditare, sì, ma con leggerezza, perché non a noi è dato di sapere quando, né quanto, la vita sia “perfuncta”, nel senso di adempiuta, come recita il mio vecchio, caro vocabolario di latino, il Bianchi, del 1961. Chi può dirlo, Armando? A noi pare sia più giusto credere che la vita debba essere sostenuta, supportata, sperimentata, nell’altra più convincente accezione del termine.

                                                                                               AGOSTINA SPAGNUOLO



ARMANDO SAVERIANO - PERFUNCTA VITA - DELTA 3 (Grottaminarda) 2015 PP. 12 - EURO 5,00



NOCTESCIT

Ogni notte cambia il suo dolore
e il mio pensare aggruma
c’è sempre un’ora che quando scocca
dimentica aperta la sua porta
io cerco affinità nelle orme
che le foglie non coprono
le bestemmie non colmano
Continuo a stare in grembo a Venere
queste parole sbocciano girovaghe
colpite all’ala
Togli le tue dita se vuoi legarmi a morte
scrosci di me spaventano
chi tiene il sangue acquoso
sosta nel desiderio anche chi non ha nome
s’ibernano le ombre molte e disciplinate
le chiamo a mio capriccio
e vestono i miei occhi
sfiora se vuoi le braccia
io taccio sulla sorte

ARMANDO SAVERIANO




Agostina Spagnuolo
Armando Saveriano





lunedì 15 giugno 2015

POESIA: LEVITÀ E DIROMPENZA NEL VERSIPELLE DI LOGOPEA







Leggera, incantevole, insinuante nei versi leggiadri, oppure dirompente, con ganasce che spezzano i luoghi comuni e artigli che incidono segni permanenti nelle coscienze: multiforme e multifunzionale, la Poesia alletta l’animo, sconvolge il pensiero, illumina, ammonisce, prevede in forza della duttilità dei suoi motori, costantemente oliati, costantemente allerta. Rovista nella verità e afferra grumi di saggezza, richiede fede ai suoi adepti e studium, recherche senza soluzione di continuità. Per Pasquale Martiniello l’attività poetica seria esige una fatica equiparabile al lavoro duro e pertinace nei campi; la Gnerre avverte che l’attività poetica, resa sempre piú difficile dalla accresciuta necessità di ri-trovare o di re-inventare un tono, cavalcando il purosangue di un linguaggio che scalpita, desideroso di equilibrio fra estetica e nerbo contenutistico, è un impegno inderogabile, un remare contro i flutti o i gorghi delle appiattenti convenzionalità, uno sforzo non indifferente per esiliare banalità e “già detto”. Martiniello impartisce una lezione mordace e scorticante, ritenuta fastidiosa da tanti ignavi o ignoranti, anche e soprattutto nelle scuole, dove imperversa una docenza pigra, annoiata, demotivata. Ogni tanto un liceo tenta di sollevare la testa e indíce una annuale e frettolosa kermesse ove si affastellano alla rinfusa nomi noti o per sentito dire, e gli allievi, more pecudum, recitano il loro ruolo di artificiosi amatori/conoscitori di un genere che resta loro avulso da genuino interesse, e nel quale (in questo uniti ai loro insegnanti) non sanno barcamenarsi. Intanto, rullano inutili tamburi, si gonfiano petti a tacchino, rotolano polpette di retorica, mentre altrove, “altri” perseverano in quel che da decenni hanno intrapreso e mai abbandonato: Giuseppe Vetromile, Domenico Cipriano, Paolo Saggese, noi stessi. Monia Gaita e diversi  poeti onesti vorrebbero se non raffrenare, per lo meno indirizzare, guidare –ma senza bacchette ex cathedra–  voci poetiche acerbe, imperfette, bisognose di stimolo per un futuro riscontro di conferma o di caduta, piú che dell’assenso entusiasta di critici intemperanti che a volte, ammaliati da un bel visino e da modi geishiani, si lasciano prendere la mano perdendo la giusta misura e la cautela riservata agli esordienti: e in questo compito delicato e cautelativo non sono soli, li appoggiamo incondizionatamente.
Il Versipelle, zitto zitto (si fa per dire), ha raggiunto quota 19 incontri, e casualmente sottolinea la meta proprio in un venerdí che ha data 19: augurio o scaramanzia o entrambe le cose. I poeti invitati sono Angela Procaccini (toccata da una vicenda familiare dolorosissima), Lucia Gaeta, Marco Parisi, Marciano Casale, Gennaro Iannarone: ognuno compie un incompiuto voyage in se stesso, mettendo a nudo anche ciò che oltre e sotto le parole espresse s’annida. Il non detto, sovente più esplicito di una confessione, di un grido.
Oscar Luca D’Amore torna ai cari e mai tralasciati temi pirandelliani, immergendosi in uno dei suoi pezzi forti: L’Uomo dal Fiore in Bocca; Antonio Mazzocca esordisce in un cimentante monologo di Cechov, tratto da Ivanov; Hera Guglielmo e Alessandra Iannone ripetono l’esperienza del personaggio in comune, come per l’Oreste “condiviso” da Davide Cuorvo e Mazzocca: saranno Ersilia Drei, la sensuale governante di Vestire gli Ignudi, divorata dal senso di colpa, e infine suicida. Iannone, Cuorvo e Mazzocca sceneggiano un morceau torrido di Spoon River (Edgar Lee Masters): Dora Williams, ragazza bella, scafata e priva di scrupoli, fino al coronamento di pragmatici progetti di ricchezza e dolce vita; forse omicida, troverà la sua nemesi in un Conte più “Navigato” di lei… La coppia Iannone/ Mazzocca guadagna il suo sbocco meritevole e meritato, riscattando trascorsi e presenti in cui veniva/viene costantemente confinata in sfacciate e vergognose retrovie, a vantaggio di attorucoli impreparati, presuntuosi e patetici, schiaffati su un palco per convenienze e oscuri accordi, o per sventatezza imperdonabile degli organizzatori. Autentici maestri come la storica coppia di attori/formatori Nisivoccia/Senatore si rivolterebbero con sdegno e restituirebbero immediatamente alla loro dignità questi due talentuosi ragazzi. Pezzo carismatico, disturbante e di prepotente cifra emotiva, Mamma Morfina, di Eros Alesi, sarà replicato visto il precedente successo. Davide Cuorvo ne indossa perfettamente i laceri panni, fa vibrare tutte le corde emotive a sua disposizione, attanaglia il pubblico. Altre due coppie, Mena Matarazzo con Michele Amodeo, ed Ilia Caso sempre con il poliedrico studente-modello, intrigano e divertono interpretando Viviani (Bammenella a due voci) e ancora Cechov piú Goldoni (Orso & Locandiera).

                                                                                                        LOGOPEA





Armando Saveriano
Davide Cuorvo





Gennaro Iannarone
Lucia Gaeta
















Marciano Casale
Marco Parisi















Angela Procaccini

sabato 13 giugno 2015

MARIO MORELLI AL TEMPO DI LEDA



Un bioritmo scarselliano per la mitica metafora






Scartabellando tra gli annosi fascicoli che, in casa nostra, accumulano polvere di saggia (provvidenziale) conservazione e nutrono generazioni di vivacissimi ‘pesciolini d’argento’, è saltata fuori, proprio mentre di Mario Morelli ci occupavamo, una nostra recensione sul suo primo libro di poesia, “I Fuochi di Leda”.
L’articolo venne pubblicato sul quotidiano Il Roma nel lontano 30 ottobre 1996, e noi, che crediamo un po’ nelle coincidenze e molto di più nei ‘segni’, lo riproponiamo su codesto blog tal quale come apparve, anche per fare giusta quadratura del cerchio sulla poetica del maestro di Grottaminarda, medico e alchimista della parola lirico/epica.
“ La giovane Casa Editrice Delta 3 presenta, con Mario Morelli, il primo poeta degno di interesse, se si solleva un’eccezione per Antonietta Gnerre. Anche la grafica di questa silloge denota gusto e maggiore professionalità. 
Mario Morelli è inclíne ad un bioritmo scarselliano, che ci rimanda, appunto, al romanzo lirico del poeta fiorentino ‘Torbidi amorosi labirinti’ e più ancora al poema ‘Pavana per una madre defunta’.
Un verso colto e giocoso, che carezza un barocco ammodernato e che ammicca ad un metalinguaggio cesellatore, filosimbolista, disobbediente a tentazioni d’ardita indecifrabilità. Sicché il linguaggio infiorettato ma esente da smerlettature tediose ci fascina e non ci respinge, né c’invischia nel labirintico sperdersi fra rovi di parole troppo impreziosite, troppo smerigliate. L’eleganza e la suggestione vengono tuttavia raffrenate dall’abuso di esclamativi, che persino la liberalità del verso maltollera, a causa del potere retorico che l’interiezione incontrollata può effondere.
La fenomenologia dell’io poetante rimane sospesa tra essenza materica e tensione verso il mito e il sogno d’impronta a tratti wagneriana. Testori e Celine appaiono i referenti più immediati di Morelli, nato a Grottaminarda e laureato in medicina e chirurgia. E riecheggia, in non pochi tratti lirici, l’istanza psicodolenziana di Patrizia Valduga, giacché essi hanno atmosfere da poemetto e reggono senza eccedenze, a parte il veniale peccato di una garbatissima, qua e là sottesa o esplicita infatuazione della parola. 
Perché la metafora del mito di Leda? 
In fondo la copula col cigno eccita la fantasia senza turbare il sonno: è una melodia di acque e sospiri, di nitore e di struggente dono dei giorni virginali trascorsi fra ingenue illusioni e affioranti, misteriosi imbarazzi. 
Dal quasi innocente e pittorico connubio fra la vergine e il nume-cigno scaturirà l’uovo delicato e decisivo da cui erompe la bellezza irresistibile, umana e mortale di Elena.
I fuochi non sono il possesso del sapere e del modellare un pensiero-sentimento, un’emozione-energia, verso impervi, sfrontati sentieri che potrebbero condurre al perfettibile? O alla caducità in forma di parola?
Partecipi, il poeta Mario Morelli, a meno concorsi e si affidi di più all’impegno solitario, discreto, nobile, della ricerca del logos, della ‘bella eleutheria’ cui sembra predestinato. Gli auguriamo le migliori fortune.”
E cosí si è verificato. Il poeta di Grottaminarda si è astenuto dai certamina e da ogni gara di presenza, non ha infoltito i pellegrinaggi ad eventi mondani, finalizzati a farsi vedere dal critico alla moda o dal santone che dirige riviste di prestigio o frequentemente vi appone la firma, come fanno in tantissimi, soprattutto poetesse che predicano bene e razzolano male; si fanno venire ogni sorta di malore quando a loro conviene astenersi, e risorgono dalla fossa di Lazzaro ogni qual volta annusano il convegno ‘giusto’, che da un lato contribuisce a ri-affermarle come protagoniste del canone letterario (secondo loro), dall’altro consente un contatto ravvicinato con l’eccelso personaggio di turno, che tentano di indurre (nelle manovre lecite o grazie agli artifizi piú maliziosi) a prefare i loro inediti o ‘ristampandi’ carteggi.
Mario Morelli è fuori del coro, ancor piú –qualora fosse possibile– di Annamaria Gargano, la quale comunque non di rado aderisce a progetti scolastici; l’ultimo, organizzato nel maggio appena sgocciolato via presso il liceo classico ‘Pietro Colletta’, diretto dalla rusticana preside La Pietra, e caldeggiato appassionatamente dalla intraprendente prof.ssa Sacchetti (che tuttavia snobba Wanda Marasco e il Versipelle), in opportuna e rapidissima aderenza alle nuove norme didattiche, le quali prescrivono lo studio più attento e completo del Novecento agli insegnanti di discipline umanistiche, abituati a fermarsi a Montale, appena citando Pasolini e ignorando mostri sacri come Amelia Rosselli o Vittorio Bodini (per non parlare degli stranieri), ha visto, tra qualche frastuono e inciampo dovuto ad assenza di direzione artistica, gli studenti alternarsi al virtuale podio per pappagallare sulle schede critiche (elaborate dai professori e spacciate per proprie) e declamare, senza dizione e senza la minima impostazione ‘comme il faut’ (fatta eccezione per un morbido e dinoccolato giovanottello dalla zazzera ‘scapigliata’ che segue gli insegnamenti dell’ottima attrice/preparatrice Ilaria Scarano, e per un paio di nostre ex socie logopeane, peraltro transfughe vigliacche e maleducatissime ingrate, che qualche reminiscenza dei nostri sforzi di emanciparne la sprovvedutezza hanno conservato), morceaux piú o meno lunghi, piú o meno (da noi) risaputi, con l’accompagnamento musicale di Sofia Santosuosso e quello canoro di tre colleghe, di cui ci sfugge al momento l’identità: bravissime tutte, comunque, le fanciulle.
Va aggiunto che l’associazione culturale Logopea organizza, tra “Il Versipelle”, “Librazioni” e “Hystrio”, all’incirca una quarantina di eventi all’anno; e non un unico, striminzito, babelico ‘omaggio’ in chiusura d’anno scolastico, ai fini di dimostrare, starnazzando vivacemente nel megafono, attenzione, dedizione, competenza conoscitiva del corpo docente in materia poetica e sete di crediti da parte degli allievi, improvvisamente rivelatisi, dalla notte al giorno, fan di strofe e sonetti,  agguerriti e consapevoli estimatori di Cristina Campo, Vivian Lamarque, Luigi Fontanella, Milo De Angelis, Maurizio Cucchi, Ciro Vitiello, Gregorio Scalise, Nanni Balestrini, Valerio Magrelli, Giampiero Neri & Compagnia bella…E nonostante sia di diritto tra le massime autrici, Annamaria Gargano non è l’unica poetessa in Irpinia. Cosa sanno queste insegnanti e questi ragazzi di Claudia Iandolo, Antonietta Gnerre, Rosa Di Zeo, Monia Gaita, Giovanna Iorio, Agostina Spagnuolo?
Mario Morelli ha preferito, nel tempo, coltivarsi per tracciare, nella sua poesia autentica e pregevole, ipotesi di vita senza fissità di suggello, rivendicando un’autenticità che altri s’ingegnano malamente a confezionare e a spacciare in versi in realtà sfibrati e sfilacciosi. Nei tre libri che sul blog abbiamo esaminato, il medico-poeta ha stabilito la propria residenza etico-letteraria e ha inciso la sofferta identità di scrittore –tra fragilità, mescolanza di eros, disinibizione e ‘piccanteria’, ricordi primèvi, realtà delle radici personali, induzioni antropologiche, bivî, morsi/rimorsi, certezze discolpate e dubbi colpevolizzati, rivendicazione di forza e di re-sistenza, sgusciante debolezza di fronte al Mistero, carezza verbale e scatto d’arsura emozionale-.
La poesia, in fondo, è questo: un colloquio con se stessi (nei varî gradi di schiettezza e di confessabilità) e un soliloquio (nelle altrettanto sfaccettate possibilità di denudamento) di fronte all’incuriosita concentrazione dei lettori.

                                                                                       ARMANDO SAVERIANO 



MARIO MORELLI –I FUOCHI DI LEDA –ED. DELTA 3 –GROTTAMINARDA (AV) – I EDIZ. 1996 –PP 94 – L. 10.000



BIMBA

La luce della notte
assorbe la tua immagine:
ti sognavo meno bella
bimba assaporata
sulle sporche rampe;
ti impenavo come fuoco
attorcigliandoti tra
le mie forti vampe!
Vaga ora la tua natura
persa è la mia memoria:
ho finito di giocarti
sei scomparsa
persa è la mia storia:
ho finito di stamparti
sei morta!
Ora giochi sola
per l’ombra antica
della tua favola
e mi hai negli occhi
quando ti dai
e con la bocca candida
sorridi frivola!

*

RISVEGLIO

È in me la paura di me
sprofondo manmano nel nulla,
alle spalle ho immagini, volti,
e agli occhi si leva l’alba
che mi saluta con la sua gioia fasulla!

*

LA MADRE

Madre: m’ami come
d’ardore io ti respingo!

*

IN ME

In me vedrai come si perde
quel che tu ancora chiami amore!
In me vedrai spegnersi la luce del cuore!
Vedrai come rovina la speranza
e io le dico addio in lontananza
come se non fosse mia
come se fosse da mille anni andata via!

*

I FUOCHI DI LEDA

Se Leda canto
alle piccole ore:
gemendo vengo
e nel sole mi asciugo!
I cristalli della mia libido
persi per ciottoli e macchie:
per l’amore d’amante infído
mi strappo la pelle dal cuore
della sanguinolenta lotta
e alla stretta di mano
solo della morte mi fido!

*

LA BALLATA DELL’UOMO IN GENERE

Chiuso nel cappotto nero:
è tanto tempo che aspetta!
Si poggia al tronco severo
e scorda pure la sua fretta.
È chiuso dentro il suo pensiero,
fugge ancora un’altra vetta,
perché sa inutile
la sua vita, e più inutile
la sua giovinezza!
Sta ancora laggiú dove
un mondo non si staglia,
dove il sole spacca le cove,
dove le mucche rifiutano la paglia,
che mai piú se ne allontanerà
del tutto, perché la sua vetta
è un sogno del tutto superfluo,
il sogno di una vita superflua,
senza nemmanco
una piccola carezza!

MARIO MORELLI



Mario Morelli



mercoledì 10 giugno 2015

MEMORIA E COSCIENZA ETICA NELLE ELEGIE DELLA GNERRE



L’ultima plaquette di una poetessa dalla efflorescente ecceità eclettica






Foglie, gemme, arbusti, cespugli, rami, vegetazione, soprattutto alberi, nel sotteso trionfo di Cerere, che stringe per mano la ctonia Tellure, la Terra  (anche nell’accezione di fecondità femminile). “Voce tra gli alberi”: cosí definisce Davide Rondoni la poetica di Antonietta Gnerre, che dà alle stampe una raffinata plaquette, edita da Progetto Cultura, nello scrigno dei Quaderni di Poesia, Collezione selettiva curata dalla pertinace Cinzia Marulli Ramadori.
La Gnerre, perfusa di energia spirituale, qui è magnetica e pagana, ancestrale: Arnold Böcklin, allievo di Schirmer e di Calame a Düsseldorf e a Ginevra, l’avrebbe raffigurata come una vestale della natura ne ‘Il bosco sacro’, circondata da ninfe silvestri (le parole) e piccole creature scaturite dalla lignea scorza di faggi, querce, pini (le felici facoltà combinatorie). Ella medesima simpodiale, innesta poièsi a spirto, principio immateriale che investe coscienza e vita: di volta in volta uno dei due ‘rami’ sembra più lungo rispetto all’altro, suggerisce l’ingannevole presenza di un braccio principale, che di fatto non c’è; è simulazione: nessuno dei due prevale, poiché, oltre l’impressione di una propaggine centrale dalla quale s’originerebbe la secondaria, la mescolanza tematico-argomentativa è squisitamente bilanciata. Anzi, proprio la biforcazione è apparente. Effettivo è l’intreccio indissolubile. Inscindibile.
L’albero, del resto, si presta al mito e al sogno rifacitore del mito, per etimo e atavismo, a partire dalla rappresentazione cosmologica delle culture sciamaniche: l’universo, rappresentato come ‘trimundio’ (cielo, terra, alveo/favo/utero sotterraneo) è attraversato da un ‘pilastro’ a foggia d’albero/fallo, che consente allo sciamano di ascendere al firmamento, il regno superiore.
Nel Medioevo, la figurazione dell’albero genealogico (successione sul tronco e all’incrocio dei rami dei componenti d’una famiglia ab origine) si sposa con quella dell’‘arbor vitae’ (di già nell’arte paleocristiana), da cui scaturí ‘l’albero di Iesse’, l’albero genealogico di Cristo, nato da una vergine della stirpe di David, figlio di Iesse. L’albero s’innalza proprio dalla figura supina di Iesse, mentre dai rami sorgono le immagini dei re di Giuda (tribù d’Israele, dal nome del personaggio biblico –non l’Iscariota–, quarto figlio del patriarca Giacobbe; da cui, a loro volta, i Giudei)  tra i quali David. In sommità, l’immagine apicale della Madonna col Bambino. D’altronde, l’Albero del Bene e del Male nel libro del Genesi produce il pomo proibito e si fonde, per biblica tradizione, con l’Albero delle Scienze, i cui frutti, raccolti dal primo uomo, determinano nelle generazioni la colpa di accesso alla sapienza e conoscenza, esclusivo appannaggio del solo Dio (immediato e scontato il parallelo con il fuoco dell’intelletto, delle arti e delle scienze, donato da Promèteo all’umanità, e sottratto al Padre Zeus).
La Memoria, il Dono del Dare e la Mistica Custodia delle ancillarità verso la Natura Vegetale, traslato dell’Umano, sono i temi conduttori che si evincono dai ricordi ‘dovuti’. ‘Dovuti’ in quanto riscatto dall’oblio (l’umanità tende a dimenticare) e patrimonio irrinunciabile cui fare omaggio di tutela, trasmissione/obbligo morale. Ricordiamo che gli Stoici intesero con ‘dovere’ la nozione di comportamento in conformità al dettato della Ragione, principio divino dell’Ordine Cosmico (fino a Kant, per il quale è atto intrapreso nel rispetto della Ragione). In Fichte il concetto kantiano diventa il fondamento dello sviluppo teoretico dello spirito: il mondo sensibile trova scopo solo nell’adempimento dell’obiettivo morale. Mentre Croce, Gentile e Bergson, neoidealisti-spiritualisti, abbracciano la nozione di ‘dovere’ come necessaria aderenza ad una norma universale, Bentham vi oppone la forza altrettanto necessaria dell’utilitarismo, fondata sull’interesse. 
La Memoria dà luogo a un sapere inconscio; la ‘mnème’, in Platone, con l’immagine dell’anima come blocco di cera disposto ad accogliere e ‘ritenere’ le impressioni, è un serbatoio di conoscenza. Conoscenza delle idee 
come reminiscenza di un sapere che l’anima avrebbe acquisito nella precedente esistenza (anàmnesi). Aristotele riprende il tema, distinguendo la Memoria come funzione che fissa in immagini i dati del senso, e la Reminiscenza come la ricerca/movimento di quelle immagini (memoria in quanto serbatoio di rappresentazione di derivazione sensoriale). Plotino, nelle “Enneadi” fa della Memoria un’attività di assoluta pertinenza dell’anima, che, realtà spirituale e intemporale, non ricordo, ha una visione continua percepita come ‘ricordo’ nella coscienza temporale, mentre non è che l’oggetto della visione. Secondo Locke è solo il potere di rivivere percezioni già avute. Bergson parla di una memoria ‘pura’, luogo psico-spirituale in cui si conserva in maniera virtuale l’intera vita vissuta; le funzioni cerebrali ricavano poi i singoli ricordi e i collegamenti fra di essi. Bertrand Russell in “The Analysis of mind” definisce la Memoria come una parte della nostra conoscenza del passato; il ricordo un sentimento di credenza che accompagna un’immagine mentale di derivazione sensoriale. G. Ryle afferma che il ricordare non implica un’immagine mentale, una peculiare visione, ma una capacità di riproduzione di ciò che si è visto, sentito, provato. Per Wittgenstein le nozioni di Memoria e Ricordo rinviano alla capacità acquisita di usare espressioni linguistiche a fine comunicativo.
La Memoria ‘a breve termine’ soggiace all’oblío mentre la Memoria a ‘lungo termine’ è dotata di maggiore resistenza. Ha un carattere più o meno ‘gestaltico’, la capacità di categorizzazione cognitiva, il cosiddetto ‘clu- stering’.
Eppure, aggiungiamolo, anche l’oblío gioca una funzione niente affatto sottovalutabile: spetta ad esso mantenere costante l’equilibrio psicodinamico, mediante la rimozione di contenuti mnestici incresciosi e disaccetti o tabuizzati.
Nel campo letterario (come tacere di Proust?), una narrativa della memoria, promossa dalla rivista ‘Solaria’, fiorí nel nostro Paese negli anni delle due guerre (le scrittrici Manzini/Banti). Una letteratura introspettiva, analitica, vagheggiante, fertile di rimandi alla natura, all’anima delle cose, piú sensitivo/sensoriale che logica.
Agli inizi della carriera poetica, agli esordi della percorribilità del suo cominciamento, non mancammo di notare e di annotare una positiva tendenza in Antonietta Gnerre all’annunciazione di una inedita espressività autoriale, che ella avrebbe corroborato nell’insistenza e condotto all’affermazione, scollando progressivamente i nessi comuni e le comuni significanze figurali, in facoltà di docili e decisivi ribaltamenti senza scardinature o frastuoni.
La poetica di Antonietta Gnerre sintetizza hic et nunc nello stile e nei contenuti, i concetti, i principii, la mistica e l’estetica di questo nostro excursus filosofico/antropologico, una virtú che trascende la contemplazione per irraggiarsi in testimonianza diretta, trasparente o ancípite, attraverso una straordinaria operazione di mimèsi. Ella arriva a riprodurre se stessa, nei passaggi di evoluzione coscienziale animistica, facendo fruttare le contraddizioni e i compromessi in vista di una mèta alta, attingendo dalla foresta delle suggestioni allegoriche piú efficaci e potenti, sempre filtrate, per gusto e per istinto, in un apparato di semplicità catturante. Si muove in una sorta di limbale sospensione tra fisico e metafisico, tra amore primevo, radicato, perseguito, sublime e  contemporaneamente ‘effrayant’ (quindi malgré soi ‘maudit’) e dissidio metapoetico con lucidità diremmo gnomica, alimentandosi di ora ignee ora equoree-amniotiche percorrenze o riaffioramenti precisi, quasi in ‘esprit de geometrie’, come alle pagine 12/19/20/23/25/28/30 (cui nello specifico rimandiamo). Pagine chiaroscurali, le sue, dettate da un io ‘daimonico’, un io che swedenborghianamente si reifica in un mediatore coscienziale pronto a cogliere e rivelare i segnali segreti di un mondo che non si manifesta solo nel visibile e nell’immediato, in una tensione alla soteriologia rigeneratrice qui non circonchiusa necessariamente in dottrine religiose tradizionali, ma piuttosto nelle dinamiche trasmutanti, ineffabili, della Dea/Natura, dell’Ecceità/Natura. 
Nell’economia del libretto Gnerre non evoca/invoca/esalta Lilith, come in Sororità fa la Iandolo, ma si rende seguace, dopo iniziatico apprendistato, di Cèrere/Demetra/Tellure (Tellus Mater), esplosione di rigoglio ed espressione di rinnovo, fra infinito e indispensabile finitudine, passando, con inevitabilità quieta (e quietamente terribile) per l’arco basso degli spini di una tribolazione decantata nell’erratico sgomento esistenziale, pronta a carismaticizzarsi in quella tensione alla libertà depurata durante il costeggiare e grazie al costeggiare il fiume eracliteo, che tutto trasporta in sé, con sé: il costruente e il destruente, il tocco della grazia e l’ageusía del Bene, il diaspro dei valori e l’osteoporosi degli ideali, la fede e la sfiducia, il voto pudíco e il singulto dell’errore, l’estasi e l’abisso, la pietà e l’ordalía, la fusione e l’antanàclasi, l’inclinazione liliale e la neoplasia del peccato, l’irremissibilità e il perdono.
            
                                                                                               ARMANDO SAVERIANO



ANTONIETTA GNERRE – I RICORDI DOVUTI – ED. PROGETTO CULTURA – 2015 – PP 32 – EURO 6



Sono una donna in cerca di parole
che vivono il pianeta, il suo mistero.
Il vento taglia, senza far rumore,
le ombre dei fogli bianchi.
Gli alberi germogliano
per inventare nuovi nomi
in questo quaderno della vita.
Sono una donna in cerca di parole.
Perché non ho mai saputo vivere senza sofferenza.
I milioni di anni che vivono dentro la mia mente,
quando si stancano di stare da soli,
diventano il mio disastro.

ANTONIETTA GNERRE




Antonietta Gnerre
Davide Rondoni



mercoledì 3 giugno 2015

MATERIA POETICA E ARTISTICA CONSAPEVOLEZZA IN MORELLI



REMINISCENZE, SCOPERTE E COMBUSTIONI DI UN POETA CHE SEMBRA NASCERE NEL E DAL SUO STESSO LIBRO: MARIO MORELLI E L’INCONTROLLABILE MOVIMENTO DELLE PASSIONI, LE TEMPERATURE E LA TEMPRA NEL SOSTRATO DELLA SCRITTURA, ARDITA PER SINCERITÀ E PER GRAFFIO






Ugo Morelli sintetizza la poetica di Mario, suo lontano cugino, in una sorta di exergo che ha la spezzettatura in versoprosa, e ci trova d’accordo sulle osservazioni relative a “Nistagmi”, un libro che è già divenuto una rarità, dopo che la casa editrice Nicolodi (evidentemente onesta) ha dovuto dichiarare la resa, di fronte a giochi di mercato trituranti e implacabili.
Illustrato dalle foto di Carla Weber, istantanee del mondo rurale, vegetominerale, che aprono la sensazione di solitudine alla peregrinazione erratica, “Nistagmi” è un volume  attestante, intriso di ‘Sehnsucht’, la cui filtrata accezione intrude lo struggimento all’anelito, il nostos e il rimpianto al desiderio compresso di dare compagnia ad una poesia che l’autore dichiara ‘esule’; una poesia dall’afflato denso come un cielo plumbeo, e lieve come un vento che erode dalla vòlta tutto l’azzurro. 
Eppure, dallo stile frammentoso, essenziale, emergono suono e senso del fluire, un’aria/acqua del pensiero e del petto che scorre in un misticismo panteistico della terra e del grembo madre/amante con una sensibilità dimostrativa che è forza di persuasione intima e visiva, ai lettori deposta in una spasella di segni allusivi intrecciati, come dono pagano.
Evade la sistematicità della metrica, per quanto il verso moduli, senza ostentazione, costante lume musicale, che in qualche modo fa da contraltare al crepitío di pietrisco e allo scricchiolare dell’erba brinata sotto le suole non appena il testo arriva alla sua ossatura o raffrena il flusso in vista di una chiusa che pare voler disinnescare la tentazione di un vero e proprio apologo verso uno ‘ieri’ che non cessa. Morelli onora, rispetta le tradizioni, ma non ne fa un’occasione veterotestamentaria.
“ passa attraverso me/vento inquieto del nord/ti caricherai di pensieri/pascolati a versi/di vedute perdute/in una contrada rifatta/a pitture di colori sommossi/che accecano nell’alba”
“i bambini delle Filette/contano gli acini di pioggia/che rigano il vetro su in soffitta,/non hanno mai tempo inutile/per giocare con le pallette,/laceri e mocciolosi sfidano i topi/e le loro piccole cacchette.//stroccano gli anni felici/e corrono indietro ai buoi/che ingustano le trocchie.”
Nella fenomenica del suo verso, stringato nella forma, esteso nel significato, Morelli ha colpo d’occhio vivido, essenziale, mantenendo un movimento evocativo che non si concede al creazionismo romantico, ma che non scosta da sé la sensualità: “…apron al cuore/le signore le/loro gambe:/fuori la polvere/di foglie arse/dentro l’orgasmo/ delle giovinette/tinte da poco/tra le gambe/di nuovo rossetto:/è il menarca/della gioia,/murata la vita/in cenere e/baciata da/due baffi corsici/o sardi che/han tra le gambe/la vera ricchezza.”
La bruma tanàtica che talora sorge dalla componente ctonia e s’avvince ai polpacci è piuttosto la presa di coscienza (o il timore) che la fine di un amore dato male si approssimi e devasti ancor più l’isolamento del poeta quieto in superficie e turbolento nelle viscere tòrte; sicché, partendo dall’ “innamórati di me/della mia pantomima/ho mani nervose sul piano/ho un alito di voce che sbrana”, perviene al “geme, nel tuo cuore/la parola dice “amore”/l’amore che mi hai dato/l’amore che ho perso.//greve, resta fuori/un soldataccio che/ha battagliato solo/e ha conquistato palmo a palmo/la luce nei tuoi occhi chiusi.//speme, nel mio giorno/amore di tutte le cose/l’amore che mi approfitto/l’amore che non ti ho saputo dare.”
Il tema dell’inadeguatezza a dare è ricorrente nel poeta e ronza inaudibile nel suo interior, sicché egli si interroga su quale sia il modo migliore…ammesso che un modo esista…di rapportarsi alla vita; e lo fa in riflessioni ora secche ora trasognate, con ficcanti momenti che si cristallizzano nella scrittura. Sembra che la sua vita paghi con la forzatura della vita stessa, che lo ha esiliato e segregato, periclitante, in una dimensione d’ignoto da cui si può evadere solo con la potenza taumaturgica della parola, che perlustra il mistero, saggia il segreto e fa intravedere un barlume di soluzione…benché illusoria; perché il mattino arriva (troppo) presto e svela la natura effimera, transitoria di sogni che sono apparsi allettanti e attendibili, veridici. Sullo sfondo di una natura che sovente sconcerta, punge, morde, abrade e brucia, fa capolino il torrido demone del sesso:  aderisce, ingordo e per niente dissimulatorio, al verso scottante di braci e di afrori; quand’ecco che audacemente l’io poetante, preso dal ‘trip’ del suo viaggio, com’egli stesso lo definisce, descrive l’intrusione di un dito femminile laddòve palpita un orifizio imbarazzante per il maschio etero. Ma anche tra i viluppi e gli stordimenti dell’eros fa capolino quell’insoddisfazione, quell’agra malinconia che parla di anime sperse, prive di bussola o di sestante, quelle creature indistinte e indefinite forse anche ormai stanche di identità e precisa collocazione nel mondo e nella società; anime in cui il poeta si riconosce, con le quali condivide il vuoto incolmato o l’incolmabilità del vuoto.
L’inadeguatezza a dare (amore) che si rimprovera è tuttavia meno, molto meno preclusiva dell’inadeguatezza a vivere, che era un motivo dei crepuscolari e degli esistenzialisti più incupiti e introiettati nel pessimismo nevrotico. La chiusura della raccolta è affidata a versi spietati come un cilicio, permeati da un senso di larvale autocompatimento non lamentoso, quale un breve singhiozzo, un umidore d’occhi: il poeta si sente tradito da un quid che forse è predestinazione, un quid che lo ha deprivato e scagliato nell’amnio della vita sotto le lame incandescenti del continuo andare, soffrendo in privato lo scotto dell’angoscia: feto incompleto, raggrinzito nell’incapacità/impossibilità di sottrarsi al rachitismo metaforico, alla crescita negata. Almeno nelle sconnessioni dell’autostima e per quanto attiene al ricordo. Un ‘piccolo me’ oltretutto in lite e in forte contrasto con la pars emotivo-affettiva. Ed il suo non è un fugace stato d’animo, è una concrezione di percetti nel profondo; egli si sente assediato e impedito dagli intralci delle relazioni sociali, mortificate e rese deplorevoli
da generazioni che hanno volentieri perso di vista la purezza delle mète, l’onestà nella conquista del traguardo meritato, e non consegnato dal becero compromesso. Beninteso Morelli non è un moralista e non si atteggia a poeta esclusivo, nonostante la sua cifra entri nel canone della migliore poesia irpina, accanto ai nomi di  Pasquale Martiniello, Daniele Grassi, Claudia Iandolo, Monia Gaita, Antonietta Gnerre, Raffaele Stella, Domenico Cipriano, Annamaria Gargano, Giuseppe Iuliano, Gennaro Iannarone, Agostina Spagnuolo. In tal senso egli è un ‘major poet’, come l’avrebbe definito un tempo W.H. Auden, e di seguito Luzi e Raboni avrebbero approvato e concordato. Definizione gentilmente contestata e respinta dal poeta, per come noi lo conosciamo: ritroso, restío, non arruolato in nessunissimo schieramento, avulso da ansie di affermazione; semmai coltivante questa sola aspirazione: fare buona poesia e trovare un uditorio di fruitori interessati e intelligenti. L’atteggiamento di Morelli è prudente, addirittura dimesso. È, sic et simpliciter, scelto, ‘toccato dalla Poesia’, un’investitura laica e pagana di cui non è interamente consapevole: giustamente rimettendosi al parere e al gusto di chi, con sensibilità sapiente, sappia discernere il valore e il conio. E non certo quell’abilità artigiana, ben differente e lontana dal talento, che molti scambiano o fingono di scambiare per originalità. È difficile e insolito che un poeta, con il suo logos, si imprima nella memoria delle generazioni (la ‘vecchia’ e la contemporanea). C’è perfettamente riuscita Assunta Finiguerra, l’hanno fatto Gabriella Maleti, Giuseppe Vetromile, Floriana Coppola, Domenico Luiso, e dalle pagine di Hyria, dai tour itineranti di “Simbiarte”, Aristide La Rocca. E Morelli attraversa il nuovo secolo con il suo struggimento, con la sua angoscia, con l’ombra costante dei disagi, col suo nitore tormentato, diretto e caustico, come la beltà d’un’epidermide qua e là sbucciata, contusa. Luminosa.
“piccolo me spietato/verso il mio cuore/piccolo me rubato/all’onda del mare/piccolo me buttato/in pasto al sole:/nato e beffato/non cresciuto.” 

                                                                                                ARMANDO SAVERIANO



MARIO MORELLI – NISTAGMI – NICOLODI ED. ROVERETO (TN) 2004 – PP. 84 € 10,00



insegnami a muovere bene
le mani sul tuo corpo
accendere le candele
dei tuoi affanni
scorrano le tue lacrime
come rio impetuoso
perché l’odio per te
è tutto il mio amore
che non si finge.

*

fatti nuda
sotto la pelle
nistagma
il tuo gesto
fermato
sul mio ramo
corrompi
il giglio incupito   
che monta
dal tuo corano
è l’arma insicura
della tua vita.

MARIO MORELLI



Mario Morelli