Quante
ne ho passate su quella mensola! Circa quarant’anni su uno scaffale ad
osservare le mosche volare sui miei boccoli d’oro impolverati. Sono stata
fabbricata in Messico. Indossavo e indosso ancora un vestitino quadrettato, con
inserti rossi e bianchi. Un grembiule cinge il mio pancino imbottito. Ho due
bottoni per occhi e tante cicatrici, sparse qua e là. Ho anche tante amiche a fianco
a me, anch’esse vecchie e impolverate. Circa quarant’anni fa questa piccola
bottega era aperta. Sentivo il campanellino suonare ogni volta che qualcuno
metteva piede qua dentro. Era gestito da una donnina deliziosa. Vestiva sempre
con pantaloni stretti, talvolta paiettati, anni ’70. La guardavo sempre dalla
stessa angolazione e infatti osservavo il suo grazioso nasino all’insù, sempre
eccessivamente incipriato. Suo marito arrivava sempre in ritardo perché andava
a comprare la stoffa, i nastri e i bottoncini. Loro due erano la mia famiglia.
Ogni
settimana mi appendevano un cartellino: 30 lire, 20 lire ecc. Mi sentivo infastidita
da quel continuo rumore che faceva la nuova macchina da scrivere, che avevano
comprato con tanta gioia. Un giorno però quel rumore cessò. Erano circa le due
del pomeriggio quando la saracinesca sbatté sull’asfalto appena rifatto. Mi ci
vollero due giorni per capire che la piccola bottega “Ago e filo” aveva chiuso. Solo oggi ho rivisto la luce dai miei
occhi, quattro piccoli buchini infastiditi da fili neri che gli passano
all’interno. Avevo sentito il rumore della saracinesca arrugginita aprirsi
nuovamente. Aveva combattuto contro piogge, grandine, neve e fortissime ondate
di calore che portavano sabbia con le leggere pioggerelle estive. La
mogliettina e il maritino erano tornati. Un po’ vecchiotti, con le braccia un
po’ molli e adesso anche loro avevano delle linee irregolari sul viso, proprio
come me. La donnina indossava una gonna larga, forse anni ’80, lui invece un normalissimo
jeans. La bottega “Ago e filo” avevo
ripreso a lavorare.
Un
giorno soleggiato entrò una paffuta bambina. Con le sue guanciotte rosse e un
lecca lecca in mano appariva un po’ buffa. La madre, una donna slanciata, alta
e mora, le teneva teneramente la mano destra, mentre la sinistra stringeva
fortemente una costosa borsetta nera. La donnina con voce educata e dolce
chiese alla piccolina cosa volesse prendere dentro al negozietto. A quel punto
la bambina iniziò a guardarsi intorno come un soldato che deve prendere la
mira, in quel caso il bersaglio ero io. “Voglio quella”, affermò con voce
infantile. Il maritino mi prese per i capelli e disse:” proprio questa?”, e strappò via il cartellino con su
scritto 20 lire. Mi gettò dentro ad un sacchetto odorante di muffa. Uscimmo dal
negozio tutte e tre ma me ne andai con la tristezza di non poter gridare che
volevo rimanere nella bottega. Avevo il mal di stomaco, dato che la buffa
bambina mi faceva volare come se stessi su un’altalena. Arrivate a casa mi
sentivo a disagio. La bambina si chiamava Lauren. Mi portò sopra e mi mise su
una mensola di legno cigolante, potevo osservare solo il suo letto, colorato e
ordinato. Ero arrabbiata, delusa e oltraggiata, i miei amici mi avevano
abbandonato.
Il
giorno dopo il mio arrivo mi sentivo già meglio. Lauren mi dava ogni giorno una
spolveratina urlandomi in faccia: “è
l’ora del bagnetto!”, dopodiché mi inzuppava nella vasca da bagno e mi
appendeva ad un filo nel giardino. Faceva freschetto ma era sopportabile. Mi
riportava nella casetta graziosa e poi mi sbatteva contro la linea curva chiamata
‘bocca’ il cucchiaino di ferro, gridandomi questa volta: “è l’ora della pappa!”. Cosi continuò fino al giorno successivo. Il
quarto giorno cambiò la mia posizione. Adesso mi trovavo nel corridoio. Da lì
però osservavo molte più cose. Scrutavo ogni giorno il padre della bambina, che
con il tabacco si faceva da solo le sigarette. Indossava sempre una canotta
bianca un po’ ingiallita. Aveva tanta peluria sulle braccia. Era sempre
crucciato e sedeva con la schiena curva. A farsi le sigarette passava le ore,
dopodiché, in tarda sera, si alzava pesantemente sbattendo le mani sul tavolo e
spostando la sedia, che alzava un filo di polvere. Scrutavo anche la cucina,
dove una signora di colore cucinava, puliva e spolverava tutta la casa. Lavava
violentemente anche me. Qualche volta
scivolava sul pavimento appena bagnato e io, nella mia testa, ridevo, ridevo
tanto.
Ero
contenta di avere Lauren. Era una bambina dolcissima e simpatica. Mi spaventava
però il pensiero che una volta cresciuta mi avrebbe abbandonata, e sarei
rimasta ancora su quel mobile in corridoio, mentre lei se la sarebbe spassata
con il suo primo fidanzatino o con le sue amiche. E poi in fondo, che ne sa una
bambina che anche le bambole hanno un cuore che si può spezzare e frantumare in
mille pezzi?
Un
giorno Lauren e la mamma uscirono, mentre io continuavo ad osservare il padre
imbronciato. Sentii la porta sbattere. Erano tornate. Lauren aveva una busta in
mano, una bustina piccola e graziosa. Si posizionò davanti a me e infilò il
braccio nella busta. Tirò fuori un’altra bambola. Più bella, più nuova e più
moderna. Mi scansò violentemente e mi rimpiazzò con l’altra bambolina. “Ecco la
tua migliore amica”, disse allegramente. Rimasi turbata. Qualche giorno dopo la
famiglia Peterson si sarebbe trasferita. La mamma di Lauren voleva che quest’ultima
scegliesse tra me e la nuova arrivata. Ero già scoraggiata dalla lucentezza che
vedevo negli occhi di Sofì, la bambolina nuova. E fu cosi. Lauren prese Sofì e
la mise nello scatolone. Se le bambole potessero piangere, forse l’avrei fatto anche
io in quel momento.
Prese
però anche me, e il travagliato breve viaggio si rivelò curioso. Spalancarono
la porta della mia forse futura casa. Sentii il campanellino che avevo sempre
sentito. Ritornai su quella amata mensola. Lauren non mi aveva scelto, ma io
ero tornata nella bottega “Ago e filo”,
nella mia famiglia.
Elda Ciampi
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