giovedì 1 ottobre 2015

PERFUNCTA VITA



Fatalità e utopie nella poesia di Armando SAVERIANO





Sulle sabbie del tempo, il daimon di Armando SAVERIANO si muove tra l’imponente leggerezza della tradizione e il coraggio del rischio dell’avvenire ( <<I poeti sono i più arrischianti>> - direbbe Heidegger ), di questo guardare oltre verso terre misteriose e spazi ignoti, in cerca di nuove significazioni, spostando limiti, bramando l’inaudito, le parole finora non dette e le cose giammai realizzate “Non avrò tempo per il rovello della nostalgia / il rimpianto di quel che mai ho avuto / la Ribalderia l’Amore la Fortuna” ( Nel nulla - pag. 5 ).
“Sei tarli nel giustacuore” per questo sacerdote della parola che si pone tra l’aurorale e il presagio della fine “Il mondo è solo una lapide che attende iscrizioni” (Non altro sentore avendo – pag. 12), che coniuga la meraviglia con il disincanto, il Fato con l’Utopia, eros con thanatos, avvalendosi di una lingua altamente metaforica, di un lessico epico e lirico al tempo stesso, con una semantica ardita e con una struttura quando rarefatta e quando densa, carnale.
Nulla – per Saveriano – è impoetico, il comico e il tragico, il furore adamantino e il lento risalire, le piccole scaramucce e l’inesorabile destino, così, il suo pensiero poetante pervade memoria e oblio (<< L’oblio / E il caso ci depredano >> - per dirla con Borges), si dispiega in un canto  ontologicamente sublime,   rivelandosi – infine – in una estetica che è vissuto quotidiano, esperienza di vita, stile,  per cui, si può benissimo asserire – con Francesco De Sanctis – che << Il mondo estetico è sostanza, non parvenza >>.
D’altronde, un po’ tutta la poetica del Nostro si pone come atto fondante, istante che svela l’Essere, che restituisce una verginità originaria ad ogni incontro, ad ogni gesto, ad ogni felice intuizione e che fa emergere il nostro ex-sistere, colto in una dignità che supera degrado e sciattezza, volgarità e bassezze.
A tale proposito, non posso non citare di nuovo l’Heidegger del << Nur wo sprache, da ist weet >> (“Solo dove è linguaggio, là è il mondo”), laddove il poeta descrive, in modo suggestivo e originale, il dicibile e invoca l’indicibile.
Ecco – dunque – che il dettato, per Saveriano, si fa urgente, necessario, come costante si rivela la ricerca di quell’energia primordiale che rende plausibili i sogni e le pulsioni, le ribellioni e le invettive, i rammarichi e i desideri, i ricordi e i segreti, le rinunce e le ossessioni.
E’ qui presente un labor limae dotto e raffinato che fa di ogni componimento - di questa plaquette solida e immaginifica – una costruzione architettonica dove ogni parola trova (e dal proprio interno e rispetto all’intero contesto) una sua giustificazione, una sua legittimità.
Di conseguenza, abbiamo a che fare con un continuum, trattandosi di una impalcatura esterna retta da un ricco e forbito zibaldone di pensieri; si tratta di un discorso artistico e poetico che possiede una filosofia di vita, una visione del mondo, una weltanschauung lucida, magmatica, nonché ferrea e paradigmatica, il cui fondale viene impreziosito da suggestioni e da immagini che provengono dal teatro, dal cinema, dalla pittura e dalla musica.        
Scorgo, ancora, un qualcosa di tellurico che - seppure con difficoltà - si apre  alla salvezza, dal sottosuolo della coscienza erompono conati di disperazione “Dio dimora nella succulenza delle anime / visitando la sua residenza all’inferno” ( Non altro sentore avendo – pag. 12 ), con il tutto comunque ( e il dettaglio e l’insieme ) espresso in modo seducente, per una bellezza incommensurabile che ci trasforma dal di dentro e che muta il corso degli eventi “Colto nell’atto / di tendere l’anima recessa / all’ultima frangia dello scialle lunare” (Nato da Macchina e Sfinge – pag. 8).
Quella di Saveriano è una sorta di pascaliana scommessa al fine di risalire dagli Inferi (Holderlin) “demone  fra  demoni agognati / lucibondi  lascivi / mia cancrena inebriante abominio” ( Nato da Macchina e Sfinge – pag. 8 ), dotato di un armamentario lessicale forbito,  spesso,  lussureggiante (come – ad esempio – accade in Derek Walcott) e arioso  “Una scudisciata nel cielo dibattuto ammutolì / la vita invisibile il bosco da dove erano sparite / le farfalle elettriche i cappelli di feltro seminati / dalle scimmie frettolose gli occhi rovesciati / dei sognatori di nuvole” ( Non altro sentore avendo – pag. 12 ).
Non una lamentazione, ma un grido pudico e consapevole che proviene da una gola remota; nessun altro spasimo se non la ricerca di una qualche ammiccante fortuna tra le ombre della malasorte e le piaghe del destino; un grido pur sempre di libertà, di fuga da lacci, legami e convenzioni, quasi un sentore di inappartenenza, di assoluta estraneità “Perché curarsene Andare abbandonato / come adesso / come del resto sono sempre stato / invisibile dopo che sfruttato” (Nel nulla - pag. 5).
Come non rammentare i versi di Montale? << Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno: / di te che non sei più forma, ma essenza >> (da “Xenia”).
Insomma, note, sillabe, icone, appunti di viaggio, elementi scenici, estrose rappresentazioni, agnizioni, il tutto nasce e si consuma in un’aria melanconica “Ogni notte cambia il mio dolore / e il mio pensiero aggruma” (Noctescit – pag. 4), con una vis drammatica che fa dire “Agogno allora al caso / che mi stronchi presto / Senza lancinante spasimo” (Noctescit – pa. 4).
PERFUNCTA VITA è un momento tremendo di verifica, un approdo che – però - tenta di cogliere bagliori futuri, azioni che possano avvalorare il senso di una sfida.
Una sfida portata al Nulla, all’Insignificanza, alla Vanità del tutto, al Disinganno, al non-sense, da uno spirito che avidamente sta a suggere la vita e che mostra ora una forma/ morphé, il suo compimento, la sua momentanea realizzazione.
Ed è, ancora,  questo il riepilogo di non un’ esistenza sola ma di mille e più esistenze, il suo  io  è,  piuttosto, dato da più anime,  un “io moltitudine”, perché Saveriano  generosamente ( alla Whitman << Sono grande, contengo moltitudini >> )  si dà ( e nella scrittura e nell’opera quotidiana ), senza misure o calcoli, anche se qui subentra un’amara consapevolezza “E’ ora che io taccia del tempo / dissipato per mia vocazione confessa / che taccia di questa consenziente cattura / che taccia che taccia”.
Per tutte queste  ragioni,  faccio fatica a  dover registrare -  in questo diario - sconfitte o perdite,  allorché  è la parola poetica che conia, trasforma e sentenzia su come va il mondo; c’è tutta la lezione dell’Ottocento e del Novecento letterario, con la vena simbolista e surrealista e i richiami decadenti e crepuscolari, ed  è presente sì il sentore di una fine imminente della civiltà occidentale (con un “io” sempre più dimesso e lacerato, con una società in frantumi, con regni e stagioni che ineluttabilmente si sgretolano), ma le rovine di Armando  Saveriano  non ammettono la polvere in quanto conservano ancora l’antico luccichio della gloria, i riflessi di una bellezza imperitura “S’avventa  la memoria  sugli usci delle case / Poi alle tegole s’alza sbigottita / E filtra nei pori delle vecchie addormentate” ( Sfinita la notte ed insaziata – pag. 3 ).
Elementi e suggestioni che si possono cogliere in certi passaggi lirici che si fanno preludio di evanescenze, ineffabile sortilegio di allusioni “e filanti misteri e fidenti arcani / nel cono d’innumerevoli lune / la tua foresta dai pennacchi di fuoco” (Cerimonia per Elizabeth – pag. 9), inusitati battesimi “Nacqui un sabato futuro” (Nato da Macchina e Sfinge – pag. 8).
A mio modo di vedere la poesia di “Perfuncta vita” mette insieme e le << cieche speranze >> di Eschilo e   << lo stormo bianco dei miei versi >>  della Achmatova; e il senso della finitudine e l’interrogarsi sulle – cosiddette – domande ultime; e la tensione verso l’Invisibile e la struggente descrizione di ciò che è natura, materia, opacità; e il rumore, il chiasso degli affanni umani e il sovrumano silenzio, il tacere assoluto “sfiora se vuoi le braccia / io taccio sulla sorte” ( Noctescit – pag. 4 )  e ancora “Tacemmo non avendo altro sentore che la pelle / la luna l’arabesco dei rami i sudori della notte” (Non altro sentore avendo – pag. 12).
Prima di scendere nel “gorgo  muti” ( per dirla alla Pavese ), il poeta  ci  fa   ammirare un qualcosa che resta – comunque – imperscrutabile, offrendoci anche una nuova chiave di lettura; e, così,  alla fine, mi piace sottolineare il fatto   che è qui presente una promessa di immortalità, o quanto meno lo spirito per nuove avventure, una sorta di affinità elettiva col mondo che verrà “c’è sempre un’ora che quando scocca / dimentica aperta la sua porta / io cerco affinità nelle orme / che le foglie non coprono / le bestemmie non colmano” (Noctescit – pag. 4).

 San Giorgio del Sannio, 1 Ottobre 2015
                                                           
                                                                                                         COSIMO   CAPUTO




Cosimo Caputo
Armando Saveriano













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