giovedì 26 marzo 2015

MORELLI TIENE IL PASSO NEL PROPRIO SILLABARIO


UN CANTIERE DI FORTE EMANAZIONE DEL LINGUAGGIO






Un poeta può essere assente dalle stampe anche per un considerevole intervallo, senza per questo che abbia smesso o rallentato la sua personale perlustrazione della materia per vicoli bruschi, assopiti giardinetti, slarghi ipocondriaci, svolte luminose, viottoli segreti, pertugi ruderali, forre arcigne e indecifrabili boschetti. Ogni trascurabile dettaglio, ogni sussulto, ogni transito anche fulmineo e nistagmico rappresentano semi per le variazioni della sua fertilità creativa, humus per i suoi registri, menù di prosciugamento stilistico e di ricostruzione del senso (come nel nostro caso): pertanto finalità intrinseca e imprescindibile per la rappresentazione dell’impotenza a dire, ma raccogliendo la sfida perennemente lanciata alla Poesia in quanto varco e ponte ideale di voce e respiro, di pnèuma gnostico/gnoseologico. 
La pausa, piuttosto, può essere determinante per il filtro dell’approdo ad un territorio di inedita declinazione, per l’approccio a nuovi o risensibilizzati accenti, a differenti/difformi sfumature, sotto un aspetto identitario magari insospettato.
Prediligiamo Morelli per la sua discrezione, per il riserbo e il pudore a cui affida la propria produzione avulsa da cerimonialità tanto legate all’ansia disperante di condotte altrui, ch’egli non depreca, limitandosi, nei fatti, a non condividerle. Schivo e parco rispetto al frastuono della parola strillata nel mondo, disciplina correnti di pensiero delle quali amministra connettività e istanze dosando nel logos la facondia e la complicità perfetta tra intelletto e coordinate emotive aperte alle visioni, ai richiami, a rimembranze di cadenze arcaiche, a bergsoniane intuizioni di abbaglianti espressioni tonali e di morbidi slittamenti nell’ombra mitologica del sé e di quanto è o si fa (obiettivamente o illusoriamente) percepiente.
Nell’antologia in questione (“Butta il banno”), che la foto di copertina ci indurrebbe a pensare incentrata esclusivamente sul memoriale del favo generazionale di famiglia (di lancinante struggimento i due testi in stretta consecuzione a pag. 30/31), sorprende e intriga la rivelata vocazione all’alchìmia del breve, dello scandìto assonante, non di rado ‘cantabile’, in componimenti dove eleganza e precisione trovano equilibrio proprio (ma non solo) nelle clausole allitteranti, nelle metonimie, su e giù per i gradoni di pietra lavica delle sensazioni -negli impeti e nelle smussature- e delle immagini, che completano l’ineffabile organo della trasmissione, della condivisione, della vellicazione della sfera ontologica.
Basti immergersi nei voli radenti di certe fascinose peregrinazioni che intrigherebbero Roland Barthes, Léon-Paul Fargue e il nostro Enzo Rega: “uccello di ferro/lasciami a terra/Berlino ha il cuore ghiacciato/i tigli imbiancati, i musei chiusi/lo Sprea non si galleggia/a Spandau la strega/balla sui tavoli/e la neve è come lucciole,/fatti allora uccello adesso/con le ali spruzzate/guarda la Germania bianca/e poi fatti solo carretto/sotto il sole di Napoli/che ci beffa.”
Basti lasciarsi avvolgere da lampi nottacei che un poco ammiccano all’orfismo, e così abbiamo: “io sono l’uomo che mente a se stesso/che vive da morto la sua vita/che non dà amore a chi lo ama/piccola anima persa in un grande guscio/sempre secondo alla gioia:/quando sarà tardi/potrà mai perdonarsi.” Frammento immediatamente preceduto, nel libro, da questo morceau, che sancisce, anche per ritmo e impossibilità di conclusione, il tratto essenziale della raccolta: l’incomprensibile metafisicheggiante con cui la parola intende misurarsi…
“mi riporto a me stesso/isola solitaria delle frasi fatte/snocciolando nuvole, piovaschi/verde che ancora non brilla/ma il vento carezza le palpebre/e ribollono le storie non dette/finché il tuono ci sveglia/e l’ombra si allunga di soppiatto.” O, a pagina 11: “come una penombra/vivo in caute onde,/malcelata tenda/vaglio da me le soglie/e brina si depone/su lembi di tramontana.//come una vergogna/che cieli grigi sbiancano/l’ove più retratta/di questa sera sciatta/periti mancamenti/su scalini rotti.” 
Finché non assottiglia il verso (e lo acumina) in stendardo epigrammatico: “alba sale a nebbia/non si vede il sole”; “storia vecchia,/pagina bianca.”; “ oggi niente sogni/piove nella vigna.”.
I paesaggi della mente s’improvvisano esca a doppio taglio: per intuizione, per linguaggio; la distanza fra i luoghi e i non luoghi irripetibili si annulla nello sfrigolìo di una fiammata; lo stupore malinconico irrompe, mentre si fa segno indelebile la meditazione che invoglia il lettore ad una attenta navigazione del sottotesto, del voler dire per poi infrascarsi nell’elusione, del manifesto nel subitaneo suo nascondimento in una forse divertita negazione all’interpretabilità “scontata”. È questa l’antica, pellucida irriverenza morelliana che fa ogni tanto capolino, nelle trasmutazioni del testo sottoposto a dilemma tra pulsione e coscienza.
Esemplare è in tale accezione il componimento a pag.67: “c’è chi vive al mio posto/chi piange le mie occasioni/io sono vile alla vita disposta/non piango non rido/sprofondo nel grigio/del mio passato contesto: sega del tempo/trafigge il petto/l’eccentrica lama rigata/stride sul crosto dell’olmo/vola giù dal ramo/l’ostica foglia deforme:/come scheggia di anima/rapina la mia parvenza.”
Con “Butta il banno”, Mario Morelli si accosta a un’altra soglia, che consente un accesso in più (alternativo e addizionale) al procedimento di conoscenza della molteplice varietà della sua peculiare poetica, a questo punto sotto ogni crisma “versipelle”. 
Egli colloca la parola albale in un primo momento/movimento del dire, come ossimoricamente, impossibilmente ordinando, in obbedienza a leggi comuni, l’informe frammentario e mutevole del ‘chaos’ tra materia e pensiero, riconoscibile o presentito, appena sfiorato e quindi, in successiva istanza, sottraendolo all’esperienza e destinandolo a una struttura di senso meno visibile, meno leggibile, meno consegnata all’impiego sistematico di una disposizione teoretica idonea.
Lo scaffale su cui si colloca questo scandagliante iter poetico del medico umanista, non meno carismatico di Antonio Spagnuolo e di Aristide La Rocca, allinea e rubrica la gravità e la levità dei suoni e di heideggeriane ‘chiamate’, per cui la voce deve essere còlta e accòlta nelle percezioni affioranti dell’archetipo, dove tono e corpo, spirito e materia, visione e sogno, immaginazione e morgana, volùte intellettuali e incursioni della sensualità (“ti scarfoglio come una sponza/e accarezzo la meliga del tuo pube”) si decomprimono, si intercettano in un’emblematica delle cose e degli esseri, per spaziare in una meticolosità rabdomantica, dove anche le ombre, impalpabili o marmoree, irradiano un bagliore metalinguistico eccezionale. 
“il gatto fusa per piacere/lingua di terra si allunga/molto spesso si usa/buttare tutto via nel fosso/e ridere senza volere”; “Palau, alga di fango/mare spesso/eterea falena/che si spegne.”; “le lunghe poesie mi sconfiggono/il fiume ritorna fiume/il gelo della terra/costringe a riabbracciarsi/ma le parole vuote della vita/non spiegano nessun perché!”; “sento vento/alle crepe del tempo/occhi lunghi/che guardano//una vita discorsa/nessuna posa/nessuna impasse/vento gelido/tra le fesse del sogno.”
Sicché constatiamo che energia e verità dell’esistere si dilatano, confermano fragilità e tentazione anche non necessariamente al cospetto del più vicino, accessibile, confortante confessionale; mitigano all’occorrenza, e per cautelativa autodifesa, i lacerti interiori, onde lasciare alle urgenze emotive occasione di rilancio in virtù di un rovesciamento delle evenienze del viaggio, in un tempo scomposto e ricomposto, struggente, per attimi ‘meduseo’, enigmatico.

                                                                                            ARMANDO SAVERIANO



MARIO MORELLI – BUTTA IL BANNO –  Collana Pugillaria – DELTA 3- Grottaminarda (AV) 2015- PP 96- Euro 12.00



sono asciutto
come letto del fiume
sono lordo
del pensiero vero
sono stanco
come una chimera
vivo di carta
e sono rigida sfera.

*

credimi in gioco
per mera sopravvivenza
il mio volto rubizzo
il mio cuore stravolto
passo ore a spiritare
e non viene mai a fine
quest’ombra che sale
e questo sapore come
di amaro papavero rosso.

*

Come sa di vita…
questa tua lontananza
nella città medioevo
dove tutto scende e sale
e le suore nei convitti
sanno scherzare:
alla cupa del belvedere
sai saltare per
ritornare nella tua pelle.

*

non riesce il silenzio
sotto il cielo complice
a contentare il senso
del caso: un incontro
per strada, come di consueto,
ma quando? quante vite fa?
eppure adesso.
la memoria dovrebbe
dosare il suo ritmo
ma affolla i pochi minuti
sono sintesi di
un’immensa rovina,
nonostante troppe
parole premano,
alcune necessarie,
altre forse inutili:
vale consegnarsi umili
al luogo e ai colori,
autunno aiuta
e un saluto è storia.

*

rabbia insana acceca,
è venuto anche
il tuo momento
padre:
è tutto strano
tu ringiovanisci
nell’abito buono
e il tuo nuovo letto
si stringe al tuo petto
sempre più lontano.

*

tu la chiami morte
ma lei è rimasta sola
la tua metà importante
come un pulcino sulla soglia,
questa partenza senza fiato
le ore fredde a sentirti
e la chiami morte la vita
dentro il feretro stretto
la cravatta nuova e i guanti
e il cielo di grandine
sola la tua sola moglie
velata di disperanza
sola sulla soglia spoglia
come una morta sola.


MARIO MORELLI

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