domenica 8 giugno 2014

LA FORESTA E IL TAPPETO - Simboli del motore incorruttibile della poesia secondo Simone Lucciola

Quando un poeta riesce a trascinarci dentro la prospettiva dietro la sua macchina da presa innestata cronenberghianamente nel corpo della voce e a far di noi i muti e riflessivi compagni di viaggio sopra una macchina del tempo sempre pronta a fare retromarcia o a compiere balzi in avanti, l’opera sua è compiuta.
Di rado avviene tale connessione, specialmente in poesia, e solo quando si ha a che fare con i grandi. Giunti al termine del voyage si prova una scossa emotiva di disappunto, come da un qualcosa che ti viene inopinatamente e con bruschezza sottratto. Una depressurizzazione. La sensazione non perdura molto, quando ti rendi conto che puoi ricominciare a leggere e a rivivere; non è detto che tu debba farlo daccapo, dall’inizio del “Ci vogliono meno di 11 secondi/per dare a 54 quadrilateri/ un denominatore cromatico comune…”. Puoi sistemarti al cruscotto della letteraria invenzione di Wells sintonizzandoti direttamente con “Geyser metalinguistici/per pubblici in pensione:/sit-in, sit com, cinepanettoni stantii…” per un assaggio quasi cibernetico del linguaggio, dove a oliare è un’ironia quel giusto acidula. Ti verrà appetito, e l’autore è lì, sollecito, a ordinare a un Jeeves pontino caracollante ma con l’uniforme da maggiordomo/nostromo ben rammendata, di servirti in un vassoio d’argento brunito, rubato durante un abbordaggio pirata qualche secolo fa :“A una prima scelta il taglio migliore è il filetto:/seguono a ruota roast-beef, noce, scamone/fesa, cosciotto, arrosto e magatello./Ma anche coppa, punta, reale o biancostato/carni di seconda e terza scelta, col pomodoro o le patate, aperitivo il digiuno,/vanno al depistaggio di palati esperti.// L’uopo richiede, in differenti appetibili,/che l’uomo non bello non ricco e non chiaro/-coda, testina, ossobuco o garretto-/passi la vita a cercare salse e contorni.” Delizioso. E arguto. Di seguito, quasi Simone Lucciola fosse un lettore del nostro pensiero, o simplement in contatto subliminal-medianico con lo spirito di Arthur Rimbaud, di Kavafis o della Woolf, ci anticipa nel desiderio del ritorno insopprimibile e struggente alle stanze virtuali ove sperimentammo e condividemmo, da ospiti, momenti che pur restando in sovrimpressione, non bastano a soddisfare, o almeno ad acchetare, il desiderio lecito e impossibile di attraversare una soglia del teletrasporto per rivisitare i luoghi, gli oggetti, i feticci, contentandoci persino di nuzzoli, mucillagini, di tracce, di briciole, di schegge, di triangoli d’ombra e silfidi istantanee di luce: “Non pensavo di dover tornare/nella camera degli ospiti/aprire ogni cassetto e ritrovarci/frammenti dell’ultimo week-end/per rimpiangere le mura assenti./Raccoglievamo minerali e conchiglie/in un fazzoletto di mare/contando quei pochi segnali sulla formica scura”.
Tra il serio e il faceto il poeta azzarda un passo oltre: afferrare il nonno per un lembo del nome e riaverlo con sé per un importante consulto: l’uso carosellesco della mitica brillantina Linetti, onde rimediare, se si può, all’errore di non averla mai usata.
“Vorrei tornasse indietro mio nonno dagli anni trenta/per chiedergli come si usa la brillantina Linetti./ Mi resta solo l’odore di lavanda sui capelli radi/ e fatico a ripensarmi come un vero gentleman.”
L’intermezzo guascone è presto rimpiazzato da meditazioni funamboliche o da trafitture intuitive che lasciano graffiature, o il pungere stellare che precede una coronarografia. È il caso di: “Eppure c’è respiro anche ad occhi chiusi,/acqua sull’atrocità della controra./Una grotta che batte la palpebra/divinando un fitto bosco al consultante,/che prostrato d’iter impervio/e claudicante regalità/come d’accecato Edipo/s’aggira tra gli asfodeli”.
Un testo complesso da analizzare, come molti altri che rafforzano la raccolta Bianco di Titanio; in chiave psichico-artistica ci raffigura incarnazioni inquietanti da Munch al raschiante tratto di Druillet, applicati alla metafora del teatro greco classico, alle incognite di una divinazione che si teme di capire, prima che le autodifese dendritiche la rendano incomprensibile; allora il vagabondaggio traveste l’esilio, fatale più che ricercato in qualità di tragica espiazione in un non luogo che assomiglia sempre più al labirinto della zona oscura ove “sostano”  senza sosta  peripatetiche anime in pena, confortate o ammonite (a seconda dei punti di vista) dalla visione lancinante o narcotizzante dei fiori purgatoriali. Il destino è conficcato, è un fermo di gelo; il loro istinto escapista e probabilmente il nucleo lapillico di rimorsi, illusioni, tensioni al riscatto, spinge i consultanti, i viandanti “edipici”, ad un movimento inane e continuo. L’eccellente metalinguaggio aiuta e devìa in un dosaggio farmaceutico di cui il Lucciola è magistrale maestro di scena, tra il coreografo e l’alchimista; soffermiamoci, più di qualche attimo, sulla genialità di queste espressioni: “acqua sull’atrocità della controra”; “grotta che batte la palpebra”; “d’iter impervio e claudicante regalità”.   
Il possesso del logos domato, anche senza il ricorso alle briglie e alle staffe di una celebre metafora erotica di Garcia Lorca, consente al poeta di virare il caleidoscopio descrittivo/evocativo in maniera tale da sorprendere il lettore/fruitore/compagno di viaggio, agendo sulla sfera del manacordiano pensiero emotivo, che lo attira e favorisce in lui il processo di “riconoscimento” psicosituazionale, di identificazione già obliterata, e contemporaneamente accende l’istinto contrario e obrettizio di negazione e allontanamento.
L’uomo è un re pezzente, padre e figlio delle sue fortune speciose ed effimere, che ha conquistato “la cittadella” soltanto grazie all’equivoco, alle beffe della sorte, alle fate morgane dell’ambizione e dell’opportunismo, e ancora per fato, suo malgrado si trova nel prato sconfinato di dannunziani asfodeli. A nulla è servita l’ablazione degli occhi, a nulla il volontario isolamento: solo il domicilio nella plaga mortifera offre tutta l’inevitabilità dell’assenza di una risposta affidabile e definitiva alle eterne istanze. Lo si evince dalla successione di due testi, alle pag. 44 /45.
Ma andiamo ad un morceau antilirico che ha intrigato Giampiero Neri: “Vi ho visto passeggiare nel giardino/affacciato, o forse sospeso al muro:/discorrevate fianco a fianco come in un Peripato/di argomentazioni forse antiche, a me tacite e ignote./ Ma c’è qualcosa che volete dirmi?”
Un tracciato onirico intrude un’istanza della realtà, che a sua specie s’effonde in una dimensione tipica del sogno: il viale del Liceo aristotelico fa scorrere il passeggio di due o più conversatori, che ipotizzano o dirimono sorti da cui si sente escluso l’io poetante, che non capisce, o che a bella posta viene tenuto fuori da argomentazioni troppo specifiche, incapsulate in un pensiero e in un linguaggio iniziatico, esclusivamente tecnico; una sorta, si potrebbe largamente dedurre, di stigmatizzazione, a danno di un indesiderato, di un proscritto. L’io poetante, affacciato da una struttura o levitante accanto al muro, assiste alla scena e provocatoriamente chiede: c’è qualcosa che volete dirmi?
Neri ci vede l’innocenza di un trepido, legittimo desiderio di richiesta di accettazione, comprensione e condivisione, per superare i recinti di un isolamento che comincia a patire la solitudine. Ma forse è il Peripato a trovarsi in alto, sospeso, mentre il poeta, dal basso del suo confino, eleva la voce, affinché lo sguardo dei seguaci di Eudemo, Teofrasto e Fania si rivolga in giù, in un atto di umiltà, solidarietà, fratellanza. Sia che il poeta domandi di fare l’ingresso e di appartenere a una marginalità a lui artatamente o casualmente preclusa, sia che voglia troncare con la sua intromissione un discorso che lo infastidisce proprio per il suo carattere acroamatico, da sinedrio, sia infine che voglia facilitarsi un contatto nuovo, egli varca un limite oltre cui può attenderlo un ampliamento dell’attenzione, l’impatto inconcludente con forze divergenti, il conglutinamento di qualcosa che contribuisce alla sua formazione, per rimandarlo indietro, all’origine della circolarità di una coscienza che teme lo smarrimento.
La domanda semplice, diretta, indisponente o terribile, è una dichiarazione di poetica o una chiave di volta, rilevata con pertinenza da Neri, per una plausibile interpretazione di tutta la raccolta, e presenta fondamentali corollari in “Perché non sono padre degli eventi/controllore dell’incontrollabile/bastiancontrario del senso orario…”, “Ho guadagnato questo silenzio/lasciate che me lo goda”.  In entrambi vien meno la declinazione sarcastica, c’è anzi un’assertività limpida che basta a se stessa, e costituisce l’inventario di una eredità poetica per principio aperta/offerta a tutti, agli “aventi diritto” e ai dilettanti. La foresta delle allegorie si azzuffa solo apparentemente con la logica confutatoria che esige soluzioni (e/o complicanze) meno mistiche, esoteriche, filosofeggianti; idem per il tappeto degli enigmi che ci dispiega oscillazioni tra archetipi e ostruzioni dubbiose. Lucciola non se la sente di concedere armistizi sui regolamenti espressivi tra lingua e visione/visioni del mondo. Facciamo nostri, se ne siamo capaci, gli anelli di questa catena: “Io voglio sapere perché il sole è uno shuriken/perché per ogni mia domanda la risposta è una pausa/perché i consigli da amico sono gratuiti due volte/se esiste il karma un mantra il giusto la prova del nove/ E voglio sapere perché la stella polare è un orecchino/perché mi tiro sempre la pagliuzza più corta/perché la notte lungo un lungomare senza mare/all- black coi Wayfarer come Crazy Joe.”
Rispunta qui la satira mordace alla costruzione intellettuale  e il ricorso alla fantasmagoria poetica, che mastica urticanze, gioca con l’installazione di un cadenzato refrain, perché il testo prosegue con:“Ce la risolveremo con un controcampo?/La metteremo in asse con un passaporto?/Se mi aprissi il peritoneo e tu lì con il binocolo/ci troveremmo qualcosa?”La peculiarità si restringe e si raggruma nel postulato finale, che tralasciando d’emblée la cantilenica fonìa interpellante della retorica, si stampiglia nel rovesciamento della narratività discorsiva:“E invece mi lasci con una riflessione sul controllo./Finirò blastato a Little Italy”.
Caustica e sorprendente, non di rado da lasciare basiti, questa Poesia, che non si dipana dal precedente “Disulfiram”, effonde altresì una speciale ectoscopìa dell’umano nella frangibilità e nella rigenerazione, nelle reminiscenze esatte e nelle ingannevoli fantasmatizzazioni, nello sbigottimento dopo l’atto meditato e quello gratuito; reclama e dimostra una sua autonomia di ispirazione, di propulsione e maestria formale, oltre che dianoetica e allusiva a tutte quante le intuizioni bivalenti tra vita e letteratura, tra aspirazioni e rinunce, tra il respiro della colloquialità e delle sue strade laterali, con il cemento di un secondo cimento, un coltello fra le scapole di uno sconosciuto a caso, bruciando redenzioni sopite nella caldaia, trapunte pulite su una panca di marmo, carabattole da riporre nelle scatole dei Quality Street, rigagnoli di sopravanzo umano perplessi nella palta della piazza.
Resta impresso il fosfene con la pagina sibillina in cui la sincerità (alla Foucault alle prese con la parrèsia) del poeta nell’etica del discorso si esplica come intenzione di verità; egli confida senza poter accedere al disvelamento dell’indisvelabile: “È vero, lo rimiro un po’ estasiato/quel povero ragazzo mai incontrato/senza nemmeno una lontana infanzia/da proiettare con un videotape./ Mi è amico e mi è fratello, padre e prole,/compagno di avventure già vissute alla giornata,/ oggetto di attenzione che se non dissimulata/baratta il nostro abbraccio per sarcastiche parole.”
In qualche modo mi va di pensare che il poeta alluda al destino (Schicksal): resta da stabilire, il che è tutto dire!, se esso come dalla radice del verbo tedesco ci venga inviato, oppure se irrompa per l’ineffabilità del caso. La contemplazione è indirizzata verso l’avatar che avrebbe potuto essere qui, in questa piega, in questa storia, e di cui si avverte la necessità dell’assenza, ma anche la pregnanza del potere dell’indistinto possibile? Il destino non palesato e non compiuto in questa piega della realtà è probabilmente accaduto in una piega altra, pertanto è fratello, compagno d’avventure, padre e prole per induzione delle ragioni logiche e degli effetti conseguenti, per intuizione mistica (quel movimento estraneo alla ragione che intrude e dà improvviso lampo di troppo rarefatta percezione.).
L’intuizione dell’anànke greco comprende il passato e il futuro (padre, prole) e comprime fino all’annientamento il concetto tradizionale di tempo, che diventa semmai coincidenza assoluta. Ecco perché il contatto o l’ipotesi di contatto (il nostro abbraccio) potrebbe venir scambiato/a come parrèsia negativa, che ha solo creduto di poter sfiorare la verità, di fatto inconoscibile.

                                                                                                                 Armando Saveriano    



Nessuno camminerà più sulla schiena del guerriero
Perché conosco a una a una le mie cicatrici e so per certo
Che si combatte con il braccio e non con le buone intenzioni.
Amici o nemici, vi passerò a fil di spada.

*

Aveva le tasche piene di canzoni
Poco o nulla orecchiabili
E non c’era sempre bisogno d’entertainment.
Finirà come i tanti sbandati
Che cercano casa in un quartiere
Tra le strette di mano dei ragazzini sdentati
Che non si incontreranno più.

*

I palazzi medicei che si schiantano sulla passeggiata
Aprendo al Lungarno che sprofonda nella notte eburnea
Di mille teste sul ponte come lampadine nell’acqua.
Soldati di bronzo proiettano fiere in agguato
Svanendo nei vetri con noi
Che non sappiamo se abbracciarci:
e tu non sai che la campagna toscana di notte ha i tuoi colori,
che come te riecheggia pensosa in silenzio.



        Simone Lucciola  Bianco di Titanio  deComporre Ed. Gaeta – 2014 –  pag.80Euro 10.00   

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