martedì 6 ottobre 2015

POIEIN: L'arte della poesia









E NON SAPEVO PIÚ


No, il cielo non ha misericordia
giacché Dio è in esilio
dai deboli inni che si sfaldano
dalle anime che ci sfiliamo
come scarpe deformate dopo una giornata
non meno meschina di altre
tante
troppe altre
uguali.
Non tendetemi panni caldi e carezze, adesso
non offritemi garofani e penitenze;
io non monto in barella
non mi presterò a compassionevoli interviste
tantomeno accetterò sproloqui umanitari
visi di circostanza
o le chitarre mobili della melliflua ipocrisia.
Quel giorno io me lo porterò dentro
momento per momento
finché il cuore tatuato avrà ancora l’impertinenza
di battermi nel petto.
Dentro me lo porterò
io sola
quel giorno maledetto e mio
assieme allo sperma del soldato
- non importa di che colore o di quale nazione -
che mi impestò
col lezzo del suo ansito di bestia ingorda
mentre la trucida canna del fucile
premeva sul mio collo di latte e di sangue
mi sfregiava la pelle
mi schiacciava l’esofago
e invano io chiedevo
che subito
mi si mozzasse il respiro
che subito
m’esplodesse l’aorta del pudore insozzato
che presto finisse quello scempio
che presto i miei morti
mi porgessero diafana la mano.
E non sapevo piú
io non sapevo piú neppure
cosa fossero la paura, la vergogna, l’oltraggio
o soltanto cosa significasse un grido
lancia
di ghiaccio
incapace di arrivare
al Padre Impronunciato.
E la pietà?
La fratellanza?
La solidarietà?
Io ne rido coi denti spaccati
e la mascella dolente
e la mia risata è di ghiaia;
e ci sputo nera e avvelenata
e la mia saliva è scabra, acida rena.
E crescono enormi e scarlatti i miei occhi
dietro le inferriate dello schifo.
Nessuno intervenne, allora.
Nessuno ebbe il coraggio di fiatare.
Qualcuno –mani sulla faccia–
sbirciava però tra le dita
in segreto eccitato
Comunque sentirono tutti
E tutti seppero, dopo.
Lasciatemi stare
non accostatevi
padri sorelle figli
poveri inetti codardi.
Non osate scuotere il capo
commiserarmi.
Dovrei io disprezzare voi.
Ma non importa
nulla piú conta ormai.
Questa guerra interminabile
ci ha reso sciacalli;
in me il concetto di perdono
il sentimento della caritatevole dimenticanza
sventolano a brandelli.
Io sono la mia città
devastata.
Non mi chiamo Maria o Faruza
il mio nome è Assenza.
Questo ventre di pietra
brucia
liquefatto.
Figlierà ceneri e abbandono.
Raccolgo le mie macerie di donna,
asciugo i miei spurghi
con gli stracci delle antiche
inefficaci preghiere
e forse mi rialzerò
senza grucce di soccorso
e quando
cederanno mille volte mille
queste ginocchia livide
io forse ancora mi rialzerò
e magari
chissà
tornerò a spiare
fra i voli degli uccelli atterriti
il riformarsi di una nube
d’ovatta pulita
che non sia il fumo rigonfio e beffardo
partorito dalle bombe.
Addio, o forse arrivederci
io parto per nessun dove.
Addio
deboli disamorevoli bastardi
o forse arrivederci
davanti a un tribunale di giustizia
non umano né sovrumano
semplicemente equo
eletto dalla non facile vendetta
ma dalla riesumazione (improbabile) delle coscienze.

ARMANDO SAVERIANO






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