venerdì 7 febbraio 2014

                                                         AL PERGAMON MUSEUM

Quanta sofferenza e rabbia entrando.
Una tale ed antica magnificenza rubata ai figli per abbellire le sale di questi barbari. Ottimi padri, cosa avete voi a che fare con questi germani? Il sole del Mediterraneo che vi ha visto sorgere è qui straniero.
Oh ottimi padri, antichi, amatissimi da noi che siamo i vostri figli mediterranei, che insegnaste ai latini la civiltà, ma non riusciste a infondere loro il concetto di democrazia, vi vedo qui sofferenti più di quanto il tempo stesso vi abbia fatto soffrire levigando i vostri volti. Seppur divini, il tempo, quello sì più potente della vostra divinità, vi ha smostrato, e io soffro nel vedervi sofferenti per il luogo e per il tempo.
Ma pure mi infondete commozione nelle vostre immagini così drammatiche, già di per sé sofferenti, ma rese ancora di più afflitte dalle ferite che il tempo vi ha inferto.
E allora piango, a vedere i bei ricci di Oceano tirati da una mano sconosciuta nella concitata battaglia, a vedere i trionfi di Telefo nella sua eroicomachìa, a vedere la tragicità dietro una scudo divelto e un oplita soccombente a terra, travolto dalla furia della cavalleria; a mirare la grazia delle tessere giustapposte nei mosaici in cima all’ara che rivelano la bellezza di pappagallini e passerotti, a mirare una colomba pacificatrice purtroppo anche essa mutilata dal tempo che, crudele, sembra quasi voler sfregiare il concetto di cui essa si fa vessillifera.
Siete lontani, padri miei, dai vostri luoghi, dai vostri figli. Ma in questo luogo barbarico, dove né “sì” né “oui” suona, chi è che vi ode?
Accarezzo un capitello, ma è come se stessi accarezzando il volto di un giovane greco: lo sento vicino, e lo consolo. Ed è grande il brivido nel carezzare una figura di bimbo alato proveniente dal foro Traiano. Che bellezza quando ci si sente riempiti dall’arte!

Che blu intenso e maestoso quelle delle porte di Babilonia! Chi ha fatto queste mura voleva non intimorire il nemico con la loro possenza, ma impressionarlo per la loro magnificenza: le semplici decorazioni a fiori e gli animali incutono, insieme al blu sereno, una sensazione di prosperità e fecondità gioiosa, un rigoglio che rimane solenne nella struttura delle mura. Tanta è la solennità e la bellezza che da dentro mi viene spontaneamente di fare un anacronistico segno della croce in segno di rispetto: tanta era la bellezza che mi pareva si fosse rivelato a me un qualcosa di sacro.
Ma se provassi a descrivere con la voce, e non con la scrittura, quel che vedo; se la lingua volesse esprimere quanto della bellezza che colpisce gli occhi miei le mani riescono a tradurre in scrittura, il mio parlare andrebbe zoppo perché il cuore renderebbe incerto il fiato. La parola tremerebbe nel pensare a quanti uomini, lontani nel tempo e nello spazio, hanno visto e toccato quello che adesso i miei occhi e le mie mani così giovani e terribilmente moderne mirano e sfiorano. Quante vite, nobili e umili, felici ed infelici, si sono svolte in queste mura!
Sotto la stele babilonese del dio tempo atmosferico, mi chiedo: di queste vittorie che questi bassorilievi celebrano, cosa è rimasto? Delle gioie e del sangue versato per la vittoria di questi uomini non rimangono che questi freddi muri modellati da un anonimo scalpello.

Che brivido nell’uscire dalle porte del mercato di Mileto, ingiustissimamente depredate con ricatto ai loro figli, i moderni turchi, anche se di stirpe più greca che araba.
Troppo è stato il timore reverenziale per toccare i bassorilievi del frontone proveniente da Atene. Ma infine che gioia trovare il ritratto (sebbene fosse copia ottocentesca) di colui che più di ogni altro mi è padre per interesse e studi, a me come a tanti nobilissimi prima di me: Omero.
Quanto vorrei abbracciarvi e baciarvi, ottimi padri che vi vedo qui scolpiti!
In quanti vi siamo umili figli. Eppure abbiamo dimenticato il vostro esempio, che si è perso, anche lui, nel tempo, come i vostri volti, le vostre braccia, le vostre gambe, i vostri nasi, le vostre mani…
Vorrei restare qui, adagiato sulle scale che vi sono devote (perché portano all’ara) come devoto vi sarei stato io. E nell’animo si accende già una festa sacra, e nella gioia di questi imprevisti Saturnalia mi scopro felice nel meditarvi, ottimi padri, seduto qui sul gradino e appoggiato al modo del bel e più celebre Pensatore, e nello scrivere di voi, seppur ultimo nel tempo e nella poesia. Ma il tempo, e questo voi, mio malgrado, già lo sapete meglio di ogni cosa, corre via e con esso porta me. Sicché mi costringe, come lui, ad andare via rapido.
Ma tenete a mente, ottimi padri, che il tempo seppur tirannicamente mi porta via nella persona, non potrà mai allontanarmi da voi nella mente. La mia memoria invitta vi serberà degno, nobile e commosso ricordo, come è giusto e santo debba essere.
L’oblio con me rimarrà vinto, perché mi sento vostro figlio e ai vostri figli immemori, per loro, o meno, malgrado, voglio far della vostra nobiltà e grazia, seppur ferita, da testimone.   

Angelo Iermano

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