mercoledì 13 maggio 2015

GIUSEPPE VETROMILE SCHIUDE LE FINESTRE DEL SUO MONDO PIÚ INTIMO E VERO



Il disvelamento raccorda segmenti temporali 

in un tutt’uno inscalfibile e compatto






Ecco un libretto che nel formato, nella grafica di copertina, imprime forte l’impatto con la memoria piacevole di certe pubblicazioni del passato, dalla grafica essenziale, al limite dello spartano, e perciò assai efficace. Vetromile ne è fuor di dubbio l’ideatore; del resto questo “Congiunzioni e Rimarginature” rientra nella collana, dal poeta napoletano concepita e diretta, “Parentesi Quadra”, a cui appartiene, pur con veste tipografica difforme (dimensioni verticali e involucro illustrato con l’olio su tavola “Vite Parallele” della pittrice Eliana Petrizzi), l’antologia “Ifigenia siamo noi”. Le dimensioni rettangolari si rivelano perfette per il verso lungo di Vetromile, e la qualità della carta, la grammatura, il riposante tono vaniglia lontano dall’indifendibile bianco accecante (lucido e in stampa digitale) di “Ifigenia siamo noi” o di “Vivere balenando in burrasca” di Gennaro Iannarone (per la Collana di poesia e prosa “Giallo Tulipano” – Scuderi Editrice) depongono a favore di un invito alla lettura in una comoda poltrona, con una tazza di the a conforto di una primavera irpina ancora incerta nella temperatura media tradizionale.
Giuseppe Vetromile è una delle personalità rilevanti nella sfera poetica del sud. L’intensificazione della sua presenza letteraria di qualità non subisce arresto o flessioni, poiché tende a una coscienza vieppiù profonda di se stesso nell’attimo presente, sulla macchina del tempo che esplora l’ieri, nella proiezione possibile dell’avvenire. Senso della realtà e senso del possibile sono come già per Musil i tasti esistenziali di questo poeta che si moltiplica nella consapevolezza dell’esperienza e della meditazione, frequentemente, come in tal caso qui, sul cimentante banco dei ricordi, delle rievocazioni a imbuto di un tempo lasciato, ma non superato, che conserva indissolubili gangli emotivi, decisivi per l’evoluzione in progress di un verso che tende all’esposizione della ‘sofìa’ senza limiti arbitrari. L’ingegno del poeta si configura in una ‘accumulatio’ con effetti linguistici di pregevole ‘corpus’, per distillarsi nel momento contrario che astringe, modera, stonda, senza però compromettere quella caratteristica quantità di riferimenti, che incanalano i versi in un decorso flessibilissimo, liquido, acquerellato. È interessante quanto il fervore e l’impianto idealistico possano sollevare un lembo del loro ordine sistèmico per lasciare intravedere il disincanto, col dislivello fra tristezza e amaritudine. Maestro del gioco, il poeta non si lascia sfuggire di mano un esercizio di mimesi complementare alla inesorabile drammatizzazione della sua e nostra ‘commedia umana’.
La sua Weltanschauung si volge alla considerazione degli affetti familiari ‘centrali’ con le neuronali connessioni e tutti i sottintesi che continuano a influenzare l’oggi nel pubblico e nel privato. Con sincerità e perspicacia espositiva riesce in tutta la sua opera poetica (19 libri!) a dar risalto esplorativo e criterio di apprezzamento al fondamentale concetto di “essere”: essere nel mondo/essere mondo. E citando sottovoce gli aristotelici, i platonici e quanti dopo son venuti con le loro dissenzienti investigazioni, egli dà risalto alla realtà esperienziale, all’idea, oggetto del pensiero, ai valori che fanno la coscienza personale e determinano l’azione.
La binaria consapevolezza, artistica e umana, le precise corrispondenze linguistico-metaforiche, la vis ispiratrice di angoscia, solitudine, amore, morte, speranza e riscatto, confluiscono in una poesia dalle sempre nuove possibilità di indagine e di meditazione. Soprattutto, e qui più che altrove, il poeta di Sant’Anastasia governa il tempo come lo avverte e come lo affronta e vive, annullando i comparti dell’allora e dell’adesso, affermando la sua individualità personale, che in buona fede non bara mai ( o non ce ne si accorge ) con la manipolazione mnestica. Non è lecito né ci compete misurarci con il grado di affidabilità dei criteri prismici di verità in quel che ci narra e svela: è la verità che si appropria di lui per affiorare e permettergli di divulgarla, perché storie e personaggi che reclamano spazio non vengano zittiti e compressi o addirittura confusi e smarriti nel ginepraio delle dimenticanze.
E se la verità è inevitabilmente soggettiva, se non si identifica, in misura d’assoluto, in nessun uomo, poeta, artista o filosofo, allora non ci resta altro che rispettarla e porci in attento, umile ascolto, credendo nella parola, senza pretendere di abbracciarla e magari metabolizzarla con un solo sguardo o con una sola lettura.
E appellandosi quindi al contegno e alla virtù dell’anima, Giuseppe Vetromile rintraccia e dipana il nastro rosso che lo collega a padre e madre, a figli e a discendenti: in ciò il legame delle ‘congiunzioni’, il rimettaggio dei fili dell’ordíto nelle maglie dei licci, con la cicatrizzazione giusta, dovuta e onorevole dei travagli, dei dubbi, delle conquiste, delle pene e delle conciliazioni di vite assolte nei contrasti di imprevedibili correnti.
Luciano Anceschi, da Bologna, all’eccellente Toti Scialoja scriveva un aneddoto illuminante: “
Fidiamoci della memoria. Il ricordo dei nostri primi incontri profonda in anni lontani; ma è sempre connesso a qualche sorpresa o invenzione o meraviglia. Ho nitida alla mente l’impressione di una tua mostra, a Milano, al Milione, in cui tu mi mostravi certe segretissime risorse liriche della luce che si nascondevano tra colori oscuri d’angoscia, e che bisognava scoprire con accorgimenti ricchi di inviti e di significati formali. Ormai da molti anni in un certo modo noi lavoriamo insieme in un campo difficile da coltivare, devastato dall’improvvisazione apparentemente colta, dalla presunzione arrogante, e adesso anche minacciato dal tentativo insensato di restauro, di melenso recupero di un modo arcaico dell’idea di ‘bellezza’.”
Discorso che può benissimo applicarsi a Pino Vetromile: benché non sia egli pittore, la poesia che produce, la poesia che per suo tramite ‘avviene’, ‘si compie’, aduna i colori, annovera il respiro profondo di un quadro nel quadro; l’esperienza individuale s’irraggia nel collettivo e una semplice nuance s’ispessisce di significati dove il pathos e l’acutezza dell’intelligenza si bilanciano nello stesso empito di vitalità, sul medesimo territorio.
Non è pittore, Vetromile, se non nelle suggestioni, nelle macerazioni, nelle trasparenze, nei rapimenti e nella densa sinfonìa sinestetica, appassionata ed eclettica della parola; ma pittrice in accezione tradizionale è stata la madre, per vocazione, forse, o per quel che Nietzsche diceva di se stesso a proposito della scrittura: per liberarsi dai suoi pensieri; o per cantare con voce differente la realtà che la espropriava e affermare invece una tessitura visuale, onde sognare nessun altro sogno che non il suo, con intatte le proprie, personali norme di interpretazione. 
Il poeta costantemente devolve con amorevole attenzione questo suo pathos, che è fede totale nell’emozione, ai viandanti della vita, esponenti lividi e contusi della stessa frammentata vita imperfetta, in una configurazione verbale che tocca la sensibilità linguistica in quel punto nodale condiviso da autore e lettore. Moderno e classicista al contempo, si concentra sulle relazioni umane con sorprendenti metafore di robusta tensione morale e metafisica, tra simbolismo e espressionismo come il Tomas Tranströmer del secondo Novecento, senza distanziarsi troppo da una chiarezza espressiva poundiana. 
“La mano già sulla valigia mi dicesti dunque/ io parto/ ma tu non seguirmi e/ non cospargere di petali la scia d’amore che ti lascio/ e neppure rendimi le parole che ti ho fatto/ a misura del tuo corpo/ figlio// perché un giorno tu possa convertirle in inchiostro indelebile/ sulla tua pelle pellegrina// Allora non ti vidi più/ padre/ come risucchiato dal cielo/ o confuso nella terra/ sparito dalla stanza// e il tempo è un’invenzione per crederti ancora qui/ seduto sulla tua poltrona preferita…”
Il clima dell’abbandono causa disappunto, incredulità, strappo, è l’anticamera di un dolore anticipato, annunciato, che supplizia eppure funge da propellente per la futura scrittura dove la malinconia senza imbarazzo coltiverà la forma cantabile di una latenza, in cui il tempo manipolato ha il privilegio del ritorno a ben più di un simulacro.
“ Mi dicevi o volevi dirmi / io torno ogni sera ai tuoi occhi/ ma tu non vedi che lembi trasparenti/ che oscillano alla frequenza dei miei/ polsi // E poi non ti accorgi del clarino/ lí in un angolo suona da solo/ per inerzia / dal mio fiato liquefatto/ escono note e sillabe di ricordi// Frastuono fu la mia vita/ tu non t’accorgi più di me che quando/ s’alza la luna/ di notte/ a illividire le mie note di padre// Tu segui ora una scia luminosa/ al cospetto degli dei/ di polvere è ormai il tuo clarino/ e il ‘la’ è perso in mille clangori/ e ghirigori// La vita è un sogno mi pare che dicesti/ o tu stesso sogno della mia vita” 
Confronto di ombre ed echi tangibili con una ficcante dinamica di montaggio che preserva qualche ambiguità, mentre il pensiero si lascia precedere dall’armonia delle immagini che forano il cuore, disertano le spoglie del ricordo per reificarsi in un annichilimento del sospetto di reiezione genitoriale; per un attimo, per un lampo; ma qui la metafora della mano sulla valigia prefigura l’allontanamento dalla vita, non certo una fuga dalla famiglia. E il dialogo si dipana a posteriori grazie al simbolo del clarino, la cui ‘voce’ è moto dell’animo paterno e sublima lo sgomento e il malessere. Orfeo effonde la sua arte e non si volge indietro, perché ha davanti a sé il ritornante che con la poesia, nella poesia, ha immortalato. Il poeta non ammette altro spettro intorno a sé che quello dell’amore, ‘parola enorme’ e ‘roboante’. Eppure albero, vela, timone e rotta, nel viaggio fluttuante oltre ogni fraintendimento e avverso ogni convulso pessimismo. 
Alla madre sordomuta dedica elegie di chiara dolcezza, tutte a comporre un bouquet di sottili trine che non celano o mitigano il dramma, ma ossigenano la fierezza della franca umiltà -e non paia ossimoro-, corroborano
le sponde romantiche della vicenda, spirando dentro e fuori come brezza gentile. Dopo la splendente dedica introduttiva (“Quando a mia madre chiesero perché/lei rispose che fu colpa del vento/e che cadde giù sulla terra/strappata dal volo di un angelo//ora attende con impazienza/ quelle ali/per risalire in paradiso”) ecco che strepitosamente Vetromile si “inleia” e svela, quasi con la suggestione miracolosa d’una formula magica: “ Sono l’ultima fanciulla di Ottaviano e prendo il sole/ tra le braccia grezze scivolando sull’ala del vento/ come una farfalla rudimentale/ io l’antica stazza di prorompente ma fugace/ beltà/ io il sorriso la carne lo scoglio di piazza vittoria/ e santa lucia che mi tiene in barca/ io la possente persistente contro tutte le mode del tempo// sono rimasta l’unica fanciulla che guarda in alto/ sulle pareti mio padre e mia madre severi e torvi/ sono un altro mondo mai vissuto/ ma raccontano a segni e a smorfie di volti/ i miei raccapriccianti amati/ i miei dolorosi fratelli// sono rimasta/ e qui vorrei abbandonarmi sul terrazzo sgretolato/ all’ultimo sole d’agosto/ senza più il frastuono del mare/ né l’ala del vento che mi accarezza/ questa pelle d’elefante/ io sento ora l’armonia degli angeli/ verranno a prendermi di notte/ mentre tremo ancora sulle labbra/ la parola di Dio che non so/ che non sento/ che non vedo/ ma respiro come l’aria/ necessariamente”
La madre lo ha dato alla luce, l’ha messo al mondo; il figlio ricambia, donandole la parola, il senso colmo e cosciente di suono e significato. Il poeta la descrive in vari momenti e fotogrammi, che per tenerezza e genialità
soverchiano il foglio, ci sopraffanno. Fanciulla, donna, anziana: le tre età cruciali che compongono un’unica, lunga poesia, o forse un solo racconto lirico, una costellazione di atti, desideri, pensieri, paure, sprazzi di infinito ‘sub specie narrationis’. Sempre accompagna questa madre la ‘passio’, che è consegna di dolore, ma anche esercizio morale di dovere e dedizione all’esistere, pur in un limbo privato, che non è monade, che apre spiragli, spalanca balconi, ha porte ben oliate. È, questa madre, protagonista più alta che non l’Ifigenia a cui si aggrappano o aderiscono poetesse che mai hanno conosciuto la segregazione, l’isolamento, gli effetti sociali del pregiudizio, che mai hanno subìto l’immolazione coatta o scelta affinché venti propizi sospingessero ‘avanti’ le loro amate creature, un ideale, un progetto politico. Questa madre ha un ‘che’ di Andromaca, è l’acquaforte in versi di un’Alcesti che non vuole sopravvivere al marito, e che, all’inopponibile dipartita del compagno, ne sorveglia lo sboccio e il rigoglio del seme. Alleva i frutti d’amore, vincendo la sfida istante per istante.
Ed eccola ragazza, intenta a sgranocchiare pensieri e caldamente riconoscibile a se stessa, in una planitudine che attrae e sconcerta come i suoi occhi spalancati su un mondo da cui Dio ha preso le distanze, come distanti da lei noi sentiamo i genitori ‘severi e torvi’, un ‘altro mondo mai vissuto ma raccontato a segni e a smorfie di volti’.
Questa ragazza è sbalzata nella pietra mitologica con una felicità di tocco descrittivo che si assicura la commozione (in accezione latina) della posterità: il clima è placido e straniante, in parte invece riserva smottamenti nella tragicità dell’impercettibile; dice di un’emarginazione terribile e quieta, che turba più coloro che la incontrano e la amano; e l’inleiamento/inleiazione del figlio è esplicito/a senza spettacolo empatico nella poesia che segue (“Rimarginatura finale”), dove egli le facilita la pace, la riconcilia con i difficili debiti del passato nelle carceri casalinghe e fuori nella brughiera gerbida di un altrove insensibile, espropriante,  estromissorio (il tema della casa è costantemente, per Pino Vetromile, rifugio e galera, mentre l’esterno è sovente plaga di fatale, ottusa incomunicabilità, quindi l’altra faccia della frustrazione bifronte). E ci lascia l’immagine ancillare di una custode invecchiata presso la finestra, con un piccolo forziere in grembo, che a pochi (forse a nessuno oltre che a lui) è dato schiudere per lasciarne spillare la luce.

                                                                                              ARMANDO SAVERIANO



GIUSEPPE VETROMILE – CONGIUNZIONI E RIMARGINATURE – SCUDERI ED. 2015 – PP. 64 – EURO 10.00



IL SUONATORE DI CLARINO

Dalle ombre del tempo, furtivo,
un delicato profumo di note
pervade spazi grevi di ricordi.
lieve melodia nel cuore
sulle onde di malinconie lontane,
dolce musica di padre:
trascinavi tristezze 
fuori dal mondo,
ammorbidivi dolori.
La tua vita: un’estasi
raminga. Cantavi
la gioia dei figli
e per te, e per Dio, suonatore
scalzo nell’anima,
innalzavi nenie al paradiso.
Mai più sciolto 
nel ghiaccio della morte,
levita ancora
l’ultimo tuo respiro
leggero nel cielo: un ànsito
tra mille note di clarino

*

SORRIDE ANCORA MIA MADRE

Mia madre seduta accanto a questo scorcio di primavera
di tanto in tanto sbircia dalla finestra
tra un sole e l’altro
il mondo che fu
il mondo che le appartenne
e un mare lontanissimo dai suoi occhi stanchi
Lei ora è come l’autoritratto appeso al muro
consumato ma ancora in bilico
tra questa e l’altra verità
tra la tela ad olio screpolata
e quest’ombra sfrangiata e caracollante
da una stanza all’altra della reggia ottavianese
dove alligna non potendo più oltrepassare
alcuna soglia
alcun confine
Lei è tutto il suo mondo
è fatta di carne ed ossa e d’amore ed anche di quadri suoi
tutti intorno alle pareti
tutti intorno alla sua vita
che se ne va piano piano dolcemente
in asintotico infinito silenzio
che nessuno sa e nessuno vede
che lei è ancora lì nella torre
e saluta laggiù il cavaliere bianco
il suo amore perduto a Napoli
tanti secoli prima eppure è oggi
è ancora oggi nonostante le crepe
e le voragini nel cuore
l’alito del tempo amaro sulla sua pelle
raggrinzita
Sorride ancora mia madre e non sa quanti giorni
sono davanti a lei
non vuol sapere nulla di tutto questo
lei va
senza andare
perché ogni suo viaggio è ormai inutile
e rimane qui accanto alla finestra
a sorridere al mondo che passa
e ai suoi occhi pare buono
tutto il tempo che le resta

*

DENTRO CASA

Dentro casa non ho l’altezza delle pareti
mi appiattisco dunque sul pavimento per sentire meglio
il suono della terra proveniente dall’altra parte
della mattonella
io così evito il blablà dei condòmini tutti
reclusi nei metriquadri a loro spettanti
come unità immobiliare unica fede
del loro ancorarsi qui sulla costruzione
palazzo massimo con comodità ad ufo
mentre si stacca remota un’ala trasparente
nel consunto volo d’angoscia slargato
sui millenari perché
(ed io sono e dove sono e dove vado
ma perché)
Sciama lontano uno sfilaccio d’anima
e così noi un piede dentro la stanza
una mano fuori tesa
verso l’oltre

*

GUIDO IL MIO CALESSE

Guido il mio calesse verso la fortuna
andando di sbieco
evitando i fossi
e quella parola enorme – amore – 
ma non passo oltre
e ristagno
qui
tra mille cose inutili
e quella parola roboante – amore – 
irraggiungibile
mi sganghera il futuro
mi appiattisce sul selciato
mi riga il solco di sangue
a più non posso

GIUSEPPE VETROMILE




Giuseppe Vetromile


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