venerdì 1 agosto 2014

LA BUSSOLA DELLA CABRAS NEL CORPO DELLA PAROLA: INTERROGAZIONI DELLA POESIA E RECUPERABILITÀ ANTROPOLOGICHE

La Cabras ha una formidabile accensione del possesso lirico. Rapisce. Quando ci imbattiamo nei suoi versi siamo già in fluttuante partenza senz’altra meta che la valenza simbolica di una parola essenziale dalle diverse angolazioni; senza maggior piacere della cadenza ipnotica del suono eccipiente e antico, che  fa apprezzare il gioco verbale e la percussione tellurica, o assottigliata e asciutta, dimensionata su una voce fuori campo e al di là del tempo, scandente il bisbiglio e la nenia; nell’avvalersi di una speciale morfologia di versi ora isòtoni ora imprevedibilmente orientati a uno scarto lessicale eterogeneo, la poetessa ottiene effetti di metacromasìa. Quest’aspetto è preponderante e raddensato nella combustione della koinè sospesa, quasi atemporale Limba de focu e radichinas, mentre nella sezione prima prevale lo schizzettare l’imperio del segno, elegantemente novecentesco, sopra una tavolozza virtuale, da un versante più esterno, non meno complesso e catalizzante. L’indebolimento del dialetto, come una lenta, progressiva corrosione, può portare a una perdita di rotta nel recupero del passato: ecco perciò la Cabras intervenire con il suo salvifico attrito testimoniale: “sos ossos nostros pesant ligaos a benas a dolu/sa limba de su focu e de sas radichinas nos ammentant”// le nostre ossa pesano legate a dolore a vene/la lingua delle radici e del fuoco ci rammentano”.
I versi, nella parte che precede, piovono quasi casualmente sulla pagina, eppure formano una trapunta dove l’occhio deve farsi orecchio, altrimenti la poesia non sa parlare, si defila in un irritato enigma dove indizi visibili e impercetti si mescolano, e devìano. Per questo Cabras è demiurgo e custode, accoglitrice e dispensiera a tratti oracolare: sgrana la verità e si sgrava del proprio mistero in un canto canicolare e in un controcanto d’ombra; altresì si sottrae per fini, imprendibili allegorie, con un dettato scarno, tagliente, raffinato, dalle improvvise e implosive velature carsiche e/o adiacenti a senso e significato, a partire dal titolo Bambine Meridiane.
Per spazi, echi e visioni, nella trasmissione scrittoria, per consapevolezze e savie eredità ancestrali della sua e di tutte le altre territorialità che ha praticato, la poeta nuorese si afferma, ancora nella selettiva collana di Bettarini/Maleti, Gazebo, come elemento di spicco e di patente cruore nella grande poesia che non cerca glorie frastornanti e che si regge sull’aderenza io/parola/anima mundi.
La koinè innesca la simbiosi fra tessitura lirica, sintesi gnòmica e valore antropologico radicalizzato: “sa limba nostra est prena e bódia che unu menhir chin/s’umbra sua, che-i s’abissu fundu de sos nuraches/ si moghet in tundu che-i su ballu: ballu ʼe ànimas/ faveddat sonat sa limba e contat”“la nostra lingua è piena e vuota come un menhir con/la sua ombra, è il fondo abissale dei nuraghi/si muove in tondo come il ballo: ballo d’anime /parla risuona la lingua e racconta”
A tutti segnaliamo il libretto dall’economia binaria, tra vocalismi trascinanti e rullii esortativi, dal linguaggio ora chiaro ora gergale, ora martellante, ora escoriato ora liquido: “scava scava che ritorna/la notte/non doma non dorme/torna di niente sapiente/(mente?)// stringiamo ciò che intorno/ a noi rumina e morde/lasciamo che l’intrico/ci attraversi scarpe arterie/è relitto di squame/il nostro corpo animale/dissolta anatomia//non conosco oscillazione di parole/sfarfallio ontico/silenzio che allude al suono-segnale/(scala che fugge?)//datemi la luce della pietra/ ridatemi la cera/una mano da invasare/un ombelico/fruscii e templi d’acqua/incustoditi//mari sabbia/carovane e vie d’acqua/ nel nudo corpo/un solo uovo cova sette anime//per te, divinando/accettai di conoscere/il vuoto/la mente che non concede tregua…”

Armando Saveriano


BAMBINE MERIDIANE  MARIA GRAZIA CABRAS  GAZEBO EDIZ. - FIRENZE  2014  PAG.64

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