Quando complessità e leggerezza si incrociano
di Claudia Iandolo
Pochi autori hanno insieme il
dono della complessità e quello della leggerezza. Pochi, come Søndergaard,
riescono a scrivere di una realtà che si moltiplica, si dilata, cambia e ci
cambia. Eppure in quella realtà siamo condotti per mano dall’autore con
eleganza e disinvoltura.
Che il mondo sia Caos appare
vero fin dalla prima delle tre raccolte che costituiscono il libro: A Vinci,
dopo. Titolo emblematico che ci riporta immediatamente ad una delle
caratteristiche della poetica e dunque della visione del mondo di Morten: il
movimento. Con una specie di cortocircuito temporale il poeta avverte che tutto
ciò che è accaduto a Vinci ha un prima e appunto un dopo, registra cioè una
distanza probabilmente annullata dal processo creativo. Del resto l’autore
stesso dichiara nell’introduzione come i due atti del camminare e del poetare
siano interconnessi, ( Il giorno che
imparai a camminare/ mi insegnarono contemporaneamente a parlare) Camminare
fornisce il ritmo di cui ogni poesia si nutre. Vinci è il paese toscano, patria
di Leonardo, in cui Søndergaard è vissuto quattro anni. L’esperimento, che
sarebbe dovuto durare solo sei mesi, era di provare cosa avrebbe provocato
sulla sua lingua l’immersione totale in un’altra lingua (ma sarebbe meglio dire
una lingua altra). Søndergaard si
cimenta con uno dei topoi più diffusi della letteratura mondiale: il paesaggio.
Esiste, fin dai tempi di Petrarca un paesaggio soggettivo ed uno oggettivo, esiste
cioè la percezione del paesaggio, in buona sostanza la sua creazione. Una
creazione/percezione relativa inoltre all’idea di mondo che abbiamo e che la
cultura e i tempi in cui viviamo hanno contribuito a creare. Søndergaard stravolge
totalmente tale prospettiva. Non solo i suoi paesaggi sfuggono e fuggono ad una
definizione certa, ma sono loro a percepire noi (Siamo stati svegliati in piena notte/da un nubifragio. Il paesaggio ci ha letti/ come un libro aperto.)
La parola stessa perde di significato. Il paesaggio come blocco, come un tutto
finito e definito non esiste più e non solo perché metamorfico ma soprattutto
perché intelligente, in senso letterale. Può essere ciò che vogliamo, ciò che
ci aspettiamo (verrebbe da dire che si comporta come un fotone nel famoso
esperimento della doppia fenditura che dimostra la dualità onda/particella
della materia), il paesaggio, addirittura si mette in posa. Søndergaard gioca
col più celebre dei ritratti, la
Gioconda di Leonardo, in cui forse il paesaggio sta in posa
come se fosse lui il protagonista e non Monna Lisa. Il paesaggio parla,
attraverso le creature che lo compongono (Oggi
è venuto da me un olivo parlante e
ha detto:/ “la vita è un passaggio dal
nulla/ al nulla”./ Quanto si annida fra le righe del paesaggio/non si lascia
leggere.) E non
esistono solo i paesaggi umani (Le formiche trasportano/ paesaggi di origine molto varia/ dall’una
all’altra... /Dimostra la massima cautela quando tratti/ con i paesaggi. I
continenti migrano. Noi facciamo l’amore/
come bambini curiosi e i meli/ hanno perduto i fiori.) I paesaggi degli
altri sono altrettanti veri ed altrettanto imprendibili, altrettanto
indefinibili attraverso gli strumenti umani, parole comprese ( Non si può dire “gira a sinistra al grande
albero”, / perché la frase non arriva fin laggiù./... Nel paesaggio le porte
sono destinate agli dei.) Dove poi esse conducano è mistero. Agli uomini
non resta che il tentativo di misurare il mondo, l’antico tentativo di
intercettare qualche possibilità (provvisoria, s’intende) di senso attraverso
le rispondenze nascoste e intelligenti celate nella materia. La poesia stessa,
fondata come dicevamo sul ritmo, è esercizio di misurazione (Ogni poesia illumina il suo tratto di mondo
con la sua torcia./ È un modo di precisarlo.) Ma precisare equivale, come
l’etimologia suggerisce, a tagliare, scontornare fino a rendere esatto,
eliminando il superfluo. Un’operazione che può restituire una parte di mondo,
così come la immaginiamo, ma non il mondo nella sua essenza. Per questo non
resta che arrendersi alla metamorfosi, partecipare al gioco dei cambiamenti e
delle trasformazioni “mettere foglie e nuovi germogli” come Søndergaard scrive.
Abolire la distanza, ogni distanza tra soggetto e oggetto. Essere paesaggio e
non più guardarlo, perché se lo si guarda abbastanza sarà il paesaggio a
catturarci. (I luoghi ci invadono, e noi
inermi ci lasciamo portare/ in nessun posto./Potremmo anche stabilirci qui: noi)
Metamorfosi e movimento:
tutto nelle poesie di Søndergaard è in costante movimento. L’autore stesso
cammina, viaggia nel tentativo di capire. Ogni movimento umano è però
vanificato da quello più veloce e insondabile della realtà che ci circonda,
fatta a sua volta di una moltiplicazione di mondi destinati ad ignorarsi. Il gatto
cieco/ va a caccia nel giardino segreto./ Spaventapasseri, colli, alberi, campi
di girasoli/ si fanno sotto e studiano i nostri volti/ Ma il paesaggio è fuori
da ogni senso./ Pensa per sé. D’altro canto: / noi siamo alberi con le gambe./)
In un mondo così complesso e a dispetto di tutte le precisazioni possibili, è
facile perdere l’orientamento non solo spaziale. Tra qui e lì c’è un solo
punto, ma è il punto di ogni istante ed è perciò inafferrabile.
Søndergaard sa bene che ogni
decifrazione/creazione della realtà passa attraverso la lingua. Un mondo può essere camminato tutto, può
addirittura essere pensato, ma è l’atto del dire che crea la realtà. Vengono in
mente due verbi greci: μυθοποιέω e μυθολογεύω. Il primo contiene l’idea della
creazione della parola che per se stessa si identifica con la realtà, il
secondo riconduce al concetto di relazione. L’atto stesso del parlare è, come
suggerisce l’etimologia del termine, raccogliere, contare e quindi raccontare.
Dire equivale sempre a stabilire relazioni di senso tra le cose e tra noi e le
cose stesse. Passare dal Caos al Kosmos.
La molteplicità delle lingue
(senza contare i linguaggi, che appartengono anche al regno animale), genera in
ogni scrittore la nostalgia di un mondo pre-babelico, di una lingua universale
con la quale poter dire non solo le cose per come sono, nella loro essenza
primigenia e totalizzante, ma per poterle dire tutte. (deve pur esserci una lingua/ per poter dire le cose come sono / né più
né meno). Dire equivale dunque a
dire sempre più o meno. La lingua, e
perciò la poesia, sono un esercizio che ci consente solo approssimativamente di
avvicinarci alla realtà. Non solo le parole non sono più consequentia rerum, ma
possono depistare, o peggio creare una folle realtà (titolo di un’altra
sezione) in cui niente è come appare. (I
cadaveri marciscono nella pila dei giornali/ la verità sventola sullo
schermo/non sappiamo quasi nulla/e ciò su cui basiamo le nostre conoscenze/si
dimostra essere in realtà una menzogna/nella vera e propria folle/realtà dove
tutto/è fatto di teflon e gomma e cartone), dove forse la salvezza
(momentanea) può essere affidate alle minime parole ( Casa. Sole./ legno. Sorriso. Sedia). E ancora :( Il mondo/ può essere detto/ com’è,/ come portachiavi/ chiodo e subwoofer). Ma per dire il mondo così com’è c’è bisogno di
una lingua nuova, di una lingua che
nessuno parla. Di una lingua capace di annullare la distanza tra Langue e
Parole, per dirla con De Saussure. Non è un caso che la poesia di Søndergaard
insista sulla relazione tra linguaggio e suono. Una relazione antica probabilmente, quanto la nascita della poesia
stessa. In Ritratto con Orfeo ed Euridice,
pubblicato in Italia da Kolibris edizioni, Søndergaard scrive: Avanza nell’ignoto Orfeo,/ Corifeo, si
spinge avanti/ cantando./ Cantando?/ Ė questo che fanno i poeti? Ora scrivono/
Si son fatti così silenziosi. Il mondo moderno ricorda nel mito di Orfeo ed
Euridice un amore infelice che varca (anche se provvisoriamente) i confini
della morte, ma dimentica spesso che il figlio di Eagro fu anche il primo poeta
e musico e che i due aspetti erano in lui indissolubili. La ricerca di una
lingua che nessuno parla è nostalgia, anch’essa mitica, di una lingua vera
oltre che universale. Viene in mente quanto il critico Gianfranco Contini
scrive sul linguaggio di Giovanni Pascoli. Il fonosimbolismo insistito del
poeta italiano crea una lingua agrammaticale o pregrammaticale. Una lingua che
forse riconduce all’infanzia e alle prime sonorità che con esso ci hanno messo
in relazione. La ricerca musicale di Søndergaard restituisce nel ritmo il
respiro autentico della parola, quel retroterra di mistero e di imprendibile
che il suono contiene e trattiene.
Morten Søndergaard - A Vinci, dopo. Gli alberi hanno ragione. Blog - Del Vecchio 2013, pagg. 264, € 14
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