martedì 7 luglio 2015

SI VA, SI VA, LUSTRA LANCIA IN RESTA

 
 

parvae scortecciature sulla scrittura

 

 



C’è qualcosa di febbrile che assalendoti ti assedia, un sottile fermento, un’urticazione che promette di non concederti facilmente requie, quando ti accingi a travasare su carta uno spunto che è già più di una idea. Un quid ti punge i polpastrelli con mille aghi immaginarî; nondimeno ti pizzica la lingua, mentre un poco si contrae la gola. Non sai quale pietanza affiderai ai fornelli mai spenti dell’estro; hai alla rinfusa degli ingredienti a disposizione; bisogna miscelarli con acume, con attenzione, in parca dose; aggiusterai di sale e pepe a mano a mano: un piatto saturo non compromette di meno la tua reputazione rispetto ad uno scipido. Ed è importante non alzare subito la fiamma, che da fioca in graduale passaggio balzi viva e negli ultimi minuti si elevi a guizzi di Pulcinella, raddensando l’osmosi del gusto senza bruciacchiare il fondo: in modo che il commensale resti ingordo dopo che l’ultimo cucchiaio, dopo che l’ultima goduriosa forchettata abbia ahimè mostrato il piatto fin troppo presto vuoto. Come l’alzarsi dalla poltroncina della platea, applaudire allo scorrere in chiusura del sipario, desiderando di vedere ancora la commedia, stupirsene di nuovo, incantati. Ah!, l’equilibrio! Ama giocare di sottrazione, sacrificando il superfluo, benché allettante, ornato, seducente per il suo autore, tentato – lo sappiamo tutti – dall’irrinunciabilità. Sì, il giusto mezzo (ma chi te lo dà, se non il mestiere che acquisisci sul campo, a prezzo di tanti ruzzoloni?!?) necesse est per portare a compimento l’opera che vuol scampare alla garrota.
Hai gettato di lato il berretto da chef (quello che compare nelle vignette tradizionali e nelle rubriche gastronomiche francesi), mentre dal foglio o direttamente dallo schermo del computer si sprigionano gli effluvî di quanto pipola in pentola. Sai che è buono quel che stai preparando, eppure…ecco…hai l’impressione…ma no!, la certezza che manchi d’aroma…Non sei più così soddisfatto. Anzi, non lo sei per niente. Colpa di quel personaggio, che s’è voluto intrufolare di forza! E il dialogo degli amanti stanchi l’uno dell’altro farebbe piangere Marcel Carné e indiavolerebbe Suso Cecchi D’Amico! L’inseguimento dell’agente antiterrorismo, che si è visto sbriciolare la copertura di mercante d’arte, pare svolgersi fra i vicoli di Forcella, invece che a Brasilia. E Nives (cambiale il nome in Nora, abbi pazienza!) si concede con ottusa sbrigatività al già sospettoso orafo! Sei sicuro che esista un cappio tecnologico con annesso motorino, chiamato ‘bolito’, ottimo per sostituire l’arcaica corda di violino, e lasciare al congegno a batteria che stringa e squarci in men di due minuti l’aorta al malcapitato, come succede a Brad Pitt nel film di Ridley Scott, mentre il sicario intasca il compenso dalla dark lady belloccia e depravata, e si defila indisturbato? Potevi documentarti meglio, pirla. Dovevi farlo. Devi farlo sempre, anche se impiatti il più sfrenato fantasy della malora! Cristo, quante incertezze, e quanto gravi! Lottano fra di loro per salire a galla come gli gnocchi di patate. Non sai a quale errore riparare per primo. T’incazzi. Ti danni. Manderesti tutto all’aria. Rovesceresti nel gabinetto casseruola e malnata pietanza! Poi…però…tutta quella fatica…Non si può proprio salvar nulla, modificando di qua, tagliando in mezzo, rimpastando l’incipit? Dopotutto i compromessi esistono appunto per casi simili. Sono la cassetta del pronto soccorso. E non è detto che siano ‘pezze a colore’. Possono, al contrario, rivelarsi genialate. Magari lasciandole a decantare un paio di giorni…

Inoltre…dovresti ormai essertici abituato…la perfetta soddisfazione non la carezzerai mai, non è il pelo del gatto che ami e che ti si acciambella in grembo col suo ron ron. Non sarai mai del tutto convinto, bello, neanche nell’atto di servire la portata all’editore o a un privato committente, che magari mostra di gradire con tanto di tovagliolo attorno al collo e l’acquolina negli occhi esperti divoratori, in una di quelle incantinate osterie per scribacchini, dall’ingresso che ti costringe a curvare la testa se sei appena più d’un metro e settanta, là nella piazzola centrale del paese dei prozii umbri, dove nessuno (s)parla, ma un po’ per uno hanno tutti da parlottare.
Sottile bruire di pioggia. Màh!
Lavorare a un racconto è costruire l’esterno dal di dentro, far da tessitore alla vicenda meglio d’un ragno apparentemente o effettivamente alticcio, mezzo fatto di coca e di Fiano, eppure dare scorrimento, tono e armonia, frammentandoti nei personaggi, cui presti la spellatura del cuore tuo e un guizzo di sogno mai apertamente confessato. E sarai geloso/invidioso di loro, quando essi si staccheranno dal babbo demiurgo per palpitare di cervice e viscere proprî. E apparecchiare l’empatia per il lettore, che siede in prima fila, per assistere, con la cuffia in testa, alla proiezione che con la tua logosfera l’hai indotto a scegliere.
Hai mai pensato al tipo di lettore che ti toccherà? Fantastica un poco su di lui, ti servirà da esercizio. Ottimo esercizio. Ma dimentica la tua identità di lettore, le tue modalità di lettura. Ci siamo? Seguilo. A debita distanza. Fissane la nuca. Cammina disinvolto senza tallonarlo. Ovunque vada, a casa, in biblioteca, nei giardinetti, al pisciatoio, al mercatino, sotto la pensilina dei bus in arrivo…goditi l’attimo in cui tira fuori il tuo libro, ne contempla la copertina, spilluzzica lo strillo pubblicitario sulla fascetta, ingurgita il contenuto delle alette, la critica meretrice compiacente in quarta, lo apre, lo sfoglia, sbuffa o sorride. Tu trattieni il fiato. Pagheresti qualunque cosa per essere nei suoi pensieri, per trasmigrare nella sua lercia o nobile, disadorna o elettrificata animaccia boia. Egli…o ella…potrebbe benissimo essere uno dei personaggi futuri di un tuo prossimo spurgo narrativo; potrebbe essere benissimo uno dei personaggi che t’inventi, o ancor meglio uno degli avatar che nell’ombra da subito o grazie a evoluzione lenta e immemorabile se ne stavano acquattati, attendendo l’occasione propizia per guadagnare la ribalta, oh, senza chiederti permesso, picchiettandoti su una spalla, o petulando come Bice Valori o Franca Valeri o Louis de Funès  in modo da convincerti ad assegnare loro meritato spazio, a riconoscergli agognata sostanza e a dargli pirandelliana, de gongoriana vita. Anche la più sbeccata, miseranda, balorda, ingrata sui destini del foglio.
Insomma! Tu il negromantico regista? Sì e no. Tutto parte da te, tutto può sfuggirti. Sei attore e varco per l’altrove. Stiamo a scomodare Gogol, Dürrenmatt o il non meno imprevedibile e tutt’altro che rassicurante Philip K. Dick (se non Koontz, Nolan, King, Matheson)? Ti piace (e ti spaventa) il ruolo. Il varco che apri, volente o nolente. Bèh, uno scrittore non è dopotutto un varco …il varco per le sue trame e i suoi personaggi? A volte non deve neanche affaticarsi a escogitare le une e a concepire gli altri: storie, sfondi, atmosfere, protagonisti, comprimari sembrano già bell’e pronti, gli prendono la mano. E a lui (a te) al massimo spettano piccoli, benché significativi ritocchi. Narrare/narrarsi/venire narrato: un viaggio, un’incognita (questo è il lato intrigante) che ti eccita, ti mette sotto pressione; puoi stupirti come descrizioni, dialoghi, coup de plume ti sgorghino facili facili…spontanei…dai polpastrelli, dalle tempie, dai lombi; oppure ti succede di sudare le proverbiali 7, bloccarti su uno o più punti, agitare il panariello della tombola per pescare il termine esatto, o quello che più si avvicina al giusto; arrovellarti su una situazione che ti appare senza sbocchi, e tu vuoi, fortissimamente vuoi evitare lo stereotipo. Ti ucciderebbe il racconto, l’articolo, il saggio! Poi…al diavolo!, la fai finita con le paranoie da iperscrupolo. Devi anestetizzare le tue paure, colpire al plesso solare i dubbi più prolifici di un formicaio. Quindi metti il punto fermo.Il Big Ben ha detto stop. Ecco, hai schiaffato la firma. Te la giochi? Chissenefrega! Ma dài, rileggi! Uhm…ti persuade. Va benone.
Quand’ecco… si riaffaccia la testolina maligna, indisponente, segaligna, sorniona, sfaccimma di un ma…se…però…
Ci risiamo! Imprechi. Correggi modifichi limi rastremi pialli aggiungi arricchisci cancelli ricominci speri ti danni rinunci ripigli ti gratti. Sigli trattati di pace nonostante tu non sappia fumare il calumet. E ricordati del compromesso, cazzo! Così non vivi più! Potresti procedere in eterno e non consegnare più il lavoro. Non consegnarlo mai ti dà i brividi caustici ai marroni. E poi è un’ipotesi di massima sconfitta! Fa’ tacere gli scrupoli, bevi una tazza di vin cotto, va’. Gli scrupoli, buone sagome, brave paste, molto spesso ti ricordano essi stessi: “Lasciaci perdere. Per nostra natura siamo esagerati. Ma ti vogliamo bene. S’è fatto tardi.” O.K. Imbusti il tutto e lo mailizzi. Qualcuno –speraci!– ti leggerà. Mandandoti affanculo. Chissà…apprezzando! Contestando. Fregandosene senza disturbarsi ad esprimere un parere, a preconfezionare una lite, a farsi un torsolo d’amico.

Vorrei sfatare una falsa convinzione, o un insincero schernirsi: che si scrive o si debba scrivere solo per se stessi, che sia questo l’importante. Balle. Si scrive –sempre– per gli altri, o meglio per suscitare se non l’ammirazione, almeno l’approvazione di parte del resto del mondo, anche uno zinzino di percentuale. Basta una minima percentuale d’assenso per metterci in carreggiata con la coscienza, per riconciliarci con la vita deragliatrice indomita, contentando quel disgraziato ego che chiede di perseverare, anche a costo d’infilare la caviglia in una tagliola e rimetterci la benevolenza d’un paio di santi e tre madonne!
Si va, allora, claudicando, si va sfruttando batterie di riserva nel vano spavaldo (temerario) del coraggio. Lustra lancia in resta.                                                                                       

                                                                                 ARMANDO SAVERIANO
 
 
 

 



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