L’ACQUA, LA NOTTE, IL CANTO: L’AFFLATO E LE SUGGESTIONI DI UNA FIABA SENZA SOLUZIONE
Mariastella Eisenberg ‘beve e
respira’ i suoi versi, e questa immagine piuttosto ferma la attingiamo da
pregresse letture critiche su due poeti lontanissimi tra loro, per molteplici
aspetti, anche geopolitici: Borges e il coreano Ko Un. La poeta si riversa nei
suoi elaborati allo stesso modo in cui il daimon della creatività si manifesta
in lei, esondando dalle sue viscere razio-emotive.
Questo libro (“Viaggi al fondo
della notte/La migranza/L’erranza/La viandanza”- Oedipus), per svariate
peculiarità prodigioso, costituisce un’espiazione, almeno parziale, delle colpe
ataviche dell’umanità, che la poeta carica su di sé, divenendo a sua volta
unità simbolica del noi. L’io/noi è difatti una chiave di lettura del ‘Viaggio
nella Notte’, che, come scrivevo ne “La Zanzara” di Pasquale Martiniello: “da
secoli l’uomo, consapevole e/o inconsapevole, sconsiderato temerario o
autodistruttiva scimmia eretta, ha intrapreso nel corso della storia, da cui
giammai pare sappia/voglia apprendere la severa lezione.”
E’ il destino che la elegge a
testimone, la Eisenberg, di un fenomeno altrettanto ancestrale: quello dello
spostamento, del trasferimento, del camminamento da un luogo ad un altro luogo,
attraverso le incognite del timeo e della speranza, della Verzweiflung che
paradossalmente in sé trova ossimorica fede e le si aggrappa. E simile tensione
fra opposti ci riconduce a un bellissimo testo del sardo Michelangelo Pira,
dedicato all’emigranza dei lavoratori che lasciano le loro miserie per ‘patire’
nel ventre di tutte le disgrazie in terra straniera. Ma i migranti che descrive
Eisenberg sono tutt’altra sorta di disperati: gente che fugge da guerra,
persecuzione, intolleranza, violenza e morte,
pagando per incontrare privazioni e morte,
o una volta giunta alla meta, affrontare
da sopravvissuta altre odissee di incomprensione, di latente e/o manifesta
ostilità, di stigma e razzismo.
Mitteleuropea e napoletana, la
Eisenberg porta nei suoi geni l’eredità della fuga, del trasferimento
strategico sempre privo di garanzie, tranne quelle profuse dall’illusione,
breviario triste dei paria, dei vinti, degli oppressi. Per questo sul virtuale
barcone dei diseredati potremmo facilmente intravedere, mista ad uomini, donne,
bambini, la poeta, sballottata dalle ondate dei dubbi e flagellata dalla
consapevolezza dell’imbattibilità del male, dall’invincibilità della Notte,
dall’eterno ritorno del ‘Viaggio’.
Più di tutto, a raccapricciare è la
banalità dell’orrore, che ripete formule invariate in ogni capo del mondo; e tra ogni
forma di furto, di appropriazione, di prevaricazione, di accanimento, di frode
e di violenza, di inenarrabili crimini nasce e insorge, condannato esso stesso
al non ascolto, l’animo scorticato e vibrante del poeta. I migranti hanno un
unico domicilio permanente: il dolore, con le telluriche trasfusioni, nell’arco
dei millenni e nei giorni a venire, delle angosce e dei conflitti mai rimossi e
neanche blandamente, e per difesa, scotomizzati. Questo accade, continuerà ad
accadere all’umanità dei vinti, dei perdenti, alla maggioranza di disgraziati
sopraffatti dalla globalizzazione al servizio del capitalismo bulimico di
un’oligarchia di potenti. La libertà, anche quella, è una delle tante menzogne
storiche, ci ripete nelle sottotracce la Eisenberg, con un tono pacato, dove
anche l’amarezza è stanca di mostrarsi acre. Pare tuttavia che a tratti la
poeta faccia suo l’assunto di Ghiannis Ritsos e che ripeta, assolutamente a se
stessa, e senza trovarne requie, che i poeti sono gli inconsolabili consolatori
del mondo. Eppure sta bene attenta a non nutrire di false aspettative l’attesa
lacerante della gente priva già di tutto: terra, casa, dignità, identità. Ella
sa di essere un fantasma antropologico-letterario che s’appoggia a null’altro
che alla solitudine e alla solidarietà verso il debole, affinché non vengano
schiacciate entrambe le sue essenze, quella di grande madre e di figlia
dell’oceano di notte che è l’inevitabile e misteriosa incognita,
l’imponderabile quid. Nelle sue
pagine, non filosofeggia come in un’officina del pensiero, né si concede al
melodramma e al patetico: resta lucida, pur cantando a volte la fiaba nera
della peregrinazione infinita, verso le coste lontane, lungo la salinità di un
mare che si fa arca abissale di morte, pur essendo mitologicamente culla di
vita; e se si dovesse intravedere una laica pietà genuina e misurata, essa mai
assume maniera elegiaco-sentimentale. Il viaggio, con tutte le sue conseguenze
pragmatiche e psicologiche, si dilata, si allunga come “la tragedia per
sfuggire alla tragedia” nel cuore dei traversanti: diventa, il loro, un
vagabondaggio lutulento, scarnificante, che porta alla regressione e alla
fragilità, mentre si dubita del ricordo di un passato bene, sempre più
rarefatto, sempre più affondante nella dimenticanza. Come Giovanni Dettori, Eisenberg
ci persuade nelle funzioni quasi ieratiche di poeta della Entfleischung: già
madre senza grido, già lutto senza squarcio, già entità sfigliata, qui ella
canta altra perdita irrecuperabile, nello stesso momento in cui l’io/noi ha
posto il piede sulla barcaccia. Persino la sofferenza, a volte, quella sofferenza
che tiene desti, che comunque t’incorda dopo averti stremato, sembra persa,
prosciugata dal vento di una discesa agli inferi che già preannunzia la negazione del riscatto. Se
volessimo considerare marxisticamente gli uomini come incarnazioni di forze
economiche, qui non vedremmo il proletario seduto sulle gradinate del circo,
mentre il borghese viene divorato dai leoni nell’arena; le inesorabili leggi
del sistema capitalista portano inevitabilmente alla ‘felicità’ degli oligarchi
al comando e alla miseria degli sfruttati, al punto da rovesciare le
prospettive: perverso è il deprivato, l’umile, il predato, che stimola
addirittura diffidenza e Angst, Furcht. E nessuna forza equivale all’odio, che
incute paura, contenendo in sé la paura stessa. Si odia ciò di cui si ha paura,
si odia chi ci fa, irrazionalmente, paura. La massa brulicante dei migranti
diventa qualcosa di sporco, da cui doversi difendere e decontaminare;
atteggiamento malcelato dal pietismo di superficie con cui l’assistenza
stiracchiata, forzata, dei Paesi ospiti, cerca di depistare l’opinione pubblica
dei buonisti.
Il bisogno di tutto può, è vero,
rendere aggressivi; ma il suo diapason estremo è l’insicurezza regressiva,
coronata dalla serpeggiante insinuazione di essere sudici, fastidiosi,
disturbatori, invasori, sbagliati…inferiori.
Sartre ne “La Sgualdrina Timorata”
ne fornisce un esempio sconcertante: Lizzie, la prostituta di buoni sentimenti,
ed il negro braccato per un crimine non suo, arrivano a coonestare, ad avallare
la persecuzione del bianco, che, per evidenza di cose, e per ineluttabilità di
status, “deve” essere buono, giusto, nel diritto di agire con incontestabile
legittimità, elargendo vampirismo sessuale e applicando impiccagione sommaria.
Al diseredato, al migrante, si
nega, nella sostanza, un valore moralmente positivo e quindi l’impossibilità di
portare la sua condizione individuale su un piano più accettabile. Niente
catarsi con un contenuto di valore affermativo/positivo. L’ordinamento del
mondo considera dissoluto, dissolto, chi crolla nelle situazioni-limite, e la
poeta fa sua, pur non condividendola, la lezione di Bloch e di Ibsen. Sul piano
concettuale della vita quotidiana, il migrante, come fu marchiato l’ebreo annullato
dal Nazismo, è inferiore all’uomo comune portatore di genericità, che vive dentro il mondo, fa pertanto parte di
una sottocategoria degenere che vegeta fuori
del mondo. E che il mondo può e deve espellere
anche dalla dimensione del fuori: la deve cancellare.
Magari con l’arma mediatica del disprezzo. Il disprezzo, Verachtung, è
un metodo progressivo di annientamento psicologico, teso a destrutturare e
smantellare la dignità dell’individuo in quanto sotto-specie.
Innanzitutto occorre rafforzare il
confinamento in una subclasse storica dei migranti, incapsularli in una bolla
pregiudiziale che faccia storia-per-sé. Il che conduce alla reazione
individuale e collettiva di fastidio e rifiuto nella comunità accogliente, in
seno alla quale il migrante verrà ghettizzato. I recinti, i confini, le baracche
fanno pensare ad una cattività, ad una reclusione inevitabile e ‘meritata’.
Alla quale difficilmente i coatti si ribellano. Finiscono con l’accettarla e
con l’adattarvisi. Da secoli il processo funziona secondo immutato copione.
Eisenberg conserva, nelle sue
pagine d’acqua, di terra e di buio, la capacità della parola di dare la misura
dell’umano grazie all’evocatività, ad un senso di religiosità laica dell’atto
minimo di compartecipazione, di solidarietà, niente concedendo agli stereotipi;
stupisce col suo tracciato che percorre le corde del senso con un’esattezza da
orologiaio, che conosce il peso, il timbro, l’opportuna collocazione di ogni termine e l’effetto che
può produrre la posizione di un aggettivo o di un avversativo, di una semplice
congiunzione, elargiti come gocce, a un certo punto del verso, in grado di
mantenere l’equilibrio tra significato e musicalità; una cura della costruzione
che si fa mirabile, tra lirismo cautamente contenuto e viraggio gnomico, con un
dettato metastasiano, che incide come un bisturi nella coscienza del lettore,
sin dal “Prologo”, incantamento fiabesco con l’acconcia disposizione delle
parole-cubi per l’infanzia, “formiche/sui fogli”. Con l’ingannevole, ipnotica
dolcezza di una ninna che s’infiltra nel terribile per allontanare di un poco
il tagliente dai lembi della carne, la poeta si lascia scivolare dalla lingua
al grembo e dal grembo, ai piedi di ogni poesia, e giù giù nella gola del mare,
i titoli, costituiti da sostantivo e attributo, rigorosamente a condividere la
stessa consonante iniziale (Liquore Laido, Liturgia Livida, Limbo Limaccioso,
Lamento Lacerato, Rabbioso Raccapriccio, Reietto Rimpianto, Ribelle
Recriminare, Rupestre Riva, e così via; ma sempre due “L” o due “R”: “L”
desiderio di “luce” come scioglimento del dramma; “R” agognata mèta della
“riva”, che significa scampo dal rischio di essere in ogni istante lambiti, saggiati,
fagocitati dalle fauci feroci di Posidone, dal mare patrigno per i traversanti).
Nell’alienazione del Viaggio che
qui, ‘al fondo della notte’(tenebra e netta e irreversibile separatezza
dall’altra vita del passato), non pare avere termine, la repressione dell’io e l’insorgente coscienza del noi trovano il loro logico o illogico
adempimento: l’io che si identifica con il noi difende così il suo
comportamento, la sua vita, se stesso; il noi diviene personalità unitaria
rispetto al mondo e rispetto al gruppo. Un modo, l’unico che il gruppo possa
imparare, di schermare la propria vulnerabilità. Malgrado ciò, il riversaggio
dell’io nel noi non ripara del tutto dal conflitto emotivo, e questa è una
delle principali complessità tonali nel canto ininterrotto della poeta, che
entra ed esce da se stessa, per diventare ora una vecchia ora un fanciullo ora
un giovane, con le derive dei ricordi, i rimorsi del non voltarsi indietro, la
cecità dell’acqua che scivola fra le labbra per annegare parole. Tutto procede
esattamente così, fino alla metrica dell’epilogo rimato in “glio” e in “ide” e
trasforma lo scenario in una favola sospesa, che cattura il lettore in una
lacrima resinosa, in un letto calcareo.
Un distacco non spiacevole
dall’opera è rappresentato, in cauda, da un omaggio di Maram Al-Masri
all’autrice, in lingua e in francese, che è un accorato e toccante (toccato)
“grazie”.
L’opera più compiuta e suggellante
della ‘Signora di Laiano’ sia per enunciato sia per stile compositivo, con
variazione di registri. I semi verbali che sbocciano nella dolente
consapevolezza, lasciano tracce indelebili, con un verso consegnato al
difficile compromesso di quella zona franca, non a fondo praticata, che
raccorda lo spirito lirico a quello epico, ma senza mai impeti fragorosi o
epifanie altisonanti, a favore dell’invito seducente e mimetico del lasciarsi
trasportare, in una ‘lettura dell’ascolto’, nel beccheggio delle immagini che
si rincorrono, poi stanziano, quindi s’impennano, e dunque planano nell’onda
poetica del sublime, mentre i migranti di Mariastella “tentavano d’amare un mare amaro”.
ARMANDO SAVERIANO
MARIASTELLA EISENBERG - VIAGGI AL FONDO DELLA NOTTE - OEDIPUS 2015 - PP
72 - EURO 10,00
La migranza
e
l’erranza
degli occhi bambini
vit’esenti nel corpo a corpo
tra mare terra e cielo
giacenza di foglio aperto
parole scolorite
da salmastro ingrigito
senza timore
di tegole dall’alto
con un romanzo
già scritto dentro
fin dall’infanzia.
Tempo bambino
tra acqua e nuvole
scorre
tra le dita.
e
l’erranza
degli occhi bambini
vit’esenti nel corpo a corpo
tra mare terra e cielo
giacenza di foglio aperto
parole scolorite
da salmastro ingrigito
senza timore
di tegole dall’alto
con un romanzo
già scritto dentro
fin dall’infanzia.
Tempo bambino
tra acqua e nuvole
scorre
tra le dita.
*
Ho colto tutti i fiori grigi del
mare.
Sarei un passante come un altro
se
solo avessi una strada.
Ho solo mare
ovunque.
Ho solo male
ovunque.
Sarei un passante come un altro
se
solo avessi una strada.
Ho solo mare
ovunque.
Ho solo male
ovunque.
*
A bocca aperta
annegato
sulla riva approda
inerte
mutevole il cielo
sul viso salso
e
la sirena geme
la campana abbaia
mandrie di autobus corrono.
Svernare nel passato
desiderio.
annegato
sulla riva approda
inerte
mutevole il cielo
sul viso salso
e
la sirena geme
la campana abbaia
mandrie di autobus corrono.
Svernare nel passato
desiderio.
*
Notte violacea e violenta
Notte di uomini soltanto
Notte violenta e violacea
più nera e scura per spaventevoli grida profonde
Notte che urlava come grida di parto
Notte di uomini soltanto
Notte alla deriva.
Notte di uomini soltanto
Notte violenta e violacea
più nera e scura per spaventevoli grida profonde
Notte che urlava come grida di parto
Notte di uomini soltanto
Notte alla deriva.
*
Riemergi
nel latte
della luna piena
dopo
passi d’acqua
neri di buio.
Tua
la testa fuor d’acqua
lontana
la casa,
la luna
la casa più vicina.
Cammini ancora
passi d’acqua
bianchi di luce
di barca in arrivo.
nel latte
della luna piena
dopo
passi d’acqua
neri di buio.
Tua
la testa fuor d’acqua
lontana
la casa,
la luna
la casa più vicina.
Cammini ancora
passi d’acqua
bianchi di luce
di barca in arrivo.
MARIASTELLA
EISENBERG
Mariastella Eisenberg |
Nessun commento:
Posta un commento