martedì 9 settembre 2014

POESIA AL CASALE - Versi en plein air infertiliscono il presente

Mariastella Eisenberg e serafico consorte aprono senza stridore i cancelli della loro rustica tenuta di Laiano per ri-accogliere il compatto drappello dei poenauti: Vetromile, Urraro, il sottoscritto, più nuove presenze; la sociologa beneventana Rita Pacilio, patita di musica jazz e di teatro pulsionale, la romana Cinzia Marulli, che traduce in italiano i poeti cinesi ed è coppiera delle Muse nell’elargire il seme poetico nella sua facoltà diffusiva, l’ironico e sornione Giovanni D’Amiano, di Torre del Greco, prodiero di uno stornello sapido di accostamenti ironici ed erotici, la voluttuosa Melania Panìco, dal volto di madonna e dal corpo fatto per la body art, più la vera new entry, il bruno corsaro conzano Davide Cuorvo, appena imbarcato per fendere le onde affascinanti e insidiose della scrittura. Jolly il giovanissimo Michele Amodeo (15 anni!), precoce autore-attore, poliedrico e imprevedibile.
La Poesia affronta a pie’fermo un fenomeno contraddittorio: da un lato, la solitudine di un genere che mai ha conosciuto le folle degli stadi e dei concerti di piazza –e qui parliamo di Poesia matura ed esigente, non di poesia da Corrida e da Corte dei Miracoli, da torpedoni alla conquista di concorsini parrocchiali o da fiera della pizza chiena; dall’altro, un eccessivo moltiplicarsi di eventi che, per lo più vetrine di merce d’ascolto (distratto), se non risultano controproducenti tout-court, si rivelano -ahinoi!- uno spreco di tempo e di energie.
Gabriella Sica lamentava la mancanza di complicità tra chi scrive e declama la poesia e chi l’ascolta e la metabolizza. Definiva anche la lettura una “casa dell’arte ormai chiusa”. E rievocava, nostalgica, gli incontri con la novantenne zia Palma, nel viterbese, in occasione dei quali l’inossidabile vegliarda le recitava, a memoria, il canto di Paolo e Francesca. Più vivo, secondo Gabriella, il genere dialettale, di fibra diamantina, coriacea, inclìne a una trasmissione orale, e vera sorgente aurifera grazie ai vari Ignazio Buttitta, Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Biagio Marin, Giacomo Noventa, Franco Loi, Assunta Finiguerra e il nostro mirabellano Pasquale Martiniello con il suo robusto “No munno spierso” (sempre nell’ormai disperata attesa che i non indigenti eredi si decidano, dopo tanti inspiegabili anni d’inertitudine –la data dell’exit risale al 24 febbraio 2010!!-, a dare alle stampe l’ultima fatica dell’illustre congiunto, “Lo Sparviero”, da noi con consueto scrupolo, autorevolezza critica e amore, prefata e spedita allo storico editore Ferraro; essi furono lesti solo nell’inviare diffida a me e al poeta/curatore della rivista “Vicum”, Salvatore Salvatore, perché avremmo pubblicato poesie inedite senza familiar permesso e prefazione non “riveduta e corretta” da tali eminenze intellettuali (sic!), che ritenevano forviante del pensiero dell’autore il nostro insindacabile e intoccabile pensiero critico, e che, per dimostrare superiorità letteraria, si firmavano con il cognome premesso al nome di battesimo!!!!).
Gli appuntamenti del Casale a Laiano, in quel di Sant’Agata Dei Goti, e quelli avellinesi de “Il Versipelle”, presso lo spartano Centro Sociale “Samantha Della Porta”, vogliono offrire alla poesia e ai suoi officianti un’occasione di conoscenza, di confronto attivo, di analisi non sclerotico-scolastica, e ridare dignità di essenza e di funzioni al testo.
I tecnicismi sono tralasciati, gli agganci sociali, antropologici, filosofici e teatrali vengono invece collegati in un reticolo che ci restituisce, anche grazie all’utile interpretazione del passato, alla nostra contemporaneità in pericolo disintegrativo del sistema. La poesia in questo si fa salvifica perché getta un occhio all’ordine e l’altro al dissenso costruttivo, di fronte al quale neanche un rigoroso teorico come Durkheim aveva nulla da eccepire.
La poesia è libera, libera di dir tutto e di tutto indagare; pur sapendo che la Verità in senso assoluto è inaccessibile, essa si comporta come fosse il contrario e profonde i suoi impegni in tal direzione. Solo un simile atteggiamento permette e rende proficuo il colloquio, aperto allo spirito della ragionevolezza e del cuore, spurgando il dialogo dai pregiudizi e dagli atteggiamenti troppo ieratici.
Già nella sua opera prima, “Agave”, Cinzia Marulli avvertiva che il mezzo migliore per sfuggire al mondo e per entrarvi fisiologicamente ed empaticamente in contatto è goethianamente l’arte, sia nel momento della massima felicità sia tra gli spini del più manifesto e intrusivo dolore. Contemporaneamente si serviva della filologia e di un carattere espressionista per rapportarsi ad un’appartenenza non subalterna sul piano delle responsabilità civili e morali, ma anche letterarie. Le cosiddette strutture e le istituzioni condizionano anche lo scrittore, che vive il dilemma dell’integrazione o del distacco: la prima opzione sterilizza la creatività, la seconda isola nella disidentità. Meglio la via di mezzo suggerita in logopea (nell’accezione di “spazio bianco”, sottotesto) dalla Marulli, che non si immatricola nel complesso di norme e condotte ortodosse, ma neanche, pur non rinunciando all’autonomia eterodossa, si isola in una propria dimora di evanescenze, alti e severi ideali, eresie romantiche e fantasmatizzazioni. Nella plaquette “Las Mantas de Dios” (Le coperte di Dio) concede una visione più diversificata del suo personale rapporto “io/altro da me”: spazia dalla riflessione interiore alla percezione universale e atavica di “assenza”, di “vuoto”, eppure di enigmatica fusione nell’essenza cosmica, ad una condanna sociale delle anomie e delle perversioni (raggelante il testo di “Le bambole cieche”), fino ad accedere alla camera satirica e percussivamente irriverente de “I poeti sono brava gente”, che addirittura, nel complesso, in particolare nella reiterazione dell’espressione del titolo, ha un taglio “dialettale in lingua” per la vis prosodica e la eco lirica concentrica.
Chi ci legge da un po’ sa della nostra predilezione per Anne Sexton e per Patrizia Valduga, poetesse che plaudirebbero alla produzione trasgressiva nonchalante della vivace e poliedrica Rita Pacilio, che è anche interprete sincopata e alchemica dei suoi versi, alternando o mescolando il sound alle spume umorali delle pulsioni; il suo canto diviene flusso, lievemente ipnotico, che ci riporta a certe pagine di Gertrude Stein o alla terribilmente spiazzante recitazione straniata di Franca Rame in “Stupro” (per anni in repertorio delle attrici di Logopea Fiorella Zullo e Sonja Aquino). Sarebbe interessante affidare il celebre monologo ad entrambe le poetesse, Pacilio e Marulli, dotate di una recitazione degli opposti, quindi interessante nel confronto (hanno letto, anche insieme, alternandosi, i versi rispettivi). Le espressioni spregiudicate di Rita Pacilio non riguardano un’esumazione neo-boccaccesca corriva, fine a se stessa; la sua poesia, in questa chiave di lettura, si aggancia ad un pronunciamento realistico, che espelle le circonvoluzioni dell’allegorico pudiciziante, blocca interdizioni linguistiche e fa a sberle con le censure, tuttavia in una deliziosa commistione di sermo humilis e sublimis.
Melania Panìco, scoperta-rivelazione dell’immarcescibile fiuto rovente di Giuseppe Vetromile, che ne ha fatto sua cerbiatta e pupilla (in senso non prudereccio, per carità!), ancora inedita, ma assai prolifica, si compiace di non ripetersi, di non assomigliarsi in un verseggiare irrorato della linfa molto verbale e sonora, eppure incline alla stringatezza, all’asciugo di una cantabilità sempre timorosa di esondare, malgrado le interruzioni e gli scarti, anche improvvisi.
Giuseppe Vetromile si è attestato in una zona di penombra comunicativa: un po’ rattratta, subito poi effusiva; circonchiusa nella sala d’aspetto d’un cauto ermetismo, quindi subito rivelatrice di un dramma socioesistenziale che spacca l’individuo in una dualità inaccostabile, immedicabile. È –lo ribadiamo hic et nunc– di un pessimismo che dalla tromba delle scale lancia un richiamo per la fune di sicurezza dell’ultimo appello. Tanto si evince, ancora, dai suoi inediti.
Raffaele Urraro è in dissidio con l’indicibilità della parola incolpevole, laddove il limite è squisitamente e tragicamente umano; nuota con coraggiose bracciate tra Beckett e Pirandello, amando tuttavia la nitidezza dell’espressione, la franchezza e l’idealità del messaggio, contemporaneamente pescando disegni e fotogrammi dallo zainetto del passato semplice e contadino. Anch’egli, nel volume che raccoglie i ricordi dolci e difficili, è affine a un dialettale in lingua. Suoi capolavori, a nostro dire, sono “La parola incolpevole” e “Ero il ragazzo scalzo nel cortile” dove l’uso di vocaboli di tutti i giorni è così sagace e pertinente da tessere uno stupefacente circuito sinaptico tra sfera emotiva e contaminazione mnestica collettiva (a livello di ereditarietà junghiana), tutto il contrario della sinchìsi di certe combinazioni tra anastrofi/iperbati, ancora in voga tra i contemporanei e peraltro non poco intrigante.
Giovanni D’Amiano si presenta con un vistoso volume di testi dedicati…all’anguria! Il dissetante e squisito frutto delle cucurbitacee viene trattato in maniera inedita, spassosa e geniale, con un piglio da cantata che slitta nell’eros gaudente e divertito, sicché i centodieci componimenti finiscono per somigliare a una danza nell’aia, dove tuttavia il momento lirico è alto e non retrocede a favore del puro intrattenimento.
Il ventunenne conzano Davide Cuorvo è in fase di ascolto e di assorbimento: sa che è importante abbeverarsi al logos e farlo proprio, per manipolarne forme e implicazioni: quindi ben opportunamente si concede ad esperimenti anche all’impronta, con esiti già positivi. Giovevoli nel suo caso le letture dantesche e petrarchesche; i sonetti guinizzelliani e l’approccio con il Cavalcanti; quindi con specifico salto i poeti maledetti, e l’imprescindibile Arthur Rimbaud. Più i moderni e i contemporanei: frequentazioni cimentanti e assidue, propedeutiche ad equilibrio e ad armonia. Ma anche giovevoli alla fecondità dell’ispirazione, lontana dai cliché che sono morte e tumulazione in poesia.
Undicenne, Michele Amodeo si è formato, entrando in Logopea, in un ambiente rorido di teatralità e scrittura creativa, il che lo favorisce oggi, quando riesce a catturare l’ascolto degli astanti con le sue poesie e a ottenere vistosi consensi nell’interpretare la madre col mal di denti del compianto Annibale Ruccello.

Mariastella Eisenberg, sprovvista di inediti e di libri testimoniali come “Alfabetando” o “Madri vestite di sole”, suoi fiori all’occhiello, tira fuori una plaquette esilissima, spillata, molto artigianale (in realtà prodotto editoriale di “alla chiara fonte”- Viganello, Svizzera), dove compare, assieme a Lello Agretti, Rossana Bazzano, Roberto Ceccarini e Alfonso Marino. È una Mariastella minore, quasi esitabonda e velata, come colpita alla sprovvista da una proposta intempestiva e estemporanea. Valuteremo, a parte, anche il lavoro (e il livello e il valore) dei suoi compagni “Incontrati a Caserta”.
La giornata è volata via tra discussioni, propositi e proposte; tante le letture e le interrogazioni di senso e prospettiva. Pare dimenticato/accantonato lo spettacolo che si voleva organizzare intorno ai versi ustorî di Assunta Finiguerra, che avevano infiammato tutti, comprese l’attrice Angela Caterina e la fine dicitrice Orsola Ferraro. Fu un pour parler. Non più d’un venticello destinato ad essere assorbito dalle crepe d’un muricciolo, rapito dal primo cespuglio di rose!
Sontuosa di bontà la tavola: tartine, affettati, cetriolini, crudités in pinzimonio, mozzarelle, insalate di riso, tradizionale e alla frutta fresca, crostate alle bietole e ai salumi; immancabile la classica parmigiana, i dolci, i vini, lo spumante, i digestivi e il caffè.
Posto d’onore all’anguria, regina bifolca, nuda e generosa della mensa, trangugiata villanamente  – comm’il faut! – da noi e da altri, ma…horribile dictu! certosinamente e sconvenientemente tagliuzzata con coltello e forchetta proprio dal poeta D’Amiano, che ne imponeva un consumo godurioso e plebeo a tutta faccia immersa nella profumata, rossa, vaginale polpa!
Come lo giustifica, poeta D’Amiano? Predica bene e razzola male? Ahiahi!
Tentatrice la piscina, della quale nessuno, né giovane né attempato, ha voluto approfittare. E non per assenza di costumi…
Il buon Vetromile, impareggiabile maestro di cerimonie in Casa Eisenberg & consorte, all’incirca gasindio in servitio et in obsequio, ha raccolto la classica composizione finale collettiva e senza complessi dei poeti protagonisti e a quanto pare la pubblicherà in un blog che –se abbiamo inteso correttamente– potrebbe sostituire gli stampati degli “Atti degli Appuntamenti al Casale”, come s’era convenuto in odor d’ipotesi all’inizio dell’avventura letteraria. Mi scuso con il poeta Giovanni D’Amiano; non ho avuto copia né del volume sull’anguria, né di suoi inediti sciolti; di conseguenza non sono in condizione di poter riportare qui di seguito neanche una sillaba. Sorry.
                                                                                     
                                                                                         ARMANDO SAVERIANO



Abbracciata
a tepore d’amore
senza macigni in cuore
planando sulla vita
leggermente
questo
vorrei:
scalo sicuro.

Mariastella Eisenberg

*

Arranca silenziosa
la vita ingannata
Destino beffardo
di tragici scherzi
Corpi sospesi nel vuoto
senza linfa
Giacciono persi
su gambe di ruote
senza gesti

Cinzia Marulli

*
L’ano è una pozzanghera vuota
secca e nera. Baratta debiti
è un cantiere sempre aperto
fatto di smagliature
pelose di velluto.
Serpeggia diverse volte
senza separare lo sporco dal reggipetto
indossato sul torace depilato.
È un sollievo giustificare
la responsabilità dell’offerente
salvarsi dalla pena ripetuta.
Anche gli uomini si innamorano.

Rita Pacilio

*

Mi ha noleggiato la vita perché prendessi a nolo
il respiro il castagneto la curva dell’errore l’altezza
della meta la disperazione narcisa queste prove di
scrittura che me ne fotto non mi perdonerete Poveri
precari tutti protagonisti provvisori dell’unico miraggio

Armando Saveriano

*

Ti reco essenza d’asfodeli bianchi, estorti
dai laterizi abbandonati del quartiere,
morto in santità semiseria
sul sentito dire delle vecchiette
al rosario della sera – “Ausilium
Christianorum, ora pro nobis,
miserere… – l’unica purezza
rimasta attaccata ai banchi della
chiesa. Derelitti, fuori, attendono
il pane nei canestri, ma con l’altro occhio
già frugano nelle tasche dei cappotti.

Giuseppe Vetromile

*

(L’irrefrenabilità del dolore)

Quand’è in me
non lo calmo,
mi punge dentro
come
le punte delle
lame di
tanti coltelli
di fuoco.
La spina che
mi trafigge
non si ferma.
Scava, scava
nel mio essere.
La mia pelle
si fa vetro
 e si frantuma.
Tutto sparisce
in pochi attimi.
Dopo la sconvolgente
tempesta
Niente resta e
io sono solo
con me stesso.
Ogni cosa cessa,
ma io sono sempre
lì.

Michele Amodeo

*

La malinconia, fredda
tra le impetuose sillabe del vento
era così, quel rosso acceso mi investiva
la malinconia tua scoloriva le cose
e diventava tutto buio
le tenebre
accoglievano il mio silenzio
e come per incanto
si frantumava la luna in braccio al fogliame.

Davide Cuorvo


(Il profilo delle nubi)

Che sia possibile
esplorare il mare
forme di carta bianca
librate nell’aria
terra bruciata
gridi distratti
al cielo
ombre di nebbia
essenze di sabbia

Davide Cuorvo

*

 di tutti gli arabeschi
calati sulla pagina bianca
di tutti i nostri giochi
costruiti con un po’ di fantasia
la parola è incolpevole
che ne sa mai la parola
dei trucchi e degli inganni
elaborati con cura dalla mano
che cede agli impulsi
della mente confusa tra gli intrighi
di un pensiero che finge?
regna nel silenzio la parola
e nel silenzio aspetta che la trovi
chi sappia solcare il campo
di segni e seminare

Raffaele Urraro

*

Mi lascio qui
a costruirmi ragnatele
su carta
con poche parole
ché l’inchiostro si asciuga in fretta,
con le mani
faccio grovigli d’aria
e non sono pensieri.

Melania Panico







Giuseppe Vetromile in lettura sue poesie

Da sinistra : Davide Cuorvo, Armando Saveriano, Michele Amodeo

Da sinistra : Melania Panico, Mariastella Eisenberg

   I Poeti del Casale - Da sinistra : Raffaele Urraro, Melania Panico,
        Rita Pacilio, Giuseppe Vetromile, Cinzia Marulli, Michele Amodeo,
       Davide Cuorvo, Mariastella Eisenberg, Armando Saveriano,
 Giovanni D'amiano

Davide Cuorvo in lettura sue poesie

Armando Saveriano in lettura sue poesie

Rita Pacilio e Cinzia Marulli in lettura poesie

La bella Melania Panico in lettura poesie

Da sinistra : Giovanni D'amiano, Raffaele Urraro, Davide Cuorvo

Raffaele Urraro nell'atto di trangugiare avidamente l'anguria

Da sinistra : Melania Panico, Armando Saveriano, Davide Cuorvo

Michele Amodeo in "Ruccello"

Mariastella Eisenberg in lettura sue poesie



3 commenti:

  1. Una sorpresa questa mattina trovare, quasi casualmente, questo generoso scritto di Armando Saveriano. In realtà ero venuta su questo blog a curiosare e invece mi sono imbattuta in uno scritto interessante che unisce ricordi piacevolissimi a un'analisi attenta, precisa di testi poetici. Approfitto dunque per ringraziare con tutto il cuore Armando!

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  2. Perdermi tra la tua scrittura, qualunque essa sia, è un delitto che val la pena scontare, qualunque sia l'ora in cui lo si commetta. Sei in forma Armando ed anche gli altri poeti in piena aria
    tuo antico Rimbaud [ Raffaele]

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  3. Gentile Armando Saveriano, ammetto che non conoscevo "Logopèa", che, avendola finalmente scoperta, trovo molto interessante e ricca di...cultura. Complimenti. Grazie per le espressioni di...gradimento per il mio poemetto ..."L'anguria". Mi dispiace che, impegnato a portare fisicamente l'anguria, ho dimenticato di lasciarle un volume. Lo farò con grande piacere alla prossima occasione. Le segnalo una svista nelle foto pubblicate: il mangiatore di anguria "con la faccia affondata nella polpa...vaginale" non è Raffaele Urraro, ma il sottoscritto, appunto nell'atto fisico di dare una dimostrazione pratica di come godo mangiare l'anguria... Grazie per l'esaustivo resoconto della bella giornata al Casale di Mariastella...

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