giovedì 15 gennaio 2015

SCHERMOMANIA: L’AVIDITÀ DEL CINEFAGO






                                                            Rubrica a cura di ARMANDO SAVERIANO



Edgar Allan Poe




















P.O.E 
Poetry of Eerie

ITALIA 2011 110’

Regia: Angelo e Giuseppe Capasso – Alessandro Giordani – Matteo Corazza – Edo Tagliavini – Manuela Sica – Giovanni Pianigiani – Bruno Di Marcello – Paolo Gaudio – Simone Barbetti – Paolo Fazzini – Rosso Fiorentino – Yumiko Sakura Itou – Giuliano Giacomelli – Domiziano Cristopharo

Int. : Dario Biancone, Mariano Aprea, Laura Gigante, Sara Cennamo, Giovanni Morassutti, Francesco Roder Bullé Goyri, Ruth Morandini, Paolo Andreetta, Elettra Gozzi, Gerardo Lamattina, Danilo Conti, Alessandro Garavini, Alessandro Randi, Matteo Bonazza, Marcello Moretti, Rita Fedozzi, Edo Tagliavini, Leonardo Guzzo, Chiara Candelise, Riccardo Laurina, Giorgio Filonzi, Marco Borromei, Antoinette Kapinga, Giovanni Pianigiani, Marco Saraga, Fabrizio Colitta, Giampaolo Palocci, Gianluca Russo, Beatrice Pelli, Danilo Vanella, Malvina Ruggiano, Vittorio Pacifici, Rosso Fiorentino, Angela Dottorini, Lorenzo Senorile, Manuel Cabretti, Mino Manni, Luca Canonici, Angelo Campus, Giulia Morgani, Philippe Guastella, Jonathan Marsiglia, Leo Capobianco, Mario Pellegrino, Luciano Bianco, Biagina Grippo, Annarosa Guzzo

Voices Off: Elisabeth Bolognini, Daniel Baldock, Sacha Herbert, Simone Destrero

Soggetti e Sceneggiature: Angelo e Giuseppe Capasso, Marco Varriale, Lulù Cancrini, Elena Lazzaretto, Edo Tagliavini, Manuela Sica, Paolo Gaudio, Simone Borgna, Rosso Fiorentino, Emanuele De Amicis, Giuliano Giacomelli, Andrea Cavaletto

Da un progetto di Giovanni Pianigiani, Domiziano Cristopharo e Angelo Campus

Distr. Indipendente


È confortante che l’horror attiri giovani e meno giovani, talentuosi e meno talentuosi sceneggiatori e registi; d’altronde è un filone che bene o male assicura la cassetta, e che nonostante l’inflazione e l’usura delle idee, richiama un non esiguo pubblico pagante (composto – ahinoi – prevalentemente da chiassosi adolescenti). Siamo lontani da “I Racconti del terrore” 1962 – Usa – con la sceneggiatura di Richard Matheson), “ I Maghi del terrore” (1963 – Usa/entrambi di Roger Corman), “I tre volti della paura” (1963 – Italia/Francia), “Le cinque chiavi del terrore” (Amicus, 1965 – Gb), da “La Bottega che vendeva la morte” (1974 – Gb) e persino dall’inferiore “La Casa che grondava sangue” (1971); guardare agli episodi della (non sempre) ottima serie TV “Masters of Horror” è pura utopia.
Quest’antologica ennesima (neanche – occorre dirlo – la meno riuscita, almeno rispetto al disastroso “3 Volti del terrore”, pasticciaccio di Sergio Stivaletti – 2004 –,  dove niente funziona, né la sceneggiatura “gruyère” né i trucchi o gli effetti speciali, e Grande Assente è la suspense) unisce un gruppetto di cinematografari e soggettisti che reinterpretano, o rinarrano, i celebri racconti del Maestro Edgar Allan Poe, con risultati che ne attestano il mestiere, perché c’è la tecnica, in taluni casi un nitore calligrafico. Il progetto riserva tuttavia delle pecche piuttosto gravi: la colonna sonora, con brani raffazzonati, clonati, prevedibili, scialbi, controproducenti; la confezione iposodica di un trailer che nemmeno il peggior principiante sarebbe stato così maldestro e svogliato nell’assemblare; la scelta degli attori (i maschi sicuramente più inadeguati e sprovveduti delle femmine), in particolare i più giovani, degni di far parte delle scalcinate compagnie parrocchiali di paesucci annidati tra i monti, dove ancora i “registi” improvvisati e analfabeti raccomandano di scopiazzare le caratterizzazioni dai DVD di Eduardo o tollerano assenze alle prove sulla scorta della giustificazione: “In fondo ho solo sette battute…!!!!”. Un plotone d’esecuzione dovrebbe far fuoco su coloro che hanno diplomato questi ragazzi, su coloro che li hanno selezionati per il film. Fortunatamente, il mercato estero li doppierà. Ma per il mercato italiano è una indicibile sofferenza quando essi aprono bocca. Gli episodi “Silence” (Angelo e Giuseppe Capasso) e “The Sphinx” (Alessandro Giordani) essendo muti non corrono il rischio del ridicolo (d’altronde la recitazione non verbale di Biancone, Aprea, Gigante regge); piacciono di entrambi il rigore di manovella, la coerenza stilistica; nel secondo il lampo d’un’atmosfera, d’una suggestione, un tentativo di virtuosismo; ma “Glasses” (Matteo Corazza), “Ligeia” (Simone Barbetti) e “Berenice” (Giuliano Giacomelli) addirittura indignano. In “Glasses” Giovanni Morassutti, Francesco Roder Bullé Goyri (poteva anche aggiungere un altro cognome, no?), Paolo Andreetta e la ‘star’ fintobona Ruth Morandini fanno a gara per aggiudicarsi la palma dell’inqualificabilità; i maschi ce la mettono veramente tutta, ma la Morandini è inarrivabile (la cadenza regionale che conservano –forse voluta– non giova affatto alla già sforacchiata tensione, né caratterizza: irrita).
In “Ligeia” molta responsabilità è dei dialoghi scempi di Simone Borgna; in compenso, Danilo Vanella si candida e si presta come icona sexy per i gay e la platea femminile (meglio questo che niente). Se imparasse a recitare…Ci sono riusciti Raoul Bova e Gabriel Garko! Rosso Fiorentino ha scelto “The Raven”, famosa poesia di Poe (contribuì ad assicurare allo scrittore una discreta reputazione presso il pubblico di New York, e costituisce il piatto forte della sua produzione lirica, assieme alle successive “Annie”, “To Helen”, “Annabel Lee” e “The Bells”), che ha sceneggiato e reso quasi un mélo; peccato che si sia inserito come attore; rovinano ogni credibilità il faccione rusticano, il fisico orsoide, la camicia a scacchi da oste o da bifolco (per tacere dello sdoppiamento nel “raven” antropomorfo, da imberbe e iperpasciuto frate trappista o da lobotomizzato sindaco comunista Peppone nei film di Don Camillo). Ipercomprimere e stravolgere il romanzo “The narrative of Arthur Gordon Pym” (l’unico nella produzione di Poe, essenzialmente di racconti, poesie, saggi) in poche sequenze di ritrita truculenza cannibal-zombizzante su abituale set illercito è stato un azzardo di Pianigiani e Di Marcello, a cui non ha aggiunto nulla la pugnalata finale a Poe da parte della santèra Antoinette Kapinga. Ma è professionale il cameo di Giorgio Filonzi che interpreta il Pym attempato.
L’operazione, tendenzialmente generale, di italianizzare (tranne Yumiko o Tumiko Sakura Itou – l'addetto ai titoli di testa e di coda ha scelto un carattere infame di fastidiosa decodifica –  che firma un corto tanto patinato ed estetizzante quanto superfluo, con la responsabilità della chiusura!) gli ambienti, le vicende, i fatti, ci pare poco, davvero poco felice: le location e gli abbigliamenti hanno l’impronta del fasullo, del set da fotoromanzo anni 1970; abbiamo ancora la pelle d’oca per gli stivali neri e l’abituccio rosso della giovane donna (Malvina Ruggiano) in (standardizzato, sguaiato e logoro) conflitto col partner Vanella/Varrella (di par suo conciato a guisa di stalliere/stallone) in “Ligeia” nella sala da pranzo del castello (tuttavia la Ruggiano, con una sceneggiatura comme il faut, non sarebbe male; inoltre è molto carina).
Tre rimangono gli episodi che sempre a parer nostro meritano attenzione perché hanno saputo uscire dagli schemi: “Valdemar” (Edo Tagliavini), che già dalla maschera improbabile del morente protagonista (affogato nella cipria) ammicca allo spettatore, ride e irride, si schernisce, parodizza; diverte con sarcasmo ben acetato dall’inizio alla fine, nel piccolo bar periferico; l’animazione in passo uno/ claymation di “The Black Cat”(Paolo Gaudio), che è una deliziosa perla di grottesco e di nerissimo pastello; un “gaudio” per l’occhio dello spettatore; “Maulzel’s Chess Automaton”, scritto da Andrea Cavaletto e diretto/prodotto da Domiziano Cristopharo, un po’ sottotono rispetto ad altre vitalissime prove (“Red Krokodil”); con poche sequenze azzeccate e un dialogato allusivo e complice d’una asserpolante angoscia, il lavoro scardina l’aspettativa, marca un suo livido, e pur senza strabiliare lo smaliziato spettatore, convince. Spalma un disagio che deriva dall’antico mito televisivo “Belfagor” (tratto dal romanzo di Arthur Bernède nei meravigliosi anni sessanta, fu diretto con formidabile intuizione da Claude Barma; annoverava interpreti di indiscusso conio: Juliette Gréco, Sylvie, Yves Renier, François Chaumette); disgraziatamente rifatto nel 2011 per il grande schermo –inguardabile– da Jean-Paul Salomé con Sophie Marceau e gli altrettanto sprecati Michel Serrault, Patachou, Julie Christie, Juliette Gréco, Fréderic Diefenthal) e fa incollare la lingua al palato come avviene durante la proiezione del sottovalutato “Imago Mortis” (bellissimo) di Stefano Bessoni. Peccato che Cristopharo non abbia optato per un liquoroso seppia o per un B/N, tranne che nell’irrompere del purpureo con il disvelato dettaglio organico dell’automa. Efficaci i primissimi piani a Maulzel/Campus, la cui espressione facciale gioca al meglio il dualismo creatore/schiavo (la dentatura storta è un valore aggiunto).
Nessuno comunque emula (o quanto meno s’ingegna a mettersene sulle piste) il gotico, il perturbante, l’eleganza morbosa di “Danza Macabra” (Antonio Margheriti, 1964) o gli ingranaggi rifondativi, originali, spesso estetizzanti di “Tre passi nel delirio” (1968- ma lì erano al timone cifre come Fellini, Malle e Vadim!) e nemmeno sfiora il kitsch sfrenato da cult al rovescio del cinema di Ed Wood. Nel 1979 Daniele D’Anza, storico e versatile regista televisivo dell’ȃge d’or firmò i quattro episodi de “I Racconti Fantastici di Edgar Allan Poe” (da “Racconti dell’incubo e del terrore e Racconti del grottesco e dell’arabesco”) con un cast stellare: Philippe Leroy (Roderick Usher), Nino Castelnuovo (William Wilson), Umberto Orsini (Robert Usher), Gastone Moschin (il giudice), Vittorio Mezzogiorno (l’assassino), Paola Gassman (Berthe), assieme a una rosa di bellezze più decorative che brave: Maria Rosaria Omaggio (moglie di Roderick), Janet Agren (Eleanor Usher), Dagmar Lassander (Ligeia), Silvia Dionisio (Morella), ed Erika Blanc.
I soggettisti/sceneggiatori, D’Anza e Biagio Proietti, collegavano dei racconti classici (Il ritratto ovale, Ligeia, William Wilson, La maschera della morte rossa, La caduta di Casa Usher, Il pozzo e il pendolo, etc.etc.), ancorati al presente, ma che grazie a flashback rimandavano al passato, pur mantenendo l’autonomia della puntata. La riscrittura e l’assemblaggio, abili e ingegnosi, si giovavano di dialoghi robusti e pertinenti, delle musiche di Roby Facchinetti e Dody Battaglia, eseguite dai Pooh (particolare successo riscosse il brano ‘Fantastic fly’), dei costumi di Tony Randaccio e di location azzeccate (come la villa che diventa Casa Usher). Atmosfere torbide, che nel quarto episodio pescano da “L’Angelo Sterminatore” di Buñuel. A quei tempi il cinema e la televisione si rivolgevano agli attori di teatro, o alle buone scuole di teatro, mentre oggi arraffano ragazzaglia alla men peggio e fanciullone rifatte, spacciate per pupe stratosferiche, dall’insoffribile accento romanesco e piene di disgustosi piercing e volgarissimi tatuaggi. Poche le accademie che ci sentiremmo di raccomandare: ad esempio il Conservatorio Teatrale diretto dal M° Giovanni Battista Diotaiuti (con un team di professionisti attrezzatissimi: il poliedrico Andrea Papalotti, recitazione; Mirella Bordoni, mimèsi; Luca Negroni, commedia dell’arte; Antonietta Franceschi, canto; Edoardo Scatà, tecnica televisiva) garantisce una solida preparazione, perché il colto e serafico demiurgo, che tanti bei nomi dello spettacolo ha tirato su e consegnato alla notorietà, fa sgobbare i suoi allievi e ne spreme maieuticamente il meglio prima che essi aspirino ad accedere (per aspera ad astra) al Piccolo di Milano, alla Paolo Grassi o alla Silvio D’Amico (che purtroppo, a nostro personale avviso, non garantiscono il premio ai meritevoli non accompagnati da potenti segnalazioni esterne). Ma usciti dalla forgia di Diotaiuti e Papalotti/Bordoni/Franceschi/Scatà/Negroni, i rampanti attori del Conservatorio non hanno, in verità, bisogno dei serti d’alloro di queste ultime accademie.
Tra parentesi si riaffaccia sul mercato una ingiustificabile riedizione, politicamente scorretta, con titolo nuovo e locandina rielaborata, di “Fantasmi”, da noi recensito nella rubrica “Schermomania”; ribattezzato con indisponenza “Paranormal Stories”, per cavalcare l’onda del filone parallelo dalla magica etichetta ‘attira gonzi’, inserisce un inutile prologo metatestuale. Ci corre l’obbligo di contestare vivacemente il parere di Claudio Bartolini, che deprezza proprio gli unici due mediometraggi di valore, “La medium” e “Fiaba di un mostro” (Roberto Palma/Stefano Prolli) per sopravvalutare gli scadentissimi, noiosi “Offline”, “17 Novembre” e “Urla in collina” (fatta salva la fotografia in codesto episodio)!
Distribuito in DVD, P.O.E. Poetry of Eerie è da vedere senza pregiudizi per l’italianità di provenienza (purtroppo resiste a tutt’oggi la tendenza irrazionale a stigmatizzare dapprincipio, senza verificare, il prodotto horror o SF nostrano!). Con un budget non all’osso, e quindi la possibilità di scritturare attori di sostanza e non bercianti, inespressivi novellini a cui non è stato trasmesso NULLA in famigerate scuole di cinematografia, oltretutto esose, il progetto di Pianigiani, Cristopharo e Campus sarebbe stata una freccia messa a segno a  ragionevole distanza dal centro.                                                                                                                                                                                                          
                                                                                        ARMANDO  SAVERIANO




Angelo Campus
claymation per IL GATTO NERO


Domiziano Cristopharo
Edo Tagliavini



Paolo Gaudio
F.lli Capasso 

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