mercoledì 27 maggio 2015

VERSIPELLE 18: LA POESIA TRA LE ANGOSCE DEL SOCIALE






Poesia come campo d’azione che denuncia e che si oppone agli abusi: quelli di un potere tracotante che dissimula e si perveste, in politica; quelli delle cosche mafiose colluse con lo Stato; quelli sul campo del lavoro, con gli sfruttamenti dei bisognosi (i migranti, i disoccupati, i disperati del nuovo status della miseria estrema), o con il mobbing; quelli che avvengono in famiglia, nel nido che si trasforma in covo di vipere (‘Inimici hominis domestici eius’). Molto spesso mogli sottomesse e vergognose di confessare le percosse inflitte senza motivo da mariti ubriachi e fannulloni; figlie stuprate da genitori viziosi; madri psicotiche e maniache religiose, sul modello della Carrie kinghiana o su quello del mostro di Cogne, la Franzoni. E i figli, vittime incolpevoli, indotti a evadere da un clima intollerabile, possono a volte cadere nelle trappole della droga. È quel che accade al misconosciuto Eros Alesi (Ciampino, 1951/Roma, 1971). Assurdo e crudele morire a vent’anni, nell’indifferenza di chi avrebbe potuto aiutare e non l’ha fatto. Anzi, forse ha dato una spintarella allo sconforto, sbarrando l’ultima porta socchiusa, girandosi dall’altro lato per costruirsi un alibi e scrollarsi dalla coscienza la responsabilità di tendere una mano. “Amicum an nomen habeas, aperit calamitas”, recitava Publilio Siro nelle Sententiae, e Cicerone, nel De Amicitia, riprende un detto di Ennio: “Amicus certus in re incerta cernitur”.
Simone Lucciola, scrittore, musicista, illustratore, leader del trimestrale “deComporre”, dedica sul numero 19 di gennaio 2015 uno spazio illuminante e risarcitorio a questo giovane poeta precipitato dal Muro Torto (luogo tristemente famoso per i suicidi), forse per por fine a una vita bruciata a causa di tante sventurate contingenze; non ultima la tiepidezza se non l’ostilità degli intellettuali contemporanei. Ecco per esempio cosa scrive Pasolini nel ’73 recensendo le poesie dell’Almanacco dello Specchio per ‘Il Tempo’:
“[…]sono tutti senza rilievo, anche quell’Eros Alesi di cui si presenta un puro e semplice documento di vita (è morto in manicomio a vent’anni, dopo un viaggio in India, drogato con una trista compagnia di Piazza Bologna. Era di Ciampino. Suo padre era fantino e si ubriacava maltrattando la madre. Di qui la solita tragedia che più o meno abbiamo vissuto tutti. Solo che in questi anni la moda ha voluto che questa tragedia fosse intollerabile ed enfatica, e ha preteso soluzioni estreme. Non ho nessuna particolare pietà per questo disgraziato ragazzo, debole e ignorante, che è morto per la stessa ragione per cui si fanno crescere i capelli. Meno diritti si hanno e più grande è la libertà. La vera schiavitù dei negri d’America è cominciata il giorno in cui sono stati concessi loro i Diritti Civili. La tolleranza è la peggiore delle repressioni. È essa che ha deciso la moda della droga, della morte e della rivolta estremistica. I più deboli ci sono cascati, con l’aria di essere dei campioni. In realtà sono stati campioni del più spietato conformismo.).” 
Una crudele stroncatura. Giuseppe Pontiggia, invece, così motiva l’inserimento di Alesi nell’Almanacco: “Eros Alesi è morto tragicamente a vent’anni: il resto non è silenzio, ma una voce che cerca di riprendere con la vita un rapporto che pareva perduto, e con gli uomini un contatto che si fondi sulla verità spesso atroce delle distanze piuttosto che su false speranze di identità. La ‘Lettera al padre’ ne è una disperata celebrazione, con i suoi ‘che’ ripetuti i quali, nella loro mancata epicità, rimandano all’insofferenza per un ambiente umano che gli risultava ossessivamente angusto e che gli soffocò, tranne che sulla pagina, le potenzialità affettive. Perciò la parola riacquista quella forza violenta e percussiva che sempre si manifesta allorché la poesia tende a convertirsi in energia di esistere, e l’esistere viene pagato di persona da chi ne scrive (un poeta come Campana, in Italia, ne è stato l’esempio più grande).Non mancano, in questi testi, cadute e dispersioni, dovute anche alla stesura occasionale e frammentaria; così come si evidenziano legami vissuti in modo diretto e autobiografico, con quella poesia americana di protesta (e con Ginsberg in particolare) la cui vitalità sopravvive alla moda che ha contribuito a divulgarla. L’autenticità dell’esperienza e l’intensità dell’accento personale bastano però ad Alesi per riscoprire ancora una volta la parola come punto di intersezione e di comunicazione tra l’io e gli altri.”
Di Alesi non avremmo saputo nulla, o tanto poco, se non avesse avuto qualche occasione di visibilità postuma, per esempio nell’antologia “Il pubblico della Poesia”, a cura di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli, poi ristampata nel 2004 da Castelvecchi (Roma) o grazie al volume “Poesia degli anni settanta” (Feltrinelli, Milano, 1979), a cura di Antonio Porta. Secondo Giorgio Manacorda, “(Alesi) un vero talento, poteva diventare il poeta ‘americano’ del Novecento italiano”.
Nel corso del nostro ‘Versipelle’ 18, il brillante Davide Cuorvo interpreta Alesi in una delle sue poesie più significative: “Mamma Morfina”. Nel volume ‘La Poesia Italiana oggi: un’antologia critica’, si legge, a proposito dello sfortunato Alesi: “Le sue poesie sono preghiere. Forse le uniche preghiere laiche della letteratura italiana degli ultimi decenni. La religiosità che pervade questi testi e dà loro forma (il verso inedito, mai visto, generato dal ‘che’ percussivo di cui parla Cordelli) è qualcosa di molto fondamentale, assolutamente originario. Alesi, che non sa nulla, se non la propria disperazione, riparte dai rapporti primari che hanno generato il sentimento religioso: il suo non è altro che il bisogno di amare il padre e la madre, e di esserne riamato. Se questo non avviene – e per lui non è avvenuto – nasce la religiosità: si adora chi non ci ama, e, anzi, è terribile con noi. La sua bellissima poesia al padre non è altro che un “padre nostro che sei nei cieli” e la poesia alla morfina non è altro che una poesia alla madre, che aiuta, consola, lenisce – e strangola –. L’amore materno è venefico almeno quanto la violenza del padre è distruttiva. Se le cose stanno così non resta che pregare le due divinità, la fonte di ogni possibile benessere e di ogni legge. Si tratta di preghiere che nascono da una solitudine totale, ma, direi, fondante. Alesi parte da questa ferita immedicabile e deve esprimere, per sopravvivere, il proprio amore senza oggetto, la propria “inesistenza”, quindi, ma non può rinunciare “ad esserci”. La preghiera, un modo di comunicare con le divinità assenti, non basta, non può bastare: da qualche parte e in qualche modo Alesi deve trovare la sensazione di non essere assolutamente e irrimediabilmente solo, e in effetti i suoi testi ci comunicano una dimensione corale. Leggendoli sentiamo che non parla solo per sé e non parla solo alle sue cattive divinità. Alesi è il frammento di un mondo che parla tramite lui, e non sono i giovani della sua epoca (non è una dimensione sociologica), è la giovinezza, è la gioventù come tale. Alesi ci sta dicendo che lui è bello dentro, ci sta dicendo che non è ancora morto, ci sta dicendo che ha un mondo dentro di sé…”
Manacorda ha inoltre raccolto, insieme a Paolo Febbraro, all’interno della pubblicazione “Poesia 2009- Quattordicesimo annuario” (Gaffi, Roma), una testimonianza diretta dell’amico di Alesi, Remo Marcone, a cui Eros affidò alcuni quaderni autografi un mese prima della sua scomparsa.
Alcune delle ospiti di questa edizione maggiolina de Il Versipelle, Agostina Spagnuolo, Maria Ronca, leggeranno un personale contributo poetico sul tema “droga e smarrimento”. Agostina Spagnuolo, nel suo modo/mondo memoriale, capace di registri pulsionali notevoli, si sta recentemente riaccostando alla poesia che ha solo momentaneamente messo da parte, impegnata nella stesura del secondo volume storiografico/paesologico irpino. Maria Ronca si basa sullo specchio infranto dei sogni e delle illusioni, sul fiore purpureo della violenza (non solo fisica) sulle donne. Suo il volume, tra saggio, prosa e poesia: “Quello che lo specchio non riflette”; in esso, vicende traumatiche e dolorose, che vogliono gridare al mondo una realtà di cui ancora troppe donne restano succubi, ricattate moralmente dalla paura delle conseguenze (scandalo, opinione pubblica divisa, disagio dei figli, vendette parallele, stigma sociale, isolamento, pregiudizio, ignoranza e malinteso). Episodi realmente accaduti, nei quali l’autrice ha fatto ricorso a pseudonimi per ovvi motivi (Luciana, Giulietta, Alice, Maria Laura, Vittoria e le altre); donne còlte nei loro momenti drammatici, in cui hanno creduto d’impazzire o di morire di dolore, ma che hanno trovato la forza di ‘risorgere’, dopo essersi opposte coraggiosamente alle avversità, e aver vinto la propria battaglia contro l’ignominiosa tradizione dell’omertoso tacere e del rassegnoso continuare a subire in silenzio. Con sensibilità e con energia partecipativa, la Ronca dipana incisivamente ogni storia, corredata di versi ora epigrammatici e secchi, ora scanditi da giunzioni liriche di pulsante emotività, i cui esiti vanno oltre la passione per la scrittura e per la giustizia.
Rosa Mannetta le fa eco, con un libro edito da Faligi, “Storie di vita rubata”, che raccoglie e racconta altre testimonianze sulle conseguenze della attuale crisi (economica, identitaria e valoriale); uomini e donne disorientati, feriti, plagiati, ingannati da un meccanismo sociale e politico perverso, che causa insicurezza, umiliazione, solitudine, e specula sulle sofferenze, sulla malattia, sulla morte. Con uno stile limpido e discorsivo, Mannetta, con la collaborazione di Francesco Orciuoli, Anna Ansalone, Elena La Verde, ripercorre i vissuti di Lavinia, Mercedes, Giorgio, Alfredo, Cecilia e tanti compagni di sventura, proposti nell’immediatezza del presente narrativo.   
Alessandra Iannone, attrice di carattere, dal potente temperamento drammatico, sottovalutata, con il suo compagno Antonio Mazzocca (bravissimo interprete pirandelliano, cechoviano e pinteriano), in certi ambiti che preferiscono mantenere nell’ignoranza delle potenzialità i talenti, e premiare i mediocri di cui non si può aver paura, nel Versipelle 18 emerge ed esordisce in qualità di poetessa dal verso lungo e raddensato, carico di simbologie e di pathos.
La sezione teatro vede impegnata Mena Matarazzo nel gustoso tȇte-à-tȇte dello sketch “L’Avarizia”, pezzo forte della coppia Sandra/Raimondo, e poi nel celebre pezzo napoletano “Bammenella”, dal repertorio di Angela Luce, duettato con il versatile Michele Amodeo. La canzone “Era de maggio” (1885), versi di Salvatore Di Giacomo, musica di P. M. Costa, recitata e cantata, chiuderà quest’ennesimo e ben nutrito appuntamento con il nostro ‘Versipelle’ (al quale partecipano Mirella Merino da Conza, Gennaro Iannarone, Hera Guglielmo, Christian Cioce, Ilia Caso e Oscar Luca D’Amore), e che, grazie a Dio, riesce a interessare, incuriosire e attirare un pubblico desideroso di crearsi un’alternativa all’ovvio e alla noia dell’abitudinario.

                                                                                                         LOGOPEA





Agostina Spagnuolo
Da destra: Armando Saveriano,
Oscar Luca D'Amore






Davide Cuorvo, Hera Guglielmo
Davide Cuorvo





Eros Alesi
Da sinistra: Gennaro Iannarone,
Monia Gaita
















Giorgio Manacorda
Giuseppe Pontiggia
















Maria Ronca
Da destra: Mena Matarazzo,
Hera Guglielmo
















Da sinistra: Michele Amodeo,
Antonio Mazzocca, Alessandra Iannone
Mirella Merino














Pier Paolo Pasolini
Rosa Mannetta
















Simone Lucciola
Illustrazione di Simone Lucciola
"Mamma Morfina"















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