mercoledì 10 giugno 2015

MEMORIA E COSCIENZA ETICA NELLE ELEGIE DELLA GNERRE



L’ultima plaquette di una poetessa dalla efflorescente ecceità eclettica






Foglie, gemme, arbusti, cespugli, rami, vegetazione, soprattutto alberi, nel sotteso trionfo di Cerere, che stringe per mano la ctonia Tellure, la Terra  (anche nell’accezione di fecondità femminile). “Voce tra gli alberi”: cosí definisce Davide Rondoni la poetica di Antonietta Gnerre, che dà alle stampe una raffinata plaquette, edita da Progetto Cultura, nello scrigno dei Quaderni di Poesia, Collezione selettiva curata dalla pertinace Cinzia Marulli Ramadori.
La Gnerre, perfusa di energia spirituale, qui è magnetica e pagana, ancestrale: Arnold Böcklin, allievo di Schirmer e di Calame a Düsseldorf e a Ginevra, l’avrebbe raffigurata come una vestale della natura ne ‘Il bosco sacro’, circondata da ninfe silvestri (le parole) e piccole creature scaturite dalla lignea scorza di faggi, querce, pini (le felici facoltà combinatorie). Ella medesima simpodiale, innesta poièsi a spirto, principio immateriale che investe coscienza e vita: di volta in volta uno dei due ‘rami’ sembra più lungo rispetto all’altro, suggerisce l’ingannevole presenza di un braccio principale, che di fatto non c’è; è simulazione: nessuno dei due prevale, poiché, oltre l’impressione di una propaggine centrale dalla quale s’originerebbe la secondaria, la mescolanza tematico-argomentativa è squisitamente bilanciata. Anzi, proprio la biforcazione è apparente. Effettivo è l’intreccio indissolubile. Inscindibile.
L’albero, del resto, si presta al mito e al sogno rifacitore del mito, per etimo e atavismo, a partire dalla rappresentazione cosmologica delle culture sciamaniche: l’universo, rappresentato come ‘trimundio’ (cielo, terra, alveo/favo/utero sotterraneo) è attraversato da un ‘pilastro’ a foggia d’albero/fallo, che consente allo sciamano di ascendere al firmamento, il regno superiore.
Nel Medioevo, la figurazione dell’albero genealogico (successione sul tronco e all’incrocio dei rami dei componenti d’una famiglia ab origine) si sposa con quella dell’‘arbor vitae’ (di già nell’arte paleocristiana), da cui scaturí ‘l’albero di Iesse’, l’albero genealogico di Cristo, nato da una vergine della stirpe di David, figlio di Iesse. L’albero s’innalza proprio dalla figura supina di Iesse, mentre dai rami sorgono le immagini dei re di Giuda (tribù d’Israele, dal nome del personaggio biblico –non l’Iscariota–, quarto figlio del patriarca Giacobbe; da cui, a loro volta, i Giudei)  tra i quali David. In sommità, l’immagine apicale della Madonna col Bambino. D’altronde, l’Albero del Bene e del Male nel libro del Genesi produce il pomo proibito e si fonde, per biblica tradizione, con l’Albero delle Scienze, i cui frutti, raccolti dal primo uomo, determinano nelle generazioni la colpa di accesso alla sapienza e conoscenza, esclusivo appannaggio del solo Dio (immediato e scontato il parallelo con il fuoco dell’intelletto, delle arti e delle scienze, donato da Promèteo all’umanità, e sottratto al Padre Zeus).
La Memoria, il Dono del Dare e la Mistica Custodia delle ancillarità verso la Natura Vegetale, traslato dell’Umano, sono i temi conduttori che si evincono dai ricordi ‘dovuti’. ‘Dovuti’ in quanto riscatto dall’oblio (l’umanità tende a dimenticare) e patrimonio irrinunciabile cui fare omaggio di tutela, trasmissione/obbligo morale. Ricordiamo che gli Stoici intesero con ‘dovere’ la nozione di comportamento in conformità al dettato della Ragione, principio divino dell’Ordine Cosmico (fino a Kant, per il quale è atto intrapreso nel rispetto della Ragione). In Fichte il concetto kantiano diventa il fondamento dello sviluppo teoretico dello spirito: il mondo sensibile trova scopo solo nell’adempimento dell’obiettivo morale. Mentre Croce, Gentile e Bergson, neoidealisti-spiritualisti, abbracciano la nozione di ‘dovere’ come necessaria aderenza ad una norma universale, Bentham vi oppone la forza altrettanto necessaria dell’utilitarismo, fondata sull’interesse. 
La Memoria dà luogo a un sapere inconscio; la ‘mnème’, in Platone, con l’immagine dell’anima come blocco di cera disposto ad accogliere e ‘ritenere’ le impressioni, è un serbatoio di conoscenza. Conoscenza delle idee 
come reminiscenza di un sapere che l’anima avrebbe acquisito nella precedente esistenza (anàmnesi). Aristotele riprende il tema, distinguendo la Memoria come funzione che fissa in immagini i dati del senso, e la Reminiscenza come la ricerca/movimento di quelle immagini (memoria in quanto serbatoio di rappresentazione di derivazione sensoriale). Plotino, nelle “Enneadi” fa della Memoria un’attività di assoluta pertinenza dell’anima, che, realtà spirituale e intemporale, non ricordo, ha una visione continua percepita come ‘ricordo’ nella coscienza temporale, mentre non è che l’oggetto della visione. Secondo Locke è solo il potere di rivivere percezioni già avute. Bergson parla di una memoria ‘pura’, luogo psico-spirituale in cui si conserva in maniera virtuale l’intera vita vissuta; le funzioni cerebrali ricavano poi i singoli ricordi e i collegamenti fra di essi. Bertrand Russell in “The Analysis of mind” definisce la Memoria come una parte della nostra conoscenza del passato; il ricordo un sentimento di credenza che accompagna un’immagine mentale di derivazione sensoriale. G. Ryle afferma che il ricordare non implica un’immagine mentale, una peculiare visione, ma una capacità di riproduzione di ciò che si è visto, sentito, provato. Per Wittgenstein le nozioni di Memoria e Ricordo rinviano alla capacità acquisita di usare espressioni linguistiche a fine comunicativo.
La Memoria ‘a breve termine’ soggiace all’oblío mentre la Memoria a ‘lungo termine’ è dotata di maggiore resistenza. Ha un carattere più o meno ‘gestaltico’, la capacità di categorizzazione cognitiva, il cosiddetto ‘clu- stering’.
Eppure, aggiungiamolo, anche l’oblío gioca una funzione niente affatto sottovalutabile: spetta ad esso mantenere costante l’equilibrio psicodinamico, mediante la rimozione di contenuti mnestici incresciosi e disaccetti o tabuizzati.
Nel campo letterario (come tacere di Proust?), una narrativa della memoria, promossa dalla rivista ‘Solaria’, fiorí nel nostro Paese negli anni delle due guerre (le scrittrici Manzini/Banti). Una letteratura introspettiva, analitica, vagheggiante, fertile di rimandi alla natura, all’anima delle cose, piú sensitivo/sensoriale che logica.
Agli inizi della carriera poetica, agli esordi della percorribilità del suo cominciamento, non mancammo di notare e di annotare una positiva tendenza in Antonietta Gnerre all’annunciazione di una inedita espressività autoriale, che ella avrebbe corroborato nell’insistenza e condotto all’affermazione, scollando progressivamente i nessi comuni e le comuni significanze figurali, in facoltà di docili e decisivi ribaltamenti senza scardinature o frastuoni.
La poetica di Antonietta Gnerre sintetizza hic et nunc nello stile e nei contenuti, i concetti, i principii, la mistica e l’estetica di questo nostro excursus filosofico/antropologico, una virtú che trascende la contemplazione per irraggiarsi in testimonianza diretta, trasparente o ancípite, attraverso una straordinaria operazione di mimèsi. Ella arriva a riprodurre se stessa, nei passaggi di evoluzione coscienziale animistica, facendo fruttare le contraddizioni e i compromessi in vista di una mèta alta, attingendo dalla foresta delle suggestioni allegoriche piú efficaci e potenti, sempre filtrate, per gusto e per istinto, in un apparato di semplicità catturante. Si muove in una sorta di limbale sospensione tra fisico e metafisico, tra amore primevo, radicato, perseguito, sublime e  contemporaneamente ‘effrayant’ (quindi malgré soi ‘maudit’) e dissidio metapoetico con lucidità diremmo gnomica, alimentandosi di ora ignee ora equoree-amniotiche percorrenze o riaffioramenti precisi, quasi in ‘esprit de geometrie’, come alle pagine 12/19/20/23/25/28/30 (cui nello specifico rimandiamo). Pagine chiaroscurali, le sue, dettate da un io ‘daimonico’, un io che swedenborghianamente si reifica in un mediatore coscienziale pronto a cogliere e rivelare i segnali segreti di un mondo che non si manifesta solo nel visibile e nell’immediato, in una tensione alla soteriologia rigeneratrice qui non circonchiusa necessariamente in dottrine religiose tradizionali, ma piuttosto nelle dinamiche trasmutanti, ineffabili, della Dea/Natura, dell’Ecceità/Natura. 
Nell’economia del libretto Gnerre non evoca/invoca/esalta Lilith, come in Sororità fa la Iandolo, ma si rende seguace, dopo iniziatico apprendistato, di Cèrere/Demetra/Tellure (Tellus Mater), esplosione di rigoglio ed espressione di rinnovo, fra infinito e indispensabile finitudine, passando, con inevitabilità quieta (e quietamente terribile) per l’arco basso degli spini di una tribolazione decantata nell’erratico sgomento esistenziale, pronta a carismaticizzarsi in quella tensione alla libertà depurata durante il costeggiare e grazie al costeggiare il fiume eracliteo, che tutto trasporta in sé, con sé: il costruente e il destruente, il tocco della grazia e l’ageusía del Bene, il diaspro dei valori e l’osteoporosi degli ideali, la fede e la sfiducia, il voto pudíco e il singulto dell’errore, l’estasi e l’abisso, la pietà e l’ordalía, la fusione e l’antanàclasi, l’inclinazione liliale e la neoplasia del peccato, l’irremissibilità e il perdono.
            
                                                                                               ARMANDO SAVERIANO



ANTONIETTA GNERRE – I RICORDI DOVUTI – ED. PROGETTO CULTURA – 2015 – PP 32 – EURO 6



Sono una donna in cerca di parole
che vivono il pianeta, il suo mistero.
Il vento taglia, senza far rumore,
le ombre dei fogli bianchi.
Gli alberi germogliano
per inventare nuovi nomi
in questo quaderno della vita.
Sono una donna in cerca di parole.
Perché non ho mai saputo vivere senza sofferenza.
I milioni di anni che vivono dentro la mia mente,
quando si stancano di stare da soli,
diventano il mio disastro.

ANTONIETTA GNERRE




Antonietta Gnerre
Davide Rondoni



Nessun commento:

Posta un commento