mercoledì 27 aprile 2016

EISENBERG: ATTI DELLA MIGRANZA



L’ACQUA, LA NOTTE, IL CANTO: L’AFFLATO E LE SUGGESTIONI DI UNA FIABA SENZA SOLUZIONE





Mariastella Eisenberg ‘beve e respira’ i suoi versi, e questa immagine piuttosto ferma la attingiamo da pregresse letture critiche su due poeti lontanissimi tra loro, per molteplici aspetti, anche geopolitici: Borges e il coreano Ko Un. La poeta si riversa nei suoi elaborati allo stesso modo in cui il daimon della creatività si manifesta in lei, esondando dalle sue viscere razio-emotive.
Questo libro (“Viaggi al fondo della notte/La migranza/L’erranza/La viandanza”- Oedipus), per svariate peculiarità prodigioso, costituisce un’espiazione, almeno parziale, delle colpe ataviche dell’umanità, che la poeta carica su di sé, divenendo a sua volta unità simbolica del noi. L’io/noi è difatti una chiave di lettura del ‘Viaggio nella Notte’, che, come scrivevo ne “La Zanzara” di Pasquale Martiniello: “da secoli l’uomo, consapevole e/o inconsapevole, sconsiderato temerario o autodistruttiva scimmia eretta, ha intrapreso nel corso della storia, da cui giammai pare sappia/voglia apprendere la severa lezione.”
E’ il destino che la elegge a testimone, la Eisenberg, di un fenomeno altrettanto ancestrale: quello dello spostamento, del trasferimento, del camminamento da un luogo ad un altro luogo, attraverso le incognite del timeo e della speranza, della Verzweiflung che paradossalmente in sé trova ossimorica fede e le si aggrappa. E simile tensione fra opposti ci riconduce a un bellissimo testo del sardo Michelangelo Pira, dedicato all’emigranza dei lavoratori che lasciano le loro miserie per ‘patire’ nel ventre di tutte le disgrazie in terra straniera. Ma i migranti che descrive Eisenberg sono tutt’altra sorta di disperati: gente che fugge da guerra, persecuzione, intolleranza, violenza e morte, pagando per incontrare privazioni e morte, o una volta giunta  alla meta, affrontare da sopravvissuta altre odissee di incomprensione, di latente e/o manifesta ostilità, di stigma e razzismo.
Mitteleuropea e napoletana, la Eisenberg porta nei suoi geni l’eredità della fuga, del trasferimento strategico sempre privo di garanzie, tranne quelle profuse dall’illusione, breviario triste dei paria, dei vinti, degli oppressi. Per questo sul virtuale barcone dei diseredati potremmo facilmente intravedere, mista ad uomini, donne, bambini, la poeta, sballottata dalle ondate dei dubbi e flagellata dalla consapevolezza dell’imbattibilità del male, dall’invincibilità della Notte, dall’eterno ritorno del ‘Viaggio’.
Più di tutto, a raccapricciare è la banalità dell’orrore, che ripete formule invariate in ogni capo del mondo; e tra ogni forma di furto, di appropriazione, di prevaricazione, di accanimento, di frode e di violenza, di inenarrabili crimini nasce e insorge, condannato esso stesso al non ascolto, l’animo scorticato e vibrante del poeta. I migranti hanno un unico domicilio permanente: il dolore, con le telluriche trasfusioni, nell’arco dei millenni e nei giorni a venire, delle angosce e dei conflitti mai rimossi e neanche blandamente, e per difesa, scotomizzati. Questo accade, continuerà ad accadere all’umanità dei vinti, dei perdenti, alla maggioranza di disgraziati sopraffatti dalla globalizzazione al servizio del capitalismo bulimico di un’oligarchia di potenti. La libertà, anche quella, è una delle tante menzogne storiche, ci ripete nelle sottotracce la Eisenberg, con un tono pacato, dove anche l’amarezza è stanca di mostrarsi acre. Pare tuttavia che a tratti la poeta faccia suo l’assunto di Ghiannis Ritsos e che ripeta, assolutamente a se stessa, e senza trovarne requie, che i poeti sono gli inconsolabili consolatori del mondo. Eppure sta bene attenta a non nutrire di false aspettative l’attesa lacerante della gente priva già di tutto: terra, casa, dignità, identità. Ella sa di essere un fantasma antropologico-letterario che s’appoggia a null’altro che alla solitudine e alla solidarietà verso il debole, affinché non vengano schiacciate entrambe le sue essenze, quella di grande madre e di figlia dell’oceano di notte che è l’inevitabile e misteriosa incognita, l’imponderabile quid. Nelle sue pagine, non filosofeggia come in un’officina del pensiero, né si concede al melodramma e al patetico: resta lucida, pur cantando a volte la fiaba nera della peregrinazione infinita, verso le coste lontane, lungo la salinità di un mare che si fa arca abissale di morte, pur essendo mitologicamente culla di vita; e se si dovesse intravedere una laica pietà genuina e misurata, essa mai assume maniera elegiaco-sentimentale. Il viaggio, con tutte le sue conseguenze pragmatiche e psicologiche, si dilata, si allunga come “la tragedia per sfuggire alla tragedia” nel cuore dei traversanti: diventa, il loro, un vagabondaggio lutulento, scarnificante, che porta alla regressione e alla fragilità, mentre si dubita del ricordo di un passato bene, sempre più rarefatto, sempre più affondante nella dimenticanza. Come Giovanni Dettori, Eisenberg ci persuade nelle funzioni quasi ieratiche di poeta della Entfleischung: già madre senza grido, già lutto senza squarcio, già entità sfigliata, qui ella canta altra perdita irrecuperabile, nello stesso momento in cui l’io/noi ha posto il piede sulla barcaccia. Persino la sofferenza, a volte, quella sofferenza che tiene desti, che comunque t’incorda dopo averti stremato, sembra persa, prosciugata dal vento di una discesa agli inferi che  già preannunzia la negazione del riscatto. Se volessimo considerare marxisticamente gli uomini come incarnazioni di forze economiche, qui non vedremmo il proletario seduto sulle gradinate del circo, mentre il borghese viene divorato dai leoni nell’arena; le inesorabili leggi del sistema capitalista portano inevitabilmente alla ‘felicità’ degli oligarchi al comando e alla miseria degli sfruttati, al punto da rovesciare le prospettive: perverso è il deprivato, l’umile, il predato, che stimola addirittura diffidenza e Angst, Furcht. E nessuna forza equivale all’odio, che incute paura, contenendo in sé la paura stessa. Si odia ciò di cui si ha paura, si odia chi ci fa, irrazionalmente, paura. La massa brulicante dei migranti diventa qualcosa di sporco, da cui doversi difendere e decontaminare; atteggiamento malcelato dal pietismo di superficie con cui l’assistenza stiracchiata, forzata, dei Paesi ospiti, cerca di depistare l’opinione pubblica dei buonisti.
Il bisogno di tutto può, è vero, rendere aggressivi; ma il suo diapason estremo è l’insicurezza regressiva, coronata dalla serpeggiante insinuazione di essere sudici, fastidiosi, disturbatori, invasori, sbagliati…inferiori.
Sartre ne “La Sgualdrina Timorata” ne fornisce un esempio sconcertante: Lizzie, la prostituta di buoni sentimenti, ed il negro braccato per un crimine non suo, arrivano a coonestare, ad avallare la persecuzione del bianco, che, per evidenza di cose, e per ineluttabilità di status, “deve” essere buono, giusto, nel diritto di agire con incontestabile legittimità, elargendo vampirismo sessuale e applicando impiccagione sommaria.
Al diseredato, al migrante, si nega, nella sostanza, un valore moralmente positivo e quindi l’impossibilità di portare la sua condizione individuale su un piano più accettabile. Niente catarsi con un contenuto di valore affermativo/positivo. L’ordinamento del mondo considera dissoluto, dissolto, chi crolla nelle situazioni-limite, e la poeta fa sua, pur non condividendola, la lezione di Bloch e di Ibsen. Sul piano concettuale della vita quotidiana, il migrante, come fu marchiato l’ebreo annullato dal Nazismo, è inferiore all’uomo comune portatore di genericità, che vive dentro il mondo, fa pertanto parte di una sottocategoria degenere che vegeta fuori del mondo. E che il mondo può e deve espellere anche dalla dimensione del fuori: la deve cancellare.
Magari con l’arma mediatica del disprezzo. Il disprezzo, Verachtung, è un metodo progressivo di annientamento psicologico, teso a destrutturare e smantellare la dignità dell’individuo in quanto sotto-specie.
Innanzitutto occorre rafforzare il confinamento in una subclasse storica dei migranti, incapsularli in una bolla pregiudiziale che faccia storia-per-sé. Il che conduce alla reazione individuale e collettiva di fastidio e rifiuto nella comunità accogliente, in seno alla quale il migrante verrà ghettizzato. I recinti, i confini, le baracche fanno pensare ad una cattività, ad una reclusione inevitabile e ‘meritata’. Alla quale difficilmente i coatti si ribellano. Finiscono con l’accettarla e con l’adattarvisi. Da secoli il processo funziona secondo immutato copione.
Eisenberg conserva, nelle sue pagine d’acqua, di terra e di buio, la capacità della parola di dare la misura dell’umano grazie all’evocatività, ad un senso di religiosità laica dell’atto minimo di compartecipazione, di solidarietà, niente concedendo agli stereotipi; stupisce col suo tracciato che percorre le corde del senso con un’esattezza da orologiaio, che conosce il peso, il timbro, l’opportuna  collocazione di ogni termine e l’effetto che può produrre la posizione di un aggettivo o di un avversativo, di una semplice congiunzione, elargiti come gocce, a un certo punto del verso, in grado di mantenere l’equilibrio tra significato e musicalità; una cura della costruzione che si fa mirabile, tra lirismo cautamente contenuto e viraggio gnomico, con un dettato metastasiano, che incide come un bisturi nella coscienza del lettore, sin dal “Prologo”, incantamento fiabesco con l’acconcia disposizione delle parole-cubi per l’infanzia, “formiche/sui fogli”. Con l’ingannevole, ipnotica dolcezza di una ninna che s’infiltra nel terribile per allontanare di un poco il tagliente dai lembi della carne, la poeta si lascia scivolare dalla lingua al grembo e dal grembo, ai piedi di ogni poesia, e giù giù nella gola del mare, i titoli, costituiti da sostantivo e attributo, rigorosamente a condividere la stessa consonante iniziale (Liquore Laido, Liturgia Livida, Limbo Limaccioso, Lamento Lacerato, Rabbioso Raccapriccio, Reietto Rimpianto, Ribelle Recriminare, Rupestre Riva, e così via; ma sempre due “L” o due “R”: “L” desiderio di “luce” come scioglimento del dramma; “R” agognata mèta della “riva”, che significa scampo dal rischio di essere in ogni istante lambiti, saggiati, fagocitati dalle fauci feroci di Posidone, dal mare patrigno per i traversanti).
Nell’alienazione del Viaggio che qui, ‘al fondo della notte’(tenebra e netta e irreversibile separatezza dall’altra vita del passato), non pare avere termine, la repressione dell’io e l’insorgente coscienza del noi trovano il loro logico o illogico adempimento: l’io che si identifica con il noi difende così il suo comportamento, la sua vita, se stesso; il noi diviene personalità unitaria rispetto al mondo e rispetto al gruppo. Un modo, l’unico che il gruppo possa imparare, di schermare la propria vulnerabilità. Malgrado ciò, il riversaggio dell’io nel noi non ripara del tutto dal conflitto emotivo, e questa è una delle principali complessità tonali nel canto ininterrotto della poeta, che entra ed esce da se stessa, per diventare ora una vecchia ora un fanciullo ora un giovane, con le derive dei ricordi, i rimorsi del non voltarsi indietro, la cecità dell’acqua che scivola fra le labbra per annegare parole. Tutto procede esattamente così, fino alla metrica dell’epilogo rimato in “glio” e in “ide” e trasforma lo scenario in una favola sospesa, che cattura il lettore in una lacrima resinosa, in un letto calcareo.
Un distacco non spiacevole dall’opera è rappresentato, in cauda, da un omaggio di Maram Al-Masri all’autrice, in lingua e in francese, che è un accorato e toccante (toccato) “grazie”.
L’opera più compiuta e suggellante della ‘Signora di Laiano’ sia per enunciato sia per stile compositivo, con variazione di registri. I semi verbali che sbocciano nella dolente consapevolezza, lasciano tracce indelebili, con un verso consegnato al difficile compromesso di quella zona franca, non a fondo praticata, che raccorda lo spirito lirico a quello epico, ma senza mai impeti fragorosi o epifanie altisonanti, a favore dell’invito seducente e mimetico del lasciarsi trasportare, in una ‘lettura dell’ascolto’, nel beccheggio delle immagini che si rincorrono, poi stanziano, quindi s’impennano, e dunque planano nell’onda poetica del sublime, mentre i migranti di Mariastella “tentavano d’amare un mare amaro”.

ARMANDO SAVERIANO



MARIASTELLA EISENBERG - VIAGGI AL FONDO DELLA NOTTE - OEDIPUS 2015 - PP 72 - EURO 10,00



La migranza
e
l’erranza
degli occhi bambini
vit’esenti nel corpo a corpo
tra mare terra e cielo
giacenza di foglio aperto
parole scolorite
da salmastro ingrigito
senza timore
di tegole dall’alto
con un romanzo
già scritto dentro
fin dall’infanzia.
Tempo bambino
tra acqua e nuvole
scorre
tra le dita.

*

Ho colto tutti i fiori grigi del mare.
Sarei un passante come un altro
se
solo avessi una strada.
Ho solo mare
ovunque.
Ho solo male
ovunque.

*

A bocca aperta
annegato
sulla riva approda
inerte
mutevole il cielo
sul viso salso
e
la sirena geme
la campana abbaia
mandrie di autobus corrono.
Svernare nel passato
desiderio.

*

Notte violacea e violenta
Notte di uomini soltanto
Notte violenta e violacea
più nera e scura per spaventevoli grida profonde
Notte che urlava come grida di parto
Notte di uomini soltanto
Notte alla deriva.

*

Riemergi
nel latte
della luna piena
dopo
passi d’acqua
neri di buio.
Tua
la testa fuor d’acqua
lontana
la casa,
la luna
la casa più vicina.
Cammini ancora
passi d’acqua
bianchi di luce
di barca in arrivo.

MARIASTELLA EISENBERG



Mariastella Eisenberg


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