Si amano da subito, dalla prima pagina,
le stagioni di Gabriella Maleti, con alterne atmosfere che rischiarano la
lettura e ci risparmiano la "colpa” di intrufolarci in una vita altra, con
leggerezza e con goffaggine oppure con curiosità incivile; il lettore in ogni
caso si sente inadeguato, o troppo distaccato o voyeur. Ma qui il racconto lo
mette a suo agio, ne allontana i sospetti, le diffidenze, le fisime, gli porge
un suo benvenuto. E che bella scrittura, tersa, con quale sapienza di strumento
e anima si dispone e predispone, con quante sfumature di dignità continua a
trattare con gli azzurri, l’ocra e il nero dell’esistenza, qualunque essa sia,
con le sue dulcedini acide e il giusto sale nell’agro! Nella sua incontestabile
onestà, veridico nel suo rapporto con il reale, nell’in genere patteggiante
rapporto mnestico con il Prima, il
linguaggio fotoprosapoetico, dosato
con eccellenza, si fa costellazione dell’essere, carne e spirito, senza
imbarazzi, senza nascondimenti; te lo senti scivolare appoggiato al corrimano
del dramma, della commedia, del monologare dialogando, in questo libro. Si ha
la sensazione di una appartenenza personale alla voce, alla sua dicibilità, e
tale/tanta comprensione, tale/tanta compenetrazione, che non sono soltanto, per
l’autrice, scatto visivo/poesia/prosa, ma per l’affratellato lettore un
palpitante spartire i vissuti e provarli, fondano qualcosa di più intimo della
complicità, qualcosa che è assai diverso dall’aprire l’album privato a un
passante amico. È un lungo, irrinunciabile disincanto, con cui si srotola la
parabola e ti riavvolge con sé come una pellicola ininterrotta; e non ha nulla
della confessione, che guasterebbe, banalizzerebbe. O della “spiegazione”, che
darebbe noia alla vista dello spettatore/ascoltatore partecipante, inficerebbe
le intenzioni e depriverebbe la natura etica stessa di Poesia. Sono finestre che si schiudono senza complessi, porte
accostate da cui filtrano luce, conversari, sussurri, esclamazioni, nitide
affermazioni; passi di piedi nudi sugli scalini, bianco confuso nel corridoio,
il sobbalzare di un camioncino impilato di masserizie sotto la pioggia,
cioccolato nei cassetti, l’invincibilità del fato, la conoscenza della morte,
l’onnipresente morte, visitatrice che sia pure di giorno porta notte, e uno
spillone, che può farti pronunciare: “La
famiglia non era fatta per me./ Ora non ho più rimpianti”. Il passato
sembra lontano, te ne convinci. Eppure è presente meno che in un attimo.
Sempre. E il dono/dolo non richiesto della nascita, il passaggio dalla pace e
dal pluviale moto (come la poeta esprime nel passaggio ritornante a pag. 48 del
suo Poi) porta all’incipit
argutamente (ma anche sarcasticamente) dubitoso: “Nascere per essere nati/o morire per nascere?” E lucida, tagliente
e categorica prosegue la sua inesorabile modalità espressiva nello spettro
dagli spigoli puntuti della sessualità quando al dispotico e invadente giudizio
altrui essa appare e viene
immediatamente etichettata strana. È
questo un componimento magistrale che ingioia sofferenza, ribellione,
disprezzo, presa d’atto. Fra Prima e Poi troviamo impresso un O che non ha valore disgiuntivo quanto
atemporale e senz’altro metafisico. La poeta, figlia anelante di maternità,
sebbene putativa-virtuale-trasversale, ne intitola la terza sezione, dove lo
splendido, il grottesco, l’irriverente e la bellezza melanconico-sincopata
colpiscono come frecce sicure del bersaglio. Qui reificato è l’atteggiamento
ambiguo (e non potrebbe essere altrimenti) delle forze: tra l’irrisione di cui
la vita ti fa oggetto, o che ti spinge in condizione di sentirti beffato più
che frodato, e l’impassibilità di una finitudine che ti pedina passo passo,
finché non senti che ti marca (o non le chiedi tu di farlo). Impressiona l’assenza
di quella singolare ferocia che può
intrudere il così franco parlato, o le asprezze compulsive, come pure
l’involontario patetismo e il giustificabilissimo ius rivendicativo: campeggiano al contrario l’asciuttezza, la tenacia, una vulnerabilità
dignitosa che non alza difese né raccatta pretesti o piglia tempo per recuperi.
I versi ricostruiscono per noi il ritratto di una persona magnifica, autentica,
alla quale siamo grati per ogni condivisione. Non possiamo altresì glissare sul
prisma dell’estetica e della tecnica che compendia passione intellettuale e
incandescenza creazionale, vene emotive allo scoperto e orchestrazioni
armoniche; si leggano, a puro titolo d’esempio: “(1950, Milano”(pag.17); “Pare
debba inchiodarsi l’onda”(pag.20); “Liberazione, libertaria, libera tu”
(pag.22); “Mi gira la testa, ascolto la nausea”(pag.34);”Scendere gradini in un
mondo piccolo” (pag.46): “Dissero” (pag.72). Terremo questo simpatetico libretto sul nostro
comodino, come un prestito accorato che è già “possesso”; lo apriremo ai
meritevoli per espandere la nostra amicizia e il gusto del valore e del bello.
ARMANDO SAVERIANO
Era
la vecchia a farmi paura.
Bianco-giallognolo i capelli male lavati.
Succhiava ossi di gallina nella sua stanza da letto,
davanti al camino. Beveva il brodo.
Slurp slurp, crac crac.
Scappavo da quel primo piano campagnolo.
Crac crac, si sentiva. Si immagina succhiasse,
spezzasse, rodesse. Che denti, ancora.
Eravamo mia madre ed io abbarbicate
all’altro canto della casa.
Non piangevo, ma il cuore soffiava come
i treni lontani.
Violenza di famiglia.
Bianco-giallognolo i capelli male lavati.
Succhiava ossi di gallina nella sua stanza da letto,
davanti al camino. Beveva il brodo.
Slurp slurp, crac crac.
Scappavo da quel primo piano campagnolo.
Crac crac, si sentiva. Si immagina succhiasse,
spezzasse, rodesse. Che denti, ancora.
Eravamo mia madre ed io abbarbicate
all’altro canto della casa.
Non piangevo, ma il cuore soffiava come
i treni lontani.
Violenza di famiglia.
Poi
tacquero vecchia e paura.
Mio cugino prete disse: “Abbiamo dissotterrato
la nonna: vedessi com’è diventata piccola,
lei così grossa e alta!”
Mio cugino prete disse: “Abbiamo dissotterrato
la nonna: vedessi com’è diventata piccola,
lei così grossa e alta!”
Piccola,
povera creatura.
Paura
negli esseri piccini, variegati,
con poco respiro. Paura del tutto,
del niente che è tutto, se il niente comprende
l’ossimoro di tutta una vita,
nello sbadiglio di chi fa e disfa, di chi si rifà,
e così resta.
E così sia.
con poco respiro. Paura del tutto,
del niente che è tutto, se il niente comprende
l’ossimoro di tutta una vita,
nello sbadiglio di chi fa e disfa, di chi si rifà,
e così resta.
E così sia.
*
Le
domande lasciano senza senso. Orbi.
Non si è più certi di nulla.
Quello che si è osservato pochi istanti prima
è scomparso. Eccoci fermi senza più movimento.
Chi sei? Un esempio inconcluso. Da non trattare.
Prima della domanda facevo automaticamente le
solite cose. Ero io. Mi nomavo di tal nome.
Camminavo, muovevo le braccia, le mani.
Ora pare non sappia più camminare, dire.
Il Creatore non ride, ci osserva per come
siamo “riusciti” dopo l’infornata.
Mi accetto? No?
Che sto qui a fare? Che ho da dire, da dimostrare?
Dovresti fluire, sgusciare come seme fuor d’uva.
Non si è più certi di nulla.
Quello che si è osservato pochi istanti prima
è scomparso. Eccoci fermi senza più movimento.
Chi sei? Un esempio inconcluso. Da non trattare.
Prima della domanda facevo automaticamente le
solite cose. Ero io. Mi nomavo di tal nome.
Camminavo, muovevo le braccia, le mani.
Ora pare non sappia più camminare, dire.
Il Creatore non ride, ci osserva per come
siamo “riusciti” dopo l’infornata.
Mi accetto? No?
Che sto qui a fare? Che ho da dire, da dimostrare?
Dovresti fluire, sgusciare come seme fuor d’uva.
Ora
le domande sono finite.
Respiro e cammino a zonzo. Non è salutare rispondere.
Quello che si dice è troppo, mediato da una
verità troppo personale.
Respiro e cammino a zonzo. Non è salutare rispondere.
Quello che si dice è troppo, mediato da una
verità troppo personale.
*
Dissero:
“Guarda quanta luce”.
“Da dove arriva?”
“Da ovest”.
“Ma noi siamo a sud”.
“Che importa, basta girare lo sguardo”.
“Non posso girare lo sguardo, ho deciso di mantenermi costante”.
“Allora gira un braccio, e stendilo”.
“Dovrei mutare aspetto: diventerei una mezza croce”.
“Avresti più possibilità”.
“Salverei solo la parte sinistra di me, la destra si rifiuterebbe di
seguirmi, e io non voglio dividermi”.
“Allora aspetta, la luce arriverà ad illuminarti completamente”.
“Non posso aspettare, mi sto già inclinando”.
“Quanto ti rimane?”
“Pochi secondi”.
“E gli artigli, e i capelli, la lingua, la coda?”
“Mi stanno lasciando”.
“E i denti, che ne hai fatto dei denti?”
Si udì uno schianto. Qualcosa si ruppe. L’ombra non illuminò niente.
Solo la luce avrebbe messo ordine.
“Guarda quanta luce”.
“Da dove arriva?”
“Da ovest”.
“Ma noi siamo a sud”.
“Che importa, basta girare lo sguardo”.
“Non posso girare lo sguardo, ho deciso di mantenermi costante”.
“Allora gira un braccio, e stendilo”.
“Dovrei mutare aspetto: diventerei una mezza croce”.
“Avresti più possibilità”.
“Salverei solo la parte sinistra di me, la destra si rifiuterebbe di
seguirmi, e io non voglio dividermi”.
“Allora aspetta, la luce arriverà ad illuminarti completamente”.
“Non posso aspettare, mi sto già inclinando”.
“Quanto ti rimane?”
“Pochi secondi”.
“E gli artigli, e i capelli, la lingua, la coda?”
“Mi stanno lasciando”.
“E i denti, che ne hai fatto dei denti?”
Si udì uno schianto. Qualcosa si ruppe. L’ombra non illuminò niente.
Solo la luce avrebbe messo ordine.
Sempre grande Gabriella . Coinvolgente
RispondiEliminaleopoldo attolico -