La
Cabras ha una formidabile accensione del possesso lirico. Rapisce. Quando ci
imbattiamo nei suoi versi siamo già in fluttuante partenza senz’altra meta che
la valenza simbolica di una parola essenziale dalle diverse angolazioni; senza
maggior piacere della cadenza ipnotica del suono eccipiente e antico, che fa apprezzare il gioco verbale e la
percussione tellurica, o assottigliata e asciutta, dimensionata su una voce
fuori campo e al di là del tempo, scandente il bisbiglio e la nenia;
nell’avvalersi di una speciale morfologia di versi ora isòtoni ora
imprevedibilmente orientati a uno scarto lessicale eterogeneo, la poetessa
ottiene effetti di metacromasìa. Quest’aspetto è preponderante e raddensato
nella combustione della koinè sospesa, quasi atemporale Limba de focu e radichinas, mentre nella sezione prima prevale lo
schizzettare l’imperio del segno, elegantemente novecentesco, sopra una
tavolozza virtuale, da un versante più esterno, non meno complesso e
catalizzante. L’indebolimento del dialetto, come una lenta, progressiva
corrosione, può portare a una perdita di rotta nel recupero del passato: ecco
perciò la Cabras intervenire con il suo salvifico attrito testimoniale: “sos
ossos nostros pesant ligaos a benas a dolu/sa limba de su focu e de sas
radichinas nos ammentant”// le nostre
ossa pesano legate a dolore a vene/la lingua delle radici e del fuoco ci
rammentano”.
I
versi, nella parte che precede, piovono quasi casualmente sulla pagina, eppure
formano una trapunta dove l’occhio deve farsi orecchio, altrimenti la poesia
non sa parlare, si defila in un irritato enigma dove indizi visibili e
impercetti si mescolano, e devìano. Per questo Cabras è demiurgo e custode,
accoglitrice e dispensiera a tratti oracolare: sgrana la verità e si sgrava del
proprio mistero in un canto canicolare e in un controcanto d’ombra; altresì si
sottrae per fini, imprendibili allegorie, con un dettato scarno, tagliente,
raffinato, dalle improvvise e implosive velature carsiche e/o adiacenti a senso
e significato, a partire dal titolo Bambine
Meridiane.
Per
spazi, echi e visioni, nella trasmissione scrittoria, per consapevolezze e
savie eredità ancestrali della sua e di tutte le altre territorialità che ha
praticato, la poeta nuorese si afferma, ancora nella selettiva collana di
Bettarini/Maleti, Gazebo, come elemento di spicco e di patente cruore nella
grande poesia che non cerca glorie frastornanti e che si regge sull’aderenza io/parola/anima mundi.
La
koinè innesca la simbiosi fra tessitura lirica, sintesi gnòmica e valore
antropologico radicalizzato: “sa limba nostra est prena e bódia che unu menhir
chin/s’umbra sua, che-i s’abissu fundu de sos nuraches/ si moghet in tundu
che-i su ballu: ballu ʼe ànimas/ faveddat sonat sa limba e contat”“la nostra lingua è piena e vuota come un
menhir con/la sua ombra, è il fondo abissale dei nuraghi/si muove in tondo come
il ballo: ballo d’anime /parla risuona la lingua e racconta”
A
tutti segnaliamo il libretto dall’economia binaria, tra vocalismi trascinanti e
rullii esortativi, dal linguaggio ora chiaro ora gergale, ora martellante, ora
escoriato ora liquido: “scava scava che
ritorna/la notte/non doma non dorme/torna di niente sapiente/(mente?)//
stringiamo ciò che intorno/ a noi rumina e morde/lasciamo che l’intrico/ci
attraversi scarpe arterie/è relitto di squame/il nostro corpo animale/dissolta
anatomia//non conosco oscillazione di parole/sfarfallio ontico/silenzio che
allude al suono-segnale/(scala che fugge?)//datemi la luce della pietra/
ridatemi la cera/una mano da invasare/un ombelico/fruscii e templi
d’acqua/incustoditi//mari sabbia/carovane e vie d’acqua/ nel nudo corpo/un solo
uovo cova sette anime//per te, divinando/accettai di conoscere/il vuoto/la
mente che non concede tregua…”
Armando Saveriano
BAMBINE MERIDIANE
MARIA GRAZIA CABRAS GAZEBO EDIZ. - FIRENZE 2014
PAG.64
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