martedì 31 marzo 2015

IL VERSIPELLE 16


IL FAGIANO CHE SCOMPARE IN UN CESPUGLIO






Azzeccatissima, la metafora di Wallace Stevens sulla Poesia: “un fagiano che scompare in un cespuglio”. La poesia alta e autentica, la Signora Poesia, è come il pregiato uccello, che si lascia intravedere, ma non si concede facilmente, né si trova ad ogni spirar di venticello; ci si può imbattere in esso, come un dorato barbaglio, che scaturisce, magico, da qualche poeta contemporaneo. E deve bastare tale privilegio. A scrivere sono in troppi, a valere davvero in pochi, pochissimi. Inutile moltiplicare i reading, i raduni, illudersi di aver prodotto chissà quale capolavoro, magari scopiazzando astri della segnatura di Lucio Mariani, Jacqueline Risset, o Patrizia Valduga, strumentalizzando anchormen che fungono da specchietto per le allodole. Molti snobbano il Versipelle per correre, trafelati, in questo o quel circolo, dove converranno i soliti presenzialisti, la corte di devoti in debito per qualche favore o in attesa di ricevere attenzione da millantatori che non solo sono poeti mediocri, ma si spacciano per critici (e son “cretici”: crasi tra cretino e critico), senza accorgersi dei propri limiti, delle proprie debolezze. Alle loro spalle, l’immancabile Casa Mereditrice (crasi tra editrice e meretrice), con i suoi sordidi accordi sottocutanei feneratizi. 
È il classico “Navem perforare in qua ipse naviget”, dal celebre passo di Cicerone: un’azione stolida, controproducente, dove chi organizza mette in ridicolo, escrementizza ciò che pretenderebbe di nobilitare, di esaltare. Purtroppo coinvolgendo chi agisce in buona fede: il testimonial e qualche poeta di ottima grammatura.
Ecco, ci assumiamo la responsabilità di segnalare “il fagiano” in Mario Morelli, medico poeta di Grottaminarda, ospite onesto e lungimirante del sedicesimo appuntamento con “Il Versipelle”: i suoi quattro volumi di versi (“I fuochi di Leda”, Delta 3, 2000; “Per Vaga Mente”, Delta 3, 2005; “Nistagmi”, Nicolodi, 2005; “Butta il banno”, Delta 3, 2015) hanno avuto lunga e ponderata gestazione, riservando grande rispetto alla parola, misurata, pesata, adoperata con proprietà, acutezza, sensibilità e “spirito”. Elegie per la madre e il padre scomparsi accompagnano in “Butta il banno” affreschi autobiografici, notazioni spillate e rivelazioni quasi impulsive, tra Pound e Rexroth, momenti “liquidi” o urticanti, ancor più suggestivi nella loro brevità. 
Morelli medita e narra, oppure sente e trasmette ex abrupto; archeologo dell’interiorità ancestrale e osservatore privilegiato di tutto quanto è “esterno”, divertito e/o feroce, distillatore di sarcasmi stondati, autocritico nella confessione degli aspetti “irregolari” del sé, quasi a volte in contemplazione del grado di consapevolezza delle personali scricchiolature, degli elementi radioattivi nella condotta, nelle aspirazioni, nei sogni. Questa trasparenza riscatta automaticamente ogni abbaglio, ogni ipotesi di errore, ogni umanissimo trasporto per il ‘lato in ombra’. E rende congruente la figura del poeta con quelle della persona e del professionista. Così la sua poesia riesce impressiva nelle coscienze di chi legge e di chi ascolta. Tanto è capitato a noi, agli altri interlocutori: in primis Antonio Califano, che ha condiviso semanticamente e per empatia le metafore, quasi si trattasse di ideogrammi per l’anima; poi Paola De Lorenzo Ronca, Annamaria Renna e il giovane Davide Cuorvo, sedulo e attento alla sintesi tra passaggio metafisico e disincarnato, e discesa nelle incandescenze del magma con ogni fibra. L’esattezza della pronuncia fa di Morelli un poeta che argomenta sottilmente una filosofia quotidiana tangibile, ‘istruttiva’, non solo sotto l’aspetto speculativo e francamente intimista, ma frutto di una maestrìa ritmica, estetica, dalla persistente vis mnestica. E dalle miscele lessicali catturanti. 
Paola De Lorenzo Ronca si è giovata dell’introduzione del grande e compianto Giuseppe D’Errico nel suo “Profumo di terra e di sogni”, un diario del cuore che intenerisce per le metafore sui valori dell’esistenza e sul ruolo ausiliatore e confortevole di rimembranze mai scisse da una spiritualità a suo modo esplorativa.
“Leggere queste pagine” – scrive D’Errico – “induce a sorridere, mesti, a se stessi, a scoprirsi ancora capaci di capirsi e di amarsi, di credere, nonostante ogni delusione o rinunzia che, nel frastuono della vita in cui siamo immersi, la dolcezza fragile, ma sempre viva e vera di una parola amica, ci conforti e ci induca a credere di poter rinascere ogni giorno all’amore e alla fede.”
Partecipe della vicenda umana, disseminata di insidie, di gelo e di tenebre, ma anche di varchi che possono condurre ai sentieri misteriosi e salvifici della speranza-certezza, dello splendore oltre le nubi, la poesia di Annamaria Renna, autrice molto vicina a Logopea e al Versipelle quanto Agostina Spagnuolo, Rosa di Zeo o Raffaele Stella. Le affinità tra le due signore non sono poche, benché ognuna delle due, Ronca e Renna, abbia il proprio uscio segreto, lasci le personali orme irriproducibili, adoperi la sua peculiare digitalità sulla creta del pensiero emotivo. 
Davide Cuorvo costituisce un canzoniere dove l’eros abbraccia agàpe e philía, ha una scala semisepolta da nebbie e penosi ricordi, che lo induce ad intervallare sconforto e ripresa, perplessità ed entusiasmo, per ora traiettorie portanti del suo gesto espressivo.
Il gruppo di attori (la veterana Mena Matarazzo nel difficile ruolo della fedifraga assassina Clitemnestra…fino a che punto vendicatrice? Fino a che punto simulatrice?; Alessandra Iannone, l’enigmatica, sibillina Cassandra, divorata dall’ossessione delle sue chiaroveggenze; Hera Guglielmo, spettrale fiamma di odio distruttivo nella fermentosa Elettra; Michele Amodeo, nei panni di Agamennone, spavaldo condottiero, lubríco e scisso fra attrazione e fobica soggezione nei confronti della sua predata concubina, Cassandra, la nuova schiava-amante, trofeo e trastullo; Davide Cuorvo e Antonio Mazzocca, nel registro spaccato, mimesico-mimetico, di Oreste rassegnato ad un futuro di fuga e di condanna, senza regno e senza sudditi) ha egregiamente ricompattato le fasi dell’Orestea, nel legante di monologhi spietati e ulcerosi, ciononostante non esenti da lirismi, sulla scorta di un turgido pathos emozionale; monologhi o veri soliloqui dalle ricadute morali, politiche, esistenziali, in una miscela di tradizione, prassi e innovazione ardita.
Non ha guastato il tenore della serata l’inserimento della satira, da parte della Matarazzo (“Cancrena”) o quello del cabaret per i talenti del giovanissimo Christian Cioce (“La Pornografia”).
A modo suo, l’appuntamento proposto da “Il Versipelle” ha scardinato il modo di gestire e di “vivere” un incontro intellettuale dove il linguaggio (in ogni sua forma simbolica e culturale) riconquista la primazia nelle fonti della conoscenza e coniuga con passione e abilità/agilità gli estri di Teatro e Poesia, facondi ed efficaci agenti del contropotere nei tempi andati e attuali.

                                                                                                   ARMANDO SAVERIANO





Mario Morelli

Da sinistra: Michele Amodeo,
Alessandra Iannone






Armando Saveriano

















Armando Saveriano
Da sinistra: Davide Cuorvo,
Alessandra Iannone


















Da sinistra: Mena Matarazzo,
Hera Guglielmo
Mena Matarazzo


















Da sinistra: Hera Guglielmo,
Michele Amodeo,
Antonio Mazzocca
Da sinistra: Davide Cuorvo,
Antonio Mazzocca



















Da sinistra - Gli attori: Hera Guglielmo,
Davide Cuorvo, Antonio Mazzocca,
Mena Matarazzo, Alessandra Iannone,
Michele Amodeo
Da destra: Paola De Lorenzo Ronca,
dott. Gaetano Guglielmo


domenica 29 marzo 2015

C’È SEMPRE UN READING


Poesia vitalissima in città: ma attenzione a qualità e intenti






Certo, c’è reading e reading. Si moltiplicano, ad esempio, quelli organizzati da (infime) case editrici con la serpe nel manicone, che della Poesia se ne impipano, anche per il semianalfabetismo dei microimprenditori, esclusivamente interessati ad adescare potenziali clienti di belle speranze e patologiche illusioni, per indurli a stampare, sborsando dai millecinquecento ai duemila euro, in cambio di qualche centinaia di copie di libelli dalla veste grafica approssimativa. Come testimonial si affidano ad un poeta valido, che fa da garante e da traino per i gonzi. Dispiace quando poetesse con la puzza sotto al naso, che, invitate al Versipelle, fanno le schizzinose e vogliono sapere con CHI si troveranno a confrontarsi, aderiscono senza esitazione a raduni di sotto-genere, e non provano più l’orticaria nello stare gomito a gomito con gente che (a parole), e in privato,  disprezzano. 
Ma questo “Primavera in reading”, patrocinato da provincia e comune di Avellino, sotto l’egida del Premio Prata “La cultura nella Basilica”, il Premio di giornalismo e poesia “Giuseppe Pisano”, la pro loco di Montefredane, l’“Agorà” di Pratola Serra, organizzato da Monia Gaita e da Antonietta Gnerre al Caffè Letterario avellinese in via Brigata 41/43, non nasconde fini pecuniari, non alletta disperati in cerca di visibilità attraverso costose e inutili operazioni di carta stampata. Si concede l’offerta di spazio a poeti affermati e a voci non pretenziose, paghe di condividere afflati e voli pindarici, intime confessioni o semplici cantate sugli ambienti urbani e rurali che conoscono, senza pronunciate altezze espressivo-lessicali.
Gaita e Gnerre non sono nuove a iniziative del genere, sanno come gestire al meglio un evento, dosando l’aspetto indagativo e quello della pura lettura condivisa; le loro interviste agli ospiti mirano a creare un’atmosfera di agio e di piacevole scorrevolezza del pensiero…emotivo.
Gli ospiti hanno detto la loro sulle rispettive poetiche, mantenendo intelligentemente un profilo medio, dato il tenore non accademico della serata; i tre testi che ognuno ha letto o declamato, ora divertiti, ora malinconici, ora didascalici, ora di derivazione filosofico-artistica, ora funambolici tra immagine e senso, hanno composto un puzzle variato, camaleontico o immediato e riconoscibile.
Qualcuno è intervenuto sulla valenza dell’impegno civile che la poesia in fondo da sempre detiene, pagando lo scotto della verità, del coraggio, dell’azione politica polemica, in disaccordo con le leadership; qualcun altro ha fatto la levata sui giovani, sulle responsabilità di una scuola (e di una famiglia, aggiungiamo noi) sempre più disfunzionale.
È raro che in consessi tra il mondano e il letterario entrino la satira e –horribile dictu!– l’invettiva. Ma satira e invettiva si rifiutano di andare a ramengo, rivendicano una dignità letteraria solida e illustre (si vada all’articolo sul diritto all’indignazione postato tempo fa sul nostro blog); se poi smascherano vizi e debolezze, ipocrisie e compromessi terra terra tra poeti tanto avidi di notorietà e di plauso quanto privi di sostanza, allora acquistano una dimensione etico-sociale che non può essere redarguita se non soffoca la verità e anzi declina moniti e li dispensa (mai con altezzosità!).
Chi lamentava la tiepidezza dell’engagement poetico irpino disconosceva implicitamente l’accesa e annosa opera di polemisti come Pasquale Martiniello, Peppino Iuliano, Alfonso Attilio Faia, e in misura meno eclatante Della Fera. Chi si ergeva a difesa della scuola deprivata di sostegno e fracassata da programmi sorpassati e controproducenti non aggiungeva che molti atteggiamenti abulici, reprensibili e reazionari appartengono anche a categorie di studenti e a famiglie dissociate, a volte in gara sotto una incombente anomia.
Uno dei problemi della poesia è quello di scrollarsi di dosso una buona volta le ideologie muffite che hanno fatto il loro tempo, i revanscismi sessual-razziali (senza con questo negare discriminazioni, stigmi e sopraffazioni che di fatto ancora affliggono il mondo accademico, la sfera umanistica, e vanno energicamente contrastati) che spesso s’impregnano del sapore di esibizionismo e del piacere di dirsi “alternativi”. Se non ci si vuole rifugiare nel limbo della pura astrazione, si tolgano di mezzo i vincoli retorici, si dia la stura a soluzioni disamene e scomode, che in diretta, franca nudità, rammentino al mondo come sia ora di smetterla di tradurre (e tradire) la realtà con scatti di sentimentalismi iperglicemici o di galleggiare tra sofismi e presunte, inautentiche vertigini di senso. 
Molti poeti continuano a gettare sul foglio rimasticazioni di autoreclusione, e conservano ipoteche stagnanti di debiti verso il maelstrom del proprio (non sempre autentico) dissenso. Oppure scivolano nella prevenzione che blocca il loro stesso linguaggio, relegandoli nella reticenza o nel parlatismo antilirico, nell’accezione meno giustificata del concetto.
La finalità degli incontri organizzati, diretti e condotti dal duo Gaita /Gnerre guarda apertamente e con coerenza all’abbattimento del formalismo retorico démodé, vuole costruire o ri-costruire una congiunzione tra opzione mentale e pratica di una poesia dinamica, intrigante per i critici eppure accessibile e gradita ai non addetti ai lavori, una poesia la cui primaria tendenza sia quella di non lasciarsi coinvolgere dalle ubriacature dell’estetica fine a se stessa o dell’introiezione a tutti i costi, di grana grezza se pensiamo ad Amelia Rosselli; una poesia che impianti nelle coscienze (individuali e collettiva) una vis inquieta ma rifondativa della differenza, oltre l’abisso, al di là degli immensi risucchi del Vuoto. Finalità ambiziosa, certamente, e assaporata a piccole dosi, dove il valore umano e il giudizio poetico si prendano a braccetto e non prevalgano l’uno sull’altro.
Questo mercoledì 25 marzo sono intervenuti su una vexata quæstio (l’etica giornalistica e i diritti dell’informazione) Gianni Festa, direttore del Quotidiano del Sud, e Joseph Ayina, presidente dell’Associazione “Amici del Camerun”; quindi la sfilata dei poeti più ferratamente engagés, o di meno tensiosa pasta verbale: Claudio Finelli, dai cui versi ci si aspetta –invano– che facciano capolino Kavafis o Penna; Domenico Cipriano, in bilico tra pietre e stelle, giocoliere di una parola setacciata nei segnali di accadimenti personali o di irraggiamento esponenziale nel lungo passo storico; Armando Saveriano (la cui griffe risulta sempre eccentrica, fosforica e scandalosa); Agostina Spagnuolo (oggi anche saggista e ricercatrice), via via più raffinata e poliedrica nei timbri e nelle modalità; Davide Cuorvo, alla conquista di una parola radiosa e politonale; Marco Parisi, con le sue polarità di entusiasmo e frustrazione; Marciano Casale, ruspante nelle istantanee paesane, dai tasti accattivanti; tutti a traghettarsi da soggettivismo lirico, nostalgia di un mondo semiscomparso e in attesa di patito, tardivo riscatto, a indisponibilità nei confronti delle cadenze sentimentali e verso linee di confine tra ragione e assurdo; da preteso (quando non pretestuoso) barlume neorealista a vocazioni inventive stranìte; da focale percezione dell’alterità inafferrabile a presa in giro tragicamente seria.

                                                                                                             LOGOPEA




ALCUNI MOMENTI DELLA SERATA


Da sinistra: Antonietta Gnerre,
Monia Gaita, Gianni Festa
Da sinistra: Monia Gaita,
Antonietta Gnerre




Da sinistra: Joseph Ayina,
Antonietta Gnerre









Da sinistra: Domenico Cipriano,
Antonietta Gnerre







Armando Saveriano
Da sinistra: Monia Gaita,
Armando Saveriano









Da sinistra: Claudio Finelli,
Antonietta Gaita
Da sinistra: Monia Gaita,
Armando Saveriano


Marco Parisi





Marciano Casale



Davide Cuorvo






















Da sinistra: Antonietta Gnerre,
Agostina Spagnuolo




Da sinistra: Davide Cuorvo,
Antonietta Gnerre

























giovedì 26 marzo 2015

MORELLI TIENE IL PASSO NEL PROPRIO SILLABARIO


UN CANTIERE DI FORTE EMANAZIONE DEL LINGUAGGIO






Un poeta può essere assente dalle stampe anche per un considerevole intervallo, senza per questo che abbia smesso o rallentato la sua personale perlustrazione della materia per vicoli bruschi, assopiti giardinetti, slarghi ipocondriaci, svolte luminose, viottoli segreti, pertugi ruderali, forre arcigne e indecifrabili boschetti. Ogni trascurabile dettaglio, ogni sussulto, ogni transito anche fulmineo e nistagmico rappresentano semi per le variazioni della sua fertilità creativa, humus per i suoi registri, menù di prosciugamento stilistico e di ricostruzione del senso (come nel nostro caso): pertanto finalità intrinseca e imprescindibile per la rappresentazione dell’impotenza a dire, ma raccogliendo la sfida perennemente lanciata alla Poesia in quanto varco e ponte ideale di voce e respiro, di pnèuma gnostico/gnoseologico. 
La pausa, piuttosto, può essere determinante per il filtro dell’approdo ad un territorio di inedita declinazione, per l’approccio a nuovi o risensibilizzati accenti, a differenti/difformi sfumature, sotto un aspetto identitario magari insospettato.
Prediligiamo Morelli per la sua discrezione, per il riserbo e il pudore a cui affida la propria produzione avulsa da cerimonialità tanto legate all’ansia disperante di condotte altrui, ch’egli non depreca, limitandosi, nei fatti, a non condividerle. Schivo e parco rispetto al frastuono della parola strillata nel mondo, disciplina correnti di pensiero delle quali amministra connettività e istanze dosando nel logos la facondia e la complicità perfetta tra intelletto e coordinate emotive aperte alle visioni, ai richiami, a rimembranze di cadenze arcaiche, a bergsoniane intuizioni di abbaglianti espressioni tonali e di morbidi slittamenti nell’ombra mitologica del sé e di quanto è o si fa (obiettivamente o illusoriamente) percepiente.
Nell’antologia in questione (“Butta il banno”), che la foto di copertina ci indurrebbe a pensare incentrata esclusivamente sul memoriale del favo generazionale di famiglia (di lancinante struggimento i due testi in stretta consecuzione a pag. 30/31), sorprende e intriga la rivelata vocazione all’alchìmia del breve, dello scandìto assonante, non di rado ‘cantabile’, in componimenti dove eleganza e precisione trovano equilibrio proprio (ma non solo) nelle clausole allitteranti, nelle metonimie, su e giù per i gradoni di pietra lavica delle sensazioni -negli impeti e nelle smussature- e delle immagini, che completano l’ineffabile organo della trasmissione, della condivisione, della vellicazione della sfera ontologica.
Basti immergersi nei voli radenti di certe fascinose peregrinazioni che intrigherebbero Roland Barthes, Léon-Paul Fargue e il nostro Enzo Rega: “uccello di ferro/lasciami a terra/Berlino ha il cuore ghiacciato/i tigli imbiancati, i musei chiusi/lo Sprea non si galleggia/a Spandau la strega/balla sui tavoli/e la neve è come lucciole,/fatti allora uccello adesso/con le ali spruzzate/guarda la Germania bianca/e poi fatti solo carretto/sotto il sole di Napoli/che ci beffa.”
Basti lasciarsi avvolgere da lampi nottacei che un poco ammiccano all’orfismo, e così abbiamo: “io sono l’uomo che mente a se stesso/che vive da morto la sua vita/che non dà amore a chi lo ama/piccola anima persa in un grande guscio/sempre secondo alla gioia:/quando sarà tardi/potrà mai perdonarsi.” Frammento immediatamente preceduto, nel libro, da questo morceau, che sancisce, anche per ritmo e impossibilità di conclusione, il tratto essenziale della raccolta: l’incomprensibile metafisicheggiante con cui la parola intende misurarsi…
“mi riporto a me stesso/isola solitaria delle frasi fatte/snocciolando nuvole, piovaschi/verde che ancora non brilla/ma il vento carezza le palpebre/e ribollono le storie non dette/finché il tuono ci sveglia/e l’ombra si allunga di soppiatto.” O, a pagina 11: “come una penombra/vivo in caute onde,/malcelata tenda/vaglio da me le soglie/e brina si depone/su lembi di tramontana.//come una vergogna/che cieli grigi sbiancano/l’ove più retratta/di questa sera sciatta/periti mancamenti/su scalini rotti.” 
Finché non assottiglia il verso (e lo acumina) in stendardo epigrammatico: “alba sale a nebbia/non si vede il sole”; “storia vecchia,/pagina bianca.”; “ oggi niente sogni/piove nella vigna.”.
I paesaggi della mente s’improvvisano esca a doppio taglio: per intuizione, per linguaggio; la distanza fra i luoghi e i non luoghi irripetibili si annulla nello sfrigolìo di una fiammata; lo stupore malinconico irrompe, mentre si fa segno indelebile la meditazione che invoglia il lettore ad una attenta navigazione del sottotesto, del voler dire per poi infrascarsi nell’elusione, del manifesto nel subitaneo suo nascondimento in una forse divertita negazione all’interpretabilità “scontata”. È questa l’antica, pellucida irriverenza morelliana che fa ogni tanto capolino, nelle trasmutazioni del testo sottoposto a dilemma tra pulsione e coscienza.
Esemplare è in tale accezione il componimento a pag.67: “c’è chi vive al mio posto/chi piange le mie occasioni/io sono vile alla vita disposta/non piango non rido/sprofondo nel grigio/del mio passato contesto: sega del tempo/trafigge il petto/l’eccentrica lama rigata/stride sul crosto dell’olmo/vola giù dal ramo/l’ostica foglia deforme:/come scheggia di anima/rapina la mia parvenza.”
Con “Butta il banno”, Mario Morelli si accosta a un’altra soglia, che consente un accesso in più (alternativo e addizionale) al procedimento di conoscenza della molteplice varietà della sua peculiare poetica, a questo punto sotto ogni crisma “versipelle”. 
Egli colloca la parola albale in un primo momento/movimento del dire, come ossimoricamente, impossibilmente ordinando, in obbedienza a leggi comuni, l’informe frammentario e mutevole del ‘chaos’ tra materia e pensiero, riconoscibile o presentito, appena sfiorato e quindi, in successiva istanza, sottraendolo all’esperienza e destinandolo a una struttura di senso meno visibile, meno leggibile, meno consegnata all’impiego sistematico di una disposizione teoretica idonea.
Lo scaffale su cui si colloca questo scandagliante iter poetico del medico umanista, non meno carismatico di Antonio Spagnuolo e di Aristide La Rocca, allinea e rubrica la gravità e la levità dei suoni e di heideggeriane ‘chiamate’, per cui la voce deve essere còlta e accòlta nelle percezioni affioranti dell’archetipo, dove tono e corpo, spirito e materia, visione e sogno, immaginazione e morgana, volùte intellettuali e incursioni della sensualità (“ti scarfoglio come una sponza/e accarezzo la meliga del tuo pube”) si decomprimono, si intercettano in un’emblematica delle cose e degli esseri, per spaziare in una meticolosità rabdomantica, dove anche le ombre, impalpabili o marmoree, irradiano un bagliore metalinguistico eccezionale. 
“il gatto fusa per piacere/lingua di terra si allunga/molto spesso si usa/buttare tutto via nel fosso/e ridere senza volere”; “Palau, alga di fango/mare spesso/eterea falena/che si spegne.”; “le lunghe poesie mi sconfiggono/il fiume ritorna fiume/il gelo della terra/costringe a riabbracciarsi/ma le parole vuote della vita/non spiegano nessun perché!”; “sento vento/alle crepe del tempo/occhi lunghi/che guardano//una vita discorsa/nessuna posa/nessuna impasse/vento gelido/tra le fesse del sogno.”
Sicché constatiamo che energia e verità dell’esistere si dilatano, confermano fragilità e tentazione anche non necessariamente al cospetto del più vicino, accessibile, confortante confessionale; mitigano all’occorrenza, e per cautelativa autodifesa, i lacerti interiori, onde lasciare alle urgenze emotive occasione di rilancio in virtù di un rovesciamento delle evenienze del viaggio, in un tempo scomposto e ricomposto, struggente, per attimi ‘meduseo’, enigmatico.

                                                                                            ARMANDO SAVERIANO



MARIO MORELLI – BUTTA IL BANNO –  Collana Pugillaria – DELTA 3- Grottaminarda (AV) 2015- PP 96- Euro 12.00



sono asciutto
come letto del fiume
sono lordo
del pensiero vero
sono stanco
come una chimera
vivo di carta
e sono rigida sfera.

*

credimi in gioco
per mera sopravvivenza
il mio volto rubizzo
il mio cuore stravolto
passo ore a spiritare
e non viene mai a fine
quest’ombra che sale
e questo sapore come
di amaro papavero rosso.

*

Come sa di vita…
questa tua lontananza
nella città medioevo
dove tutto scende e sale
e le suore nei convitti
sanno scherzare:
alla cupa del belvedere
sai saltare per
ritornare nella tua pelle.

*

non riesce il silenzio
sotto il cielo complice
a contentare il senso
del caso: un incontro
per strada, come di consueto,
ma quando? quante vite fa?
eppure adesso.
la memoria dovrebbe
dosare il suo ritmo
ma affolla i pochi minuti
sono sintesi di
un’immensa rovina,
nonostante troppe
parole premano,
alcune necessarie,
altre forse inutili:
vale consegnarsi umili
al luogo e ai colori,
autunno aiuta
e un saluto è storia.

*

rabbia insana acceca,
è venuto anche
il tuo momento
padre:
è tutto strano
tu ringiovanisci
nell’abito buono
e il tuo nuovo letto
si stringe al tuo petto
sempre più lontano.

*

tu la chiami morte
ma lei è rimasta sola
la tua metà importante
come un pulcino sulla soglia,
questa partenza senza fiato
le ore fredde a sentirti
e la chiami morte la vita
dentro il feretro stretto
la cravatta nuova e i guanti
e il cielo di grandine
sola la tua sola moglie
velata di disperanza
sola sulla soglia spoglia
come una morta sola.


MARIO MORELLI

giovedì 19 marzo 2015

RITA PACILIO: SUSSULTI DELL’IO E DELLA GESTALT


Metateatro: oltre il segno, oltre il logos






In una tenebra metafisica squarciata da lampi eidetici di un mestruo simbolico che è accesso alla vita e preambolo per la finitudine, e che nella dualità ambigua delle possibilità, è stigma tormentoso per l’umanità sconfitta dai suoi stessi desideri, dalle sue dissennate aspirazioni, i corpi si manifestano nella nominazione ancestrale della poiesis, si torcono fra le fiamme della coscienza trasfigurata, si accostano per l’impossibile fusione, aderiscono per respingersi nell’urlo sussurrato dell’autrice/attrice, che s’annuncia demiurgo capovolto, impotente, declassato a osservatore narrante –ipnotico– tra sbigottimento, dolore, vergogna, tutt’al più autoconferendosi una tonalità oracolare.
Rita Pacilio è una figura di cera che si sfoglia a strati, a mano a mano che evoca immagini e spettri tachionici; è il sacerdote dell’arte che si raccapriccia di fronte all’entità grottesca di un Male che s’è agghindato del Bene fallito e che a sua volta deflagra, implode, buco nero per qualsivoglia valutazione morale. È la poetessa e la poesia che si incontrano, si trovano, si perdono, si chiamano, abitano geografie concentriche nei viluppi della mente. L’orecchiocchio dello spettatore è blandito e percosso, carezzato e lacerato dalle percussioni, ora erotiche e suadenti, ora irate come rumbe di spade che cozzano, tagliano, amputano.
Uomini e donne che neanche più sanno di poter cercare, di dover cercare un’identità: maschere svuotate di ogni pirandellismo nascondono volti spaccati dallo scalpello degli egoismi e dell’inadeguatezza a scegliere.
Anime tabefatte, sistemi di valori in cortocircuito, metropoli fagocitatrici, mercimonio di taidi, cartelli mafiosi, violenze sessiste pesantemente discriminanti e intimidatorie sono le tessere di un mosaico che eleva nuove, sediziose Babeli. Furori razzisti, pregiudizi antiomosessuali e passioni cannibali si riversano in un altrove stupefatto, tracimano da un Ade in polifonìa sofferente, aberrazioni di un privato simbolico, che manifesta il pathos in tutte le sue esulceranti alterazioni.
Immersa nel magma delle brutture, infissa nella piramide di pattume compatto alla deriva di sé, la telecamera a infrarossi della Pacilio, persistente, vigile, implacabile, ai limiti del perverso e dell’isterico, si espande, estroflette gangli e pseudopodi e registra senza risparmio; entità corale, reminiscente e veggente nel contempo, senza soluzione di continuità: è EvAdamo nell’Eden luciferino sul pianeta devastato, è la Gestalt di carne, umori, percezioni, deliri, sensi esasperati e voluttà soffocate dagli artigli di una malintesa estasi dei sessi ebbri, dei cervelli collassanti. Dio è Io [(D)Io] che alla sua immagine porge costantemente il frutto proibito per sancirne la coesistente natura diabolica che si reifica, si condensa e si contempera (perversamente) nel ‘NOI’.
L’idea stilistica funziona, ha una sua energia escapistico/rivoluzionaria, persino contiene un germe di progressione liberatoria, benché difficilmente catartica: “Quel grido raggrumato” è la sintesi della ricerca/denuncia schizofrenica e aurorale di Rita Pacilio, affiancata dalla coreografa Carmen Pepe e dal regista Armando Saveriano (benché bizzarramente a nessuno dei due ultimi spetti l’ufficialità della direzione artistica, rivendicata invece da intuizioni aneddotiche, cursori estetici, da lampi pulsionali che fanno tanto coup de théȃtre). I tre leggii decorati da fiocchi alla Hello Kitty stridono accanto allo sgabello occupato da una bimba/pupazza e alla desolante simbologia di due scarpe di vernice rossa dal tacco aggressivo. Meglio piuttosto usare del filo spinato, simbolo dell’artiglio della rosa alchemica del Primo Motore Negromantico, o Neuromantico, se si preferisce. Accostandovi, magari, una sequenza di musica e danza escerpita da “Lo spettro della rosa” dedicata a Waslaw Nijinsky (se non piuttosto ‘L’après midi d’un faune’), tanto nel celebrare quanto nell’onorare, dal verso di Orazio “omne tulit punctum, qui miscuit utile dulci lectorem delectando pariterque monendo” (Ars poetica), il compito di ‘dilettare’ e di ‘ammonire’ (principio ripreso dal Tasso) che è della Poesia, qui prestata al Teatro. Operazione logicamente non nuova, se si pensa a Testori (‘Conversazione con la morte’, ‘Interrogatorio a Maria’), ad Aristide La Rocca (I ‘Frammenti’, la trilogia storica da ‘Scene Augustee’ a ‘Teodora’ e a ‘Zenobia’), tuttavia sempre funzionale.
Grande valenza ontologica del linguaggio nei quadri delle danzatrici, tra le quali spicca, divina, l’inarrivabile Sonja Lato (ci piace introdurre la ‘j’ nel nome di battesimo), capace di variazioni virtuosistiche da primadonna, con il sorriso trascolorante della menzogna, coincidente in teatro con la volontà delirante che si consegna alla lucida follia. Piacerebbe, la Lato, al decadentismo sia di Schnitzler sia di Hofmannsthal, ma anche al grande Peter Sellars, o alle sintesi spaziali-figurative di un Cesare e di un Daniele Lievi in un danzarte sonnambolico ispirato magari alla Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist. La accoglierebbero la nostra Adriana Borriello, la compagnia Sosta Palmizi e la mitica Raffaella Giordano, che ha potuto vantare esperienze artistiche con mostri sacri del calibro di Pina Bausch e Carolyn Carlson. I fantasmi degli attori vittime/aguzzini, prede/cacciatori s’imprimono come dissacratorie sindoni profane, anche quando si concedono un attimo di autoirrisione nella breve performance pantomimica di Davide Cuorvo o un abrasivo frammento di dramma della ‘antimaternità franzoniana’ (che ha subito orrore di sé, purtuttavia non cancella e non recupera) nella sequenza in cui Hera Guglielmo (genitrice/bambola/meretrice) scaglia lontano dal seno la figlia/pupa, potente feticcio di quanto è ingenuo/inerme.
La quotidianità aberrante è il prodotto, per Pacilio, di una società chiaroscurale priva di mète, oppressa dal medesimo cinismo che trasmette al prossimo, pronto a ridestare forze irrazionali, mentre angosce e veleni interiori si rimescolano in calderoni miasmatici. Il senso di “situazione” si accresce via via di segni e simboli kantoriani, grazie alle capacità attoriali dei ‘manichini’ dalle neutre espressioni plastificate: e quando le maschere vengono sollevate, irrompe lo sconcerto di una disidentità spezzettata. Lo spettatore conserva fino all’uscita lo sconcerto, ripercorre ciò che ha visto, si rovista nelle tasche mentali alla ricerca di chiavi che gli consentano di elaborare i guasti e i torbidi tormenti della vita reale. Sicché, grazie alle intuizioni sceniche di Saveriano e al gusto e all’aderenza stilistica di Sonja Lato, Rita Pacilio ottiene il risultato shakespeariano, ma anche brechtiano, genȇtiano e pirandelliano (per tacer di Eduardo e di Ruccello) di un teatro non “usato”, ma “fatto”, che adempie allo scopo, accadendo. Come in poesia. Un po’ quanto ne “La confusione” di Turi Vasile e in “Fratellini” di Francesco Silvestri o nel bellissimo “Gioventù senza Dio” di Ödön von Horvat.

                                                                                                           LOGOPEA



QUEL GRIDO RAGGRUMATO di Rita Pacilio
 
Regia e Direzione Artistica non indicate – Coreografie Studio Danza 94 di Carmen Pepe – Collaborazione drammaturgica: Logopea di Armando Saveriano

Con Rita Pacilio, Sonja Lato, Davide Cuorvo, Hera Guglielmo, Antonio Mazzocca, Michele Amodeo, Alessandra Iannone, Alda De Vizia, Maria Caputo, Stefania Barone, Maria Irene Granati, Laura Repole, Valeria Rinaldi, Diana Parrella, Saveria Palermo, Ilaria Boniello

Musiche: Ivan Maroello

Trucco: Argania di Flaviana Mainolfi Fotoriprese: Luigi Cofrancesco Service: Event Lighting & Sound

Benevento,  Teatro  ‘Mulino Pacifico’ – 14 marzo 2015 – Ore 20,30 –  Ingresso Euro 12.00
Organizzaz. “Solòt”, Compagnia Stabile di Benevento per la Stagione Teatrale 2015 Obiettivo T 



Foto Serata della Prima - Teatro Mulino Pacifico - 14/03/2015



















Foto Anteprima Spettacolo

Sonia Lato
Da sinistra: Christian Cioce,
Michele Amodeo, Davide Cuorvo


Da sinistra: Davide Cuorvo,
Hera Guglielmo, Michele Amodeo
Da sinistra: Davide Cuorvo,
Michele Amodeo, Hera Guglielmo


Sonia Lato


Sonia Lato


Hera Guglielmo


Da sinistra: Rita Pacilio, Christian
Cioce, Michele Guglielmo, Davide Cuorvo


Davide Cuorvo, Rita Pacilio


Sonia Lato




Sonia Lato


Davide Cuorvo, Rita Pacilio




Da sinistra: Michele Amodeo,
Davide Cuorvo













Da sinistra: Christian Cioce,
Michele Guglielmo, Davide Cuorvo