lunedì 10 marzo 2014

LA POESIA E I SUOI DESTINI - Un grappolo di considerazioni


Nata con l’uomo nell’uomo, così ineffabile, inspiegabile, nonostante codici e regole, vuole comunicare perché s’iscrive a pieno titolo nella tensione a condividere, eppure si riserva una dimensione privata che chiede di esistere solo per sé, in un adyton diverso da ispirato ad ispirato.
Come si manifesti e quando e perché ha sollecitato l’indagine approfondita e arguta di innumerevoli maîtres à penser nello scorrer del tempo, dai precordi ad oggi. Su quali siano le sue funzioni si è discusso e si discute, traendone conclusioni ingenue o complesse, razionali e obiettive, popolari o elitarie, romantiche e confortanti.
Dove vada costituisce la domanda impossibile e inavveduta, forse candida, che si pongono gli addetti ai lavori o gli orecchianti tanto nei convegni qualificati quanto in aggregamenti più leggeri e mondani.
La poesia va dove la suscitano gli errori, le grandezze, le conquiste umane, il bisogno di libertà, l’urgenza dell’imprendibile verità, i geli della paura e i fragori della gioia: permea le epoche, i luoghi, valica i confini, aggira gli ostacoli, si fa beffe di allettamenti e divieti, conosce fasti e prigioni, mai l’ergastolo di pensiero e di emozioni. Perirà quando estinto sarà l’ultimo uomo.
La poesia del sud e quella irpina in particolare hanno subìto la “damnatio memoriae” (lo ha denunciato per primo Paolo Saggese) da parte della letteratura ufficiale, legata a lobbies nordiste esclusive e discreditanti, con l’eccezione di pochi nomi eccellenti che sarebbe stato delittuoso ignorare o sottacere, ma con larghe alopecie penalizzatrici di penne geniali, di talenti straordinari, sepolti nelle foibe della discriminazione, dell’artato silenzio che inietta cemento nell’acciaio di suggelli parzialisti, separatisti, razzistici.
Ma quando la rimozione, il revisionismo, la scotomizzazione partono dall’interno, nascono nello stesso sud, sbucano come malerba strozzante e nullificatrice dalla stessa Irpinia, allora il sintomo di guasto intellettuale induce a sospettare la malafede, l’intento folle e solipsistico di riscrivere sfacciatamente la storia, falsandola, a danno delle generazioni attuali e prossime.
Paolo Saggese può non piacere, può a detta di taluni irritare con il suo infaticabile, pignolo censimento di ogni realtà agente sul territorio al servizio e a tutela della diffusione poetica, può pertanto accozzare grano e loglio, erba lussureggiante e gramigna (il che è opinabile), ma è innegabile che il suo lavoro alacre e puntiglioso ha riscattato dall’oblio autori, ricercatori, operatori culturali, dando luce, giustizia e spesso lustro alla dimensione in ombra in cui languiva una massiccia produzione creativa, comunque degna di rispetto prima ed al di là delle classifiche qualitative.
Nessuno, prima di Saggese, si è mai sognato di assumersi un impegno tanto poderoso, tanto capillare, visitando scantinati e soffitte, perlustrando scaffali e cassetti della memoria soporizzata e sospesa; e se oggi gode della fama di massimo indagatore e critico delle poetiche, ha guadagnato tale titolo sul fronte dell’ideale, del sacrificio, della virtuosa organizzazione mai a scapito dei doveri pragmatici e delle responsabilità nella professione e nella famiglia. Suo è il puzzle tuttora in via di completamento della gran mappa della Poesia Irpina. Fermo e obiettivo, attento e sensibile di quella sensibilità intellettuale che altrove prosaicamente verrebbe definita fiuto, il professore serafico, gentile, riservato e generoso, schivo e all’occorrenza compagnone, si è mantenuto integro, intonso, concentrato sul compito che ha assunto connotazione etica di missione, e prosegue il percorso, evitando o tamponando incidenti, ignorando le fatali invidie e i digrigni di chi non potendo, non sapendo, non volendo fare, si aspetterebbe, fortemente vorrebbe altrettanta abulia, inettitudine e immobilismo nel prossimo suo.
Ampliando ottiche e orizzonte, non si possono negare decenni d’engagement puro o rivendicato come tale, da parte di pionieri e padri fondatori (Pasquale Martiniello docet, ma anche l’ingiuriosamente dimenticato Armando Vegliante), dal canto di nobili improvvisatori e turrite associazioni. E se talora non si nega un certo interesse particolaristico palese o subacqueo, qualche esercizio di egoità arruffona, un salottierismo ammiccante alle mode e alle influenze del momento, fatto sta che tutto, nel bene e nel male, nella limpidezza e nella penombra, ha contribuito agli spostamenti progressivi ed emancipanti di un fermento culturale turgido ed asfaltante per le sicurezze e la dignità del futuro. Poeti, scrittori, insegnanti, dirigenti scolastici, editori, critici, appassionati, sodali o semplici curiosi hanno affiancato e nutrito il lungo, orgoglioso e turbolento fiume intellettuale, l’ancestrale serpente guizzante, nei cui affluenti, tra le cui fertili spire, pagaiano in canoe, pilotano piroscafi, nuotano in vigorose bracciate, vantano zattere avventurose e robuste i vari Domenico Cipriano, Giuseppe Iuliano, Silvio Sallicandro, Claudia Iandolo, Giovanna Iorio, Raffaele Barbieri, Rosa Di Zeo, Emilia Bersabea Cirillo, Antonietta Gnerre, Monia Gaita, Ciro Alvino, Franco Arminio, Tullio e Alfonso Attilio Faia, Agostina Spagnuolo, Alessandro Di Napoli, Franca Molinaro, Raffaele Della Fera, Mario Matarazzo, e i giovani Raffaele Schettino, Ettore Pastena, Costantino Pacilio, Gerardo Iandoli, Giovanni Nazzaro… E l’elenco a questo punto va stoppato, senza che i numerosi non citati se ne abbiano a male.
E se la poesia va dove la si accoglie, i suoi fruitori, i suoi attori, comprimari e comparse, danno e diano il meglio di quel che possono, senza temere d’incespicare, dubitando molto, ma onorando la fede nel daimon primigenio: l’ispirazione per l’eternità.


ARMANDO SAVERIANO per LOGOPEA (e non solo)

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