mercoledì 20 maggio 2015

DIONISIACO E APOLLINEO NELL’ABBANDONO DI WANDA MARASCO



UNA RICOSTRUZIONE STORICO BIOGRAFICA DI ADERENZA PASSIONALE, DIVAMPANTE, INQUIETA






Una parola intrisa di fluido magmatico per la ricostruzione epocale fedele, suggestiva, passionale, lirico-epica,  funziona come macchina del tempo, in grado di trasportare il pellegrino delle pagine in un passato riproposto con chiave filmica, nei più minuti particolari, dando vita ad un affresco movimentato, stupefacente e condivisibile, dove odori, colori, suoni, interior coscienziale strabiliano dalla prima pagina all’ultima, conferendo all’autrice, Wanda Marasco, in lizza per l’attribuzione del Premio Strega di quest’anno, la palma di una primazía aurorale assoluta, oltre le altezze e i meriti puramente letterari, al di là di ogni effimera e accesa competizione. 
La scrittura, ritmata fuori del virtuosismo ma caricata di vis votiva, sostenuta dall’innervatura poetica e dal propellente drammaturgico di una teatralità-humus scandita dalle penombre e dalle abbacinazioni dell’anima, dalle dissipatezze e dagli splendori, effonde una lealtà intellettuale di fronte alla quale non si può restare indifferenti; si può parlare di convergenza tra lucida intelligenza e coerenza demiurgico-registica e tra segnatura logo-etica affabulatoria (‘geniale’ al punto da evocare il fattore ‘diabolico’, demònico nell’accezione greca classica), in una partitura sconfinata di sensazioni, morsi ossessivi, ghigni mistèrici e metafisici, lardellature di aspettative e di laceranti disillusioni, incursioni nell’ottica della visionarietà estesa all’anabiosi della mania e all’eros delirante in sequenze crude prive del pregiudizio perbenistico dalla vista corta e sorniona.
Il respiro è quello della saga, che trasposta sul grande schermo di una volta, si definiva colossal.
La maestria della Marasco nella contrappuntistica dei passaggi psicologici alterna le vulnerabilità, i furori, le scaltrezze e l’orgoglio, l’ardita sfrontatezza, le spine ironiche, le macule di colpa e i rovi del malessere di un protagonista che dialoga col suo doppio (Antonio -Totonno- Mancini, ribattezzato ‘Peppino’, il ‘Peppino profondo’, “ombra e inganno a me di me medesimo”) in una plausibilità impressionante, in franchi empiti pulsionali, in affondi e strazi, in vaneggiamenti e lamentazioni o in rimuginii non esenti da trasfigurata dignità, mentre intorno palpita senza linee di divisione l’affresco di un mondo concitato, frastornante, sporco, impietoso, corrotto, patetico, eppure vero, credibilissimo, riscattato da figure che masticano all’occorrenza l’atavica placenta dell’egotismo altruistico e di una pur ruvida o episodica solidarietà (Mastro Ciccio –Michelagnolo–, Giuseppe Bes e Giuseppina Baratta, Marittella, suor Maria Egiziaca, Antonio Mancini, Don Rafele, Stanislao Lista, Domenico Morelli, “ ‘o masculone/’o sturcio ‘e femmena” durante la patita trasferta a Sant’Agata per consegnare il busto a Verdi, Luigi Fabron, Ernest Meissonier). L’impostazione del romanzo riserva soluzioni figurative e tonali di assoluta novità, prorompe in un linguaggio che accozza la lingua alle trafitture piccanti, mordaci e bramose del dialetto in una perfezione evocativa capace di reificare vitalità feroce e ineffabile attrait. La Marasco è Fo nell’ardore protoromantico, nell’esatto valore della sfera sensibile, nelle scorticature delle provocazioni, nelle sottolineature (d’esemplare lucentezza narrativa) delle malizie apprese, delle paure funeste e nelle audacie ruspanti e talora formidabilmente vincenti nell’apofonia del supponibile, nell’incertezza della verificabilità, pur nei fumi illusorî e avventati di qualunque vaticinio scaturito dall’entusiasmo e dal desiderio. La fusione elegante, senza soluzione di continuità, tra lingua e dialetto (non sottovalutando gli inserti in francese), dà origine a un parallelo ricco, curioso, interessante, inestimabile del ‘grammelot’, qui penetrabile, accessibile e patente, di lampante e gustoso estro, di sublime effetto. Le inflessioni del parlato sono naturali e bilanciate nelle esuberanze e nei ritegni, nella verità delle insofferenze e nell’intimismo del rimbalzo delle ombre (tenerezza e violenza, voluttà e calcolo, fratellanza e dissidio, chiacchiericcio ed elucubrazioni, scrupolo e avventatezza, delitto e pentimento).
La vita, le vicende, i percorsi artistici, la malattia, gli amori di Vincenzo Gemito (Mathilde Duffaud, Nannina Cutolo), che secondo Di Giacomo “era stato Crono” nello scaraventare l’infanta Peppinella, pupa di pochi mesi, ‘nfaccia ‘o muro, mentre Cangiullo e Scarfoglio citavano Frankenstein e il Golem, attore tragicomico nel profilo che ne fa il Virnicchi a Villa Fleurent (Chisciotto, Amleto, Sigismondo, Orlando), sono punteggiati in un rinvío mirabile di percetti contraddittorii, di dimensioni temporali oscillanti e quindi slittanti nell’atemporalità del meccanismo narrativo e dello statuto dell’autrice; la Marasco ha lavorato di fino sulla scottante umanità dei percorsi di identità e permanenza nell’impermanente, quasi reinventando un’epopea e gettando le basi per il mito, servendo ai suoi lettori abituali e nuovi su vassoi di cimentante impegno la presenza del diverso, dell’anomico creativo, del multiplo affascinante e instabile, imprevedibile ed errante anche durante i quasi vent’anni d’autosegregazione. Gemito (nomen omen per errore di trascrizione), “criaturo ingrato e presuntuoso”, ‘scigna e animale del diluvio’, ‘cuore di bestia’, ‘pazzo per autorizzazione dello spirito’, è genio malinconico, furibondo e sfavillante scaturito dall’abbandono, termine fulcro e spunto di infinite considerazioni, di molteplici rimandi; è l’abbandono stabilito dal fato, e che in varie circostanze si ripresenterà a dannare e a risarcire, che rende ‘Vicienzo’ padrone del suo ruolo drammatico, scandito dal tuono senza congedo di un’esistenza turbolenta e certamente magnifica, da tragicommedia inevitabile come il verso della ‘ciucciuvettola’ e dell’upupa, come le ali ipnotiche di una effimera sopra una foglia cedua. È l’abbandono che preannuncia il travaglio di cuore e coscienza esposti alla protervia del destino, anch’essi su una ruota girevole, che riserva sempre lividi, ferite, perdizioni, detonazioni di folli speranze e capitomboli di sorte volta a indulgente, inaspettato favore. È l’abbandono che largisce, in qualità di supernaturale indennizzo, l’ingegno, infallibile e scapricciato, benché non apotropaico. È l’abbandono che consente l’esplorazione formativa del chaos; che crea i presupposti ambigui per episodi fermamente significativi e per saporiti aneddoti leggendari: sia nella bottega del Caggiano sia in quella del Maestro Stanislao Lista con le due sorelle, zite e bizzoche; sotto le volte del Convento di Sant’Andrea, nell’atmosfera torrida e sensuale di Villa Capezzuto; nella Parigi trasformata dai ‘grands travaux’ progettati dal barone Haussmann nel Secondo Impero; nelle cavalcate tra i boschi di Saint-Germain e Morly col Meissonier che impartisce lezioni di politica, letteratura ed arte; finanche nel laboratorio per lo scenario della festa annuale di raccolta fondi, organizzata al manicomio di villa Fleurent; è l’abbandono che innalza a fama e precipita nei capovolgimenti della concertazione splendida e bizzarra del simbolo dell’avventura umana, con tutte le sregolatezze, le ostinazioni, le mosse false, i tradimenti subíti o perpetrati, le menzogne, le paranoie, l’incerto quotidiano, l’impossibilità di risanare il tragitto infelice e maldestro, o di rimarginare quello sognante e sprecato, le accensioni dello spirito e lo spegnimento della sete.
E qual è l’abbandono che ha sprizzato nel mondo il talento, il fiammante poliedro e il saturnale soffio di Egeria che meravigliosamente si disfrena nel circuito sanguigno di Wanda Marasco?
Con una simile opera compatta, turgida, eclatante, incomparabile per sortilegio estetico e per rifrazione eternale, abitata da folla di personaggi che marchiano anche quando appaiono e scompaiono, anche quando hanno identità e incidenza ‘minore’, con siffatta cattedrale (di dimensioni tali da provocare rapita soggezione) che impolvera, immiserisce e castiga ogni velleità di contendenza, Wanda Marasco, a nostro tutt’altro che sprovveduto avviso, è già adesso trionfatrice morale di qualsivoglia competizione, confronto o paragone.
Condannarsi a non entrare nelle giornate estatiche/traumatiche e nelle notti acide di Vincenzo ‘Gemito’, nei suoi sconcertanti monologhi, nei grovigli di una psiche sulla graticola del bilancio finale, nelle alterne fasi ‘r’ ‘o sciuscio’ inesplicabile, nella carnalità esultante e piagata di questo artista richiamato in vita da un’artista d’altra gemellare arte, è precludersi un piacere intenso e doloroso come un orgasmo difficile e appagante quant’altri mai.

                                                                                                 ARMANDO SAVERIANO



WANDA MARASCO – IL GENIO DELL’ABBANDONO – NERI POZZA, VICENZA –  2015 – PP 352 - € 18.00




Wanda Marasco
Presentazione libro
"Il genio dell'abbandono"
venerdi 22 maggio 2015


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