lunedì 21 luglio 2014

LA STESURA INALTERABILE DEL LIMPIDO E DEL PROPRIO - Pneuma e icasticità in Gabriella Maleti

Si amano da subito, dalla prima pagina, le stagioni di Gabriella Maleti, con alterne atmosfere che rischiarano la lettura e ci risparmiano la "colpa” di intrufolarci in una vita altra, con leggerezza e con goffaggine oppure con curiosità incivile; il lettore in ogni caso si sente inadeguato, o troppo distaccato o voyeur. Ma qui il racconto lo mette a suo agio, ne allontana i sospetti, le diffidenze, le fisime, gli porge un suo benvenuto. E che bella scrittura, tersa, con quale sapienza di strumento e anima si dispone e predispone, con quante sfumature di dignità continua a trattare con gli azzurri, l’ocra e il nero dell’esistenza, qualunque essa sia, con le sue dulcedini acide e il giusto sale nell’agro! Nella sua incontestabile onestà, veridico nel suo rapporto con il reale, nell’in genere patteggiante rapporto mnestico con il Prima, il linguaggio fotoprosapoetico, dosato con eccellenza, si fa costellazione dell’essere, carne e spirito, senza imbarazzi, senza nascondimenti; te lo senti scivolare appoggiato al corrimano del dramma, della commedia, del monologare dialogando, in questo libro. Si ha la sensazione di una appartenenza personale alla voce, alla sua dicibilità, e tale/tanta comprensione, tale/tanta compenetrazione, che non sono soltanto, per l’autrice, scatto visivo/poesia/prosa, ma per l’affratellato lettore un palpitante spartire i vissuti e provarli, fondano qualcosa di più intimo della complicità, qualcosa che è assai diverso dall’aprire l’album privato a un passante amico. È un lungo, irrinunciabile disincanto, con cui si srotola la parabola e ti riavvolge con sé come una pellicola ininterrotta; e non ha nulla della confessione, che guasterebbe, banalizzerebbe. O della “spiegazione”, che darebbe noia alla vista dello spettatore/ascoltatore partecipante, inficerebbe le intenzioni e depriverebbe la natura etica stessa di Poesia. Sono finestre che si schiudono senza complessi, porte accostate da cui filtrano luce, conversari, sussurri, esclamazioni, nitide affermazioni; passi di piedi nudi sugli scalini, bianco confuso nel corridoio, il sobbalzare di un camioncino impilato di masserizie sotto la pioggia, cioccolato nei cassetti, l’invincibilità del fato, la conoscenza della morte, l’onnipresente morte, visitatrice che sia pure di giorno porta notte, e uno spillone, che può farti pronunciare: “La famiglia non era fatta per me./ Ora non ho più rimpianti”. Il passato sembra lontano, te ne convinci. Eppure è presente meno che in un attimo. Sempre. E il dono/dolo non richiesto della nascita, il passaggio dalla pace e dal pluviale moto (come la poeta esprime nel passaggio ritornante a pag. 48 del suo Poi) porta all’incipit argutamente (ma anche sarcasticamente) dubitoso: “Nascere per essere nati/o morire per nascere?” E lucida, tagliente e categorica prosegue la sua inesorabile modalità espressiva nello spettro dagli spigoli puntuti della sessualità quando al dispotico e invadente giudizio altrui essa appare e viene immediatamente etichettata strana. È questo un componimento magistrale che ingioia sofferenza, ribellione, disprezzo, presa d’atto. Fra Prima e Poi troviamo impresso un O che non ha valore disgiuntivo quanto atemporale e senz’altro metafisico. La poeta, figlia anelante di maternità, sebbene putativa-virtuale-trasversale, ne intitola la terza sezione, dove lo splendido, il grottesco, l’irriverente e la bellezza melanconico-sincopata colpiscono come frecce sicure del bersaglio. Qui reificato è l’atteggiamento ambiguo (e non potrebbe essere altrimenti) delle forze: tra l’irrisione di cui la vita ti fa oggetto, o che ti spinge in condizione di sentirti beffato più che frodato, e l’impassibilità di una finitudine che ti pedina passo passo, finché non senti che ti marca (o non le chiedi tu di farlo). Impressiona l’assenza di quella singolare ferocia che può intrudere il così franco parlato, o le asprezze compulsive, come pure l’involontario patetismo e il giustificabilissimo ius rivendicativo: campeggiano al contrario  l’asciuttezza, la tenacia, una vulnerabilità dignitosa che non alza difese né raccatta pretesti o piglia tempo per recuperi. I versi ricostruiscono per noi il ritratto di una persona magnifica, autentica, alla quale siamo grati per ogni condivisione. Non possiamo altresì glissare sul prisma dell’estetica e della tecnica che compendia passione intellettuale e incandescenza creazionale, vene emotive allo scoperto e orchestrazioni armoniche; si leggano, a puro titolo d’esempio: “(1950, Milano”(pag.17); Pare debba inchiodarsi l’onda”(pag.20); “Liberazione, libertaria, libera tu” (pag.22); “Mi gira la testa, ascolto la nausea”(pag.34);”Scendere gradini in un mondo piccolo” (pag.46): “Dissero” (pag.72). Terremo questo simpatetico libretto sul nostro comodino, come un prestito accorato che è già “possesso”; lo apriremo ai meritevoli per espandere la nostra amicizia e il gusto del valore e del bello.      
                                                                                                          
ARMANDO SAVERIANO


Era la vecchia a farmi paura.
Bianco-giallognolo i capelli male lavati.
Succhiava ossi di gallina nella sua stanza da letto,
davanti al camino. Beveva il brodo.
Slurp slurp, crac crac.
Scappavo da quel primo piano campagnolo.
Crac crac, si sentiva. Si immagina succhiasse,
spezzasse, rodesse. Che denti, ancora.
Eravamo mia madre ed io abbarbicate
all’altro canto della casa.
Non piangevo, ma il cuore soffiava come
i treni lontani.
Violenza di famiglia.
Poi tacquero vecchia e paura.
Mio cugino prete disse: “Abbiamo dissotterrato
la nonna: vedessi com’è diventata piccola,
lei così grossa e alta!”
Piccola, povera creatura.
Paura negli esseri piccini, variegati,
con poco respiro. Paura del tutto,
del niente che è tutto, se il niente comprende
l’ossimoro di tutta una vita,
nello sbadiglio di chi fa e disfa, di chi si rifà,
e così resta.
E così sia.
*
Le domande lasciano senza senso. Orbi.
Non si è più certi di nulla.
Quello che si è osservato pochi istanti prima
è scomparso. Eccoci fermi senza più movimento.
Chi sei? Un esempio inconcluso. Da non trattare.
Prima della domanda facevo automaticamente le
solite cose. Ero io. Mi nomavo di tal nome.
Camminavo, muovevo le braccia, le mani.
Ora pare non sappia più camminare, dire.
Il Creatore non ride, ci osserva per come
siamo “riusciti” dopo l’infornata.
Mi accetto? No?
Che sto qui a fare? Che ho da dire, da dimostrare?
Dovresti fluire, sgusciare come seme fuor d’uva.
Ora le domande sono finite.
Respiro e cammino a zonzo. Non è salutare rispondere.
Quello che si dice è troppo, mediato da una
verità troppo personale.
*
Dissero:
“Guarda quanta luce”.
“Da dove arriva?”
“Da ovest”.
“Ma noi siamo a sud”.
“Che importa, basta girare lo sguardo”.
“Non posso girare lo sguardo, ho deciso di mantenermi costante”.
“Allora gira un braccio, e stendilo”.
“Dovrei mutare aspetto: diventerei una mezza croce”.
“Avresti più possibilità”.
“Salverei solo la parte sinistra di me, la destra si rifiuterebbe di
seguirmi, e io non voglio dividermi”.
“Allora aspetta, la luce arriverà ad illuminarti completamente”.
“Non posso aspettare, mi sto già inclinando”.
“Quanto ti rimane?”
“Pochi secondi”.
“E gli artigli, e i capelli, la lingua, la coda?”
“Mi stanno lasciando”.
“E i denti, che ne hai fatto dei denti?”
Si udì uno schianto. Qualcosa si ruppe. L’ombra non illuminò niente.
Solo la luce avrebbe messo ordine.

1 commento:

  1. Sempre grande Gabriella . Coinvolgente
    leopoldo attolico -

    RispondiElimina