Nata
con l’uomo nell’uomo,
così ineffabile, inspiegabile, nonostante codici e regole, vuole
comunicare perché s’iscrive a pieno titolo nella tensione a
condividere, eppure si riserva una dimensione privata che chiede di
esistere solo per sé, in un adyton
diverso da ispirato
ad
ispirato.
Come
si manifesti e quando e perché ha sollecitato l’indagine
approfondita e arguta di innumerevoli maîtres à penser nello
scorrer del tempo, dai precordi ad oggi. Su quali siano le sue
funzioni si è discusso e si discute, traendone conclusioni ingenue o
complesse, razionali e obiettive, popolari o elitarie, romantiche e
confortanti.
Dove
vada costituisce la domanda impossibile e inavveduta, forse candida,
che si pongono gli addetti ai lavori o gli orecchianti tanto nei
convegni qualificati quanto in aggregamenti più leggeri e mondani.
La
poesia va dove la suscitano gli errori, le grandezze, le conquiste
umane, il bisogno di libertà, l’urgenza dell’imprendibile
verità, i geli della paura e i fragori della gioia: permea le
epoche, i luoghi, valica i confini, aggira gli ostacoli, si fa beffe
di allettamenti e divieti, conosce fasti e prigioni, mai l’ergastolo
di pensiero e di emozioni. Perirà quando estinto sarà l’ultimo
uomo.
La
poesia del sud e quella irpina in particolare hanno subìto la
“damnatio memoriae” (lo ha denunciato per primo Paolo Saggese) da
parte della letteratura ufficiale, legata a lobbies nordiste
esclusive e discreditanti, con l’eccezione di pochi nomi eccellenti
che sarebbe stato delittuoso ignorare o sottacere, ma con larghe
alopecie penalizzatrici di penne geniali, di talenti straordinari,
sepolti nelle foibe della discriminazione, dell’artato silenzio che
inietta cemento nell’acciaio di suggelli parzialisti, separatisti,
razzistici.
Ma
quando la rimozione, il revisionismo, la scotomizzazione partono
dall’interno, nascono nello stesso sud, sbucano come malerba
strozzante e nullificatrice dalla stessa Irpinia, allora il sintomo
di guasto intellettuale induce a sospettare la malafede, l’intento
folle e solipsistico di riscrivere sfacciatamente la storia,
falsandola, a danno delle generazioni attuali e prossime.
Paolo
Saggese può non piacere, può a detta di taluni irritare con il suo
infaticabile, pignolo censimento di ogni
realtà
agente sul territorio al servizio e a tutela della diffusione
poetica, può pertanto accozzare grano e loglio, erba lussureggiante
e gramigna (il che è opinabile), ma è innegabile che il suo lavoro
alacre e puntiglioso ha riscattato dall’oblio autori, ricercatori,
operatori culturali, dando luce, giustizia e spesso lustro alla
dimensione in ombra in cui languiva una massiccia produzione
creativa, comunque degna di rispetto prima ed al di là delle
classifiche qualitative.
Nessuno,
prima di Saggese, si è mai sognato di assumersi un impegno tanto
poderoso, tanto capillare, visitando scantinati e soffitte,
perlustrando scaffali e cassetti della memoria soporizzata e sospesa;
e se oggi gode della fama di massimo indagatore e critico delle
poetiche, ha guadagnato tale titolo sul fronte dell’ideale, del
sacrificio, della virtuosa organizzazione mai a scapito dei doveri
pragmatici e delle responsabilità nella professione e nella
famiglia. Suo è il puzzle tuttora in via di completamento della gran
mappa della Poesia Irpina. Fermo e obiettivo, attento e sensibile di
quella sensibilità intellettuale che altrove prosaicamente verrebbe
definita fiuto,
il professore serafico, gentile, riservato e generoso, schivo e
all’occorrenza compagnone, si è mantenuto integro, intonso,
concentrato sul compito che ha assunto connotazione etica di
missione, e prosegue il percorso, evitando o tamponando incidenti,
ignorando le fatali invidie e i digrigni di chi non potendo, non
sapendo, non volendo fare,
si aspetterebbe, fortemente vorrebbe
altrettanta abulia, inettitudine e immobilismo nel prossimo suo.
Ampliando
ottiche e orizzonte, non si possono negare decenni d’engagement
puro o rivendicato come tale, da parte di pionieri e padri fondatori
(Pasquale Martiniello docet, ma anche l’ingiuriosamente dimenticato
Armando Vegliante), dal canto di nobili improvvisatori e turrite
associazioni. E se talora non si nega un certo interesse
particolaristico palese o subacqueo, qualche esercizio di egoità
arruffona, un salottierismo ammiccante alle mode e alle influenze del
momento, fatto sta che tutto, nel bene e nel male, nella limpidezza e
nella penombra, ha contribuito agli spostamenti progressivi ed
emancipanti di un fermento culturale turgido ed asfaltante per le
sicurezze e la dignità del futuro. Poeti, scrittori, insegnanti,
dirigenti scolastici, editori, critici, appassionati, sodali o
semplici curiosi hanno affiancato e nutrito il lungo, orgoglioso e
turbolento fiume intellettuale, l’ancestrale serpente guizzante,
nei cui affluenti, tra le cui fertili spire, pagaiano in canoe,
pilotano piroscafi, nuotano in vigorose bracciate, vantano zattere
avventurose e robuste i vari Domenico Cipriano, Giuseppe Iuliano,
Silvio Sallicandro, Claudia Iandolo, Giovanna Iorio, Raffaele
Barbieri, Rosa Di Zeo, Emilia Bersabea Cirillo, Antonietta Gnerre,
Monia Gaita, Ciro Alvino, Franco Arminio, Tullio e Alfonso Attilio
Faia, Agostina Spagnuolo, Alessandro Di Napoli, Franca Molinaro,
Raffaele Della Fera, Mario Matarazzo, e i giovani Raffaele Schettino,
Ettore Pastena, Costantino Pacilio, Gerardo Iandoli, Giovanni
Nazzaro… E l’elenco a questo punto va stoppato, senza che i
numerosi non citati se ne abbiano a male.
E
se la poesia va dove la si accoglie, i suoi fruitori, i suoi attori,
comprimari e comparse, danno e diano il meglio di quel che possono,
senza temere d’incespicare, dubitando molto, ma onorando la fede
nel daimon
primigenio:
l’ispirazione per l’eternità.
ARMANDO
SAVERIANO per LOGOPEA (e non solo)
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