venerdì 19 aprile 2013

SCHERMOMANIA: L’INGORDIGIA DEL CINEFAGO

La nuova rubrica cinematografica di Logopea


1. FANTASMI

Un horror party tutto italiano


(Italia, 2011 – col. 80’) Regia di Tommaso Agnese – Andrea Gagliardi – Roberto Palma – Stefano Prolli – Omar Protani – Marco Farina.  
Con Paolo Perinelli, Anna Maria Teresa Ricci, Claudia Fratarcangeli, Daniele Terranegra, Jonathan Coppola, Santa De Santis, Primo Reggiani, Daniele De Angelis, Maurizio Tesei, Davide Marucci, Carola Clavarino, Chiara Brunamento, Laura Gigante, Guja Quaranta.


  Un confronto fra questo onesto film prodotto da Gabriele Albanesi (con l’appoggio dell’Università di Roma Tor Vergata) e “La Madre”, capolavoro “instant cult” del cineasta spagnolo Andrès –Andy –  Muschietti (sono appena uscito dal multisala del Partenio) sarebbe un’operazione a rischio di (ragguardevole) sbilanciamento; presupporrebbe anzi un germe di slealtà e un atto castigatorio, laddove non ci sono – né debbono esserci – simili intenti. Entrambi hanno il tema comune dello spettro, ma stili, evocazioni, rimandi, risorse, sbocchi e risultati divergono sensibilmente.
  Mi riservo il massimo piacere di recensire, in un successivo capitolo della nuova rubrica che hic et nunc avvìo, il raffinato e compulsivo film prodotto da Guillermo Del Toro.
  Quando si inserisce nei canali della distribuzione un prodotto nominalmente definibile “di genere”, si affronta con netta consapevolezza o con sconcertante indifferenza l’eventualità di un effetto di déjà-vu, di rimasticazione, addirittura (purtroppo nella maggior parte dei casi) di sbandamento in curva sull’asfalto del gradimento reso sdrucciolevole dall’acquazzone delle ovvietà.
  Sono ricorrenti (non solo nel parco degli aficionados di horror, gotico, slasher) fatali delusioni, constatazioni (in crescendo irritate) della latitanza di estro creativo, sostanza, visionarietà, eleganza formale. 
  Lontani i tempi della rivoluzione attuata con la maschera grottesca e sardonica del Krueger di “A Nightmare On Helm Street” (Wes Craven, 1984), con la trovata ficcante dello sfortunato e incompreso “Shocker” (stesso regista, 1989 – lavoro, quest’ultimo, che avrebbe avuto ancor più eccellente contraltare sul fronte mistico-demonico in “Fallen”, di Gregory Hoblit, 1998), con i Cenobiti di “Hellraiser” (Clive Barker, 1987), con le complessità gore e fantasociali di “Videodrome”(David Cronenberg, 1983), ci si può quantomeno consolare con lo strepitoso (e scaltro) “The Cabin In The Woods” (Drew Goddard, 2012), dove a incombere sanguinariamente dietro insospettabili, mostruose quinte, sono i lovecraftiani Grandi Antichi, presi pari pari dai Miti di Chtulhu del “Solitario di Providence”.
  Mito e archetipo del fantasma sono consueto appannaggio della cultura anglosassone e del Sol Levante. Proliferano però nella letteratura, sul piccolo e grande schermo, un po’ in tutto il mondo.

  Icone letterarie e cinematografiche restano “The Turn Of Screw” (Il Giro Di Vite) di Henry James [celebre la riduzione filmica di “Suspense” (“The Innocents”, Jack Clayton, 1961) con una memorabile Deborah Kerr – a cui avrebbero fatto da mediocre contrappunto il poco convincente “Nightcomers” (Michael Winner) del 1972, nonostante la presenza catturante di Marlon Brando, e il barocco, pretenzioso “Presenze” del 1992 (Rusty Lemorande), con un’insopportabile Patsy Kensit nel ruolo tensioso e delicato di miss Giddens, magnificato invece dalla splendida co-protagonista di “Bonjour Tristesse” (Otto Preminger, 1958) e “From Here To Eternity”(Fred Zinnemann, 1953)] e almeno “La Casa Degli Invasati” di Shirley Jackson [a cinema “Haunting” (Robert Wise, 1963) con Julie Harris, attrice del calibro della Kerr; il rifacimento del 1999 di Jan De Bont] e le finissime, pregevoli “Storie di Fantasmi” di Edith Wharton.

  Il fantasma si contende, con alterne fortune, il favore del pubblico, sulla stessa pista del vampiro, dell’onnipresente, strizzatissimo zombie e del licantropo (quest’ultimo a un certo distacco); tramontati o decisamente in naftalina il mostro di Frankenstein e La Mummia. 
  Sono d’accordo fino ad un certo punto con Paolo Zelati sulla dispnea attribuita al cinema italiano in argomento; trovo invece prolifico il genere, spesso punteggiato di opere interessantissime, magari snobbate, mal distribuite, passate inosservate. Colgo a retino e faccio mie le sacrosante, burbere reprimenda con le quali Manlio Gomarasca rampogna i presunti cinefili che a cinema non vanno a vedere i film di genere italiani e stranieri. Bah!
  
  Vorrei evitare di fare significative retrospettive, citando in volata Bava padre di “La Maschera Del Demonio” (1960), “La Ragazza Che Sapeva Troppo”, “I Tre Volti Della Paura”, “La Frusta E Il Corpo”(1963), “Operazione Paura” (1966), “Reazione A Catena/Ecologia Del Delitto” (1971); Riccardo Freda di “I Vampiri” (1956), L’Orribile Segreto Del Dott. Hichcock (1962), “Lo Spettro” (sotto lo pseudonimo di Robert Hampton, 1963);Antonio Margheriti di “La Vergine Di Norimberga” (sotto lo pseudonimo di Anthony Dawson, 1963), “Danza Macabra” (1964), “Nella Stretta Morsa Del Ragno” (remake di quest’ultimo, 1971); Giorgio Ferroni de “Il Mulino Delle Donne Di Pietra” (1960) e di “La Notte Dei Diavoli” (1972); Lucio Fulci di “Sette Note In Nero” (1977), “Zombi 2” (1979), “Paura Nella Città Dei morti Viventi” (1980), “E Tu Vivrai Nel Terrore!L’Aldilà”, “Quella Villa Accanto Al Cimitero” (1981), “Lo Squartatore Di New York” (1982), “Murderock-Uccide A Passo Di Danza”(1983).
  Questo per la tradizione, per il passato.

 In tempi più prossimi a noi, o addirittura in contemporanea, non si contano i prodotti made in Italy o diretti da italiani nel campo dello schermo fantastico, in specie per quanto concerne quel genere denominato in letteratura “new weird”, “dark fantasy” o “slipstream”, sovente miscelato con i temi SF.
  È doveroso, ad esempio, non tacere di Leonardo Araneo con l’atmosferico “Ex Inferis”, Lorenzo Bianchini, apologeta della koinè friulana con i sospensivi, sconcertanti “Lidris Cuadrade Di Trê” (2001) e “Custodes Bestiae” (2004), Federico Greco & Roberto Leggio con il mockumentary lovecraftiano “Il Mistero Di Lovecraft” (2005), Luca Immesi & Giulia Brazzale con lo psicomagico jodorowskyano “Ritual”, Enrico Clerico Nasino con il crudo-crudele “True Love”, la coppia Malgarini/Bisceglia con lo spiazzante “Fairytale” (che si avvale dell’effettistica speciale marchio Direct2Brain), Fulvio Ottaviano con “Mia”, specialmente Federico Zampaglione con l’annunciato “Tulpa”, Lucio Fiorentino con il catastrofico/biblico “Pandemia” (2012), Marco & Antonio Manetti con l’eccellente “L’Arrivo Di Wang” (2011), “Paura 3D” (2012 -ma fa più paura l’inquinante recitazione dei ragazzotti), Alessandro Perrella con il goticheggiante “Sinner” (2009), Daniele Vicari con il cronachistico “Diaz: Don’T Clean Up This Blood” (2012 – ispirato alle truci vicende del G8 2001 a Genova), Edo Tavaglini con il guilty trash “Bloodline 3D” (2011).

  L’elenco è più lungo di quanto non si riesca a immaginare, ed io debbo evitare di (continuare a) lasciarmi prendere la mano; tuttavia non me la sento di non concedere un rigo all’eclettico Michele Soavi (“Deliria”, “La Chiesa”, “La Setta”, “DellaMorte DellAmore”), al valentissimo Stefano Bessoni (ne ho apprezzato assai “Imago Mortis”, e mi piacerebbe che lavorasse alla riduzione dell’eccezionale romanzo del geniale e “scellerato” Claudio Morandini ”Le Larve”), al tenace e guizzante Ivan Zuccon, che con un budget irrisorio ha fatto miracoli, quando ha prodotto, scritto, diretto e montato lo psicolettico lovecraftiano “L’Altrove” (2010). Si auguri il mio giovane pupillo Salvatore Iermano, che disdegna il genere (ha la colpa di aver scientemente “perso” “Cloud Atlas”, “Sinister”, “La Madre”), influenzato da (molto meno dotati) colleghi e colleghe del Conservatorio Teatrale “G.Battista Diotaiuti”, di essere notato e preso in considerazione dal carismatico Gionata Zarantonello, per poter recitare, un domani, al fianco di una divina del calibro di Barbara Steele nell’attesissimo (e non dubito raccapricciante) ”The Butterfly Room”!

  Dopo questa carrellata che mi auguro venga considerata esaustiva, e non estenuante, dai miei ipotetici 4 frequentatori del blog, entro nel vivo del nostro AA.VV. “Fantasmi”.
  Il film ad episodi, l’antologico, tornato di moda sulla scia di “Le Cinque Chiavi Del Terrore”, “La Casa Che Grondava Sangue”, “Kwaidan”, “Tre Passi Nel Delirio”, “I Racconti Del Terrore”, “Vault Of Horror”, “Creepshow 1 e 2” et similia, può essere in effetti stuzzicante, abbia o no un filo conduttore che colleghi e “giustifichi” le storie, o sia al contrario privo della minima concatenazione.
  Sei giovani registi a confronto si approcciano alla ghost story, percorrendo strade che pescano nell’immaginario superstizioso regionale o nella più recente leggenda urbano-tecnologica, diventando in quest’ultimo caso creditori citazionisti di ben altre pregresse pellicole italiane ed estere. Ho il sospetto che il film sia stato distribuito direttamente per il mercato home video, e questo già qualcosa dice. Ho comprato il DVD ed invito hic et nunc tutti a farlo, in primis il talentuoso Giuseppe Arace (autore di un intelligente, lirico corto chapliniano e di un deliziosamente empatico “animato” in stop motion), per sostenere l’iniziativa e questi giovani. Ma quel pizzico di deontologia professionale che mi compiaccio di conservare e tutelare obbliga al distinguo, senza che nessuno se ne abbia a male.
  Inoltre è giovevole mettere un po’ d’ordine nello sgomentante marasma di commenti strampalati, analfabeti, ebeti, dovuti ai devastanti interventi di giovinastri la cui arroganza supera la totale, aberrante incompetenza.
  Fantasmi ha montato due trailer, uno per il mercato italiano, l’altro per quello estero. Guardando il primo, si sbigottisce a pensare all’irresponsabilità di CHI abbia potuto confezionarlo come deterrente alla visione, e perché, tanto è sciatto, vacuo, logoro, festante nello schiaffare in faccia allo spettatore prevedibilità e maldestro, villano artigianato. Non attira, respinge immediatamente. Il secondo è –all’opposto–  ben congegnato nel collazionare enunciati di corposità e di intrigo a flash da brivido. Promette un filmone. E compie la sua finalità di specchietto per agganciare il futuro spettatore.
  Ogni episodio (presentato negli extra dagli autori) dura all’incirca un quarto d’ora e mette in campo soggetti finalizzati ad occupare una nicchia di originalità ed altri che paiono non farsi scrupolo di esplicitare rimandi ormai viziati e clonazioni da colpo di sonno.
  Tutti i registi danno poi l’impressione di volersi distaccare dall’etichetta di filmaker di genere, dimenticando che “Tre Passi Nel Delirio” porta le non esili firme di Fellini, Malle e Vadim, che Jean-Luc Godard ha girato “Alphaville”, M. N. Shyamalan “ The Sixth Sense”, “The Village”, per tacere degli antichi, immortali maestri Browning, Dreyer e Murnau (“Freaks”, “Vampyr”, “Nosferatu”). 
  Sembrano sottolineare –chi più chi meno– che si sono trovati coinvolti nell’impresa per una incidentale e sicuramente non riproponibile sperimentazione. Gettando, come si suol dire, le mani avanti, e palesando un inamovibile pregiudizio.
  Eppure, “Fantasmi” riserva sorprese, incastona in sé due specifiche, notevoli prove autoriali, due gemme, che effettivamente, pur nel rispetto del tema, spiccano voli per più ampie spiagge.
  
 
Roberto Palma (foto a sinistra) si basa su un ottimo soggetto di Simone Starace, La Medium, che sviluppa una vicenda tarata sulle superstizioni e sul folklore tipicamente latino; seleziona con eccezionale acume un cast perfetto, dalla protagonista, una pregnante Anna Maria Teresa Ricci (che il redivivo Eduardo avrebbe fortemente voluto per i suoi indimenticabili personaggi di Filumena e di Amalia in Napoli Milionaria, e che sarebbe stata corteggiata dal rimpianto Pietro Germi) ai comprimari (una asciutta e convincente Claudia Fratarcangeli, un plausibile ragazzo di vita, spocchioso e antipatico, Daniel Terranegra, fino al basito Franco Bertelli e alla apprensiva Anna Maria Pietracatella, nei panni della coppia che consulta l’evocatrice dei morti). Recitazione impeccabile, eleganza stilistica, mestiere e fulminanti intuizioni che evitano il fastidio della crudezza anche nella scena del coito da tergo fra la medium e il marchettaro. Fotografia nitida, tridimensionale, e realismo empatico mai forzato, interazione dei personaggi d’impatto e granatura almodovariani. Le musiche di Federico Di Massimo fanno il resto.
 Il Neo-Maestro Palma opera per sottrazione, per stondamento, alla ricerca di una essenzialità che tuttavia allunga percorsi senza slabbrare i tempi, architetta corridoi di profondità, effonde un singolare senso d’attesa, chiude la vicenda lasciandola in sospeso, ma senza ischemie d’ipoteca o di ipotesi, dopo un abile e rapido frisson di paura che quasi si materializza nel cuore scettico e semianidrizzato della mistificatrice (a cui Palma e Ricci donano un’umanità e un tracciato emotivo atti a subentrare alla scabra determinazione rassegnata, nel circolo vizioso della routine). Allo spettatore rimane un senso d’amaro, che cozza contro la curiosità di vedere ancora, di sapere di più.
 Cionondimeno lo stacco finale è sapiente, soddisfa calligrafia generale, coerenza contenutistica e non compromette i toni del crescendo emozionale. Palma sa il fatto suo, è un giovanotto severo ed esigente, che pretende e dispensa in egual misura: molto padrone nell’intervento esplicativo, professionale nelle sue dichiarazioni, a suo agio anche davanti all’obiettivo. Aspettiamo di convalidarne i meriti quando sarà alle prese con un lungometraggio.
  Anche di genere, Roberto: non disprezzi l’universo weird e i chiaroscuri gotici.

  Fiaba di un mostro, di Stefano Prolli (nella foto), è la seconda perla. Sembra un soggetto di Eraldo Baldini, o dello Stephen King di “Stagioni diverse”, ma nell’alternare lirismo a feroce incomprensione, solitudine a violenza, ostilità vieta a fugace tattilità emotiva, richiama i racconti più mitologici e rurali di Ray Bradbury, Richard Matheson, Dan Simmons (quello, per intenderci, di “L’Estate Della Paura”), evoca la magia imperscrutabile e perturbante di un’infanzia meravigliosa e terribile, dove piccole quotidiane efferatezze scavano solchi di dolore e provocano tragedie. Una parabola tenera e malvagia, che non dispiace accostare, seppur con cautela, a certe suggestioni di “El Laberinto Del Fauno” di Guillermo Del Toro e specialmente a “El Espinazo Del Diablo”. 
 Buona prova dell’esordiente Jonathan Coppola, nel ruolo di Celeste, il bambino autistico o comunque introiettivo, coi begli occhi pesti e malinconici nell’incarnato pallido. E promossa cum laude l’attrice che ne interpreta la madre, Santa De Santis, distratta dall’irrecuperabilità di un matrimonio sull’orlo della voragine, ma profondamente cosciente delle concause interfamiliari  che hanno determinato l’irraggiungibilità di Celeste. La mitezza dolce, la soave malinconia, l’isolamento,  l’improvvisa irruzione della speranza (di una scappatoia e di un accoglimento) e del calore affettivo possono trasformarsi in una dolorosissima furia distruttiva, per cui si uccide, si frantuma, si annulla proprio ciò che si sta imparando ad amare: per poi annientare se stessi, scomparendo nella leggenda da raccontare davanti allo sfrigolante tepore d’un camino acceso.
  Finale prevedibile, ma gradito e accattivante.
  Un vero “cunto” italiano, regionale, robusto, commovente, con l’essenza del male che non ha bisogno di notte e di ombre per manifestarsi: sa agire e colpire alla luce impressionante del sole, tra scorci di paese tranquillizzanti e torpidi.
  Ci vorrebbero i ceffoni per quanti, inetti, sprovveduti, tamarri e imbecilli hanno osato scribacchiare (tra anacoluti e un lessico da ebefrenici/logorroici) che questo magistrale capitolo quasi dickensiano, da “guilty pleasure”, abbassi il tono di un film, che invece ne è sorretto e impreziosito (assieme a quello di Palma). Complimenti, Prolli: lei si rivela un rapsodo dell’immagine, fotogramma per fotogramma.

  L’episodio 17 Novembre, scritto e diretto da Tommaso Agnese, già dalla prima inquadratura ci fa pensare a trama e sviluppo visti un’infinità di volte. L’impostazione (?) “naturalistica” degli attori (i primi a non credere in ciò che blaterano e nei gesti che compiono) si affloscia in una dizione borgatara, scivolosa e ai limiti della sopportazione acustica. La storia non riserva alcun empito di rinnovamento del cliché stra-abusato. Fortunatamente la noia del superfluo viene dissipata dall’ingresso in scena dell’unico attore degno di tal definizione: un sapiente, magmatico Paolo Perinelli, che salva il mediometraggio dal disastro, riscatta soggetto, fotografia, “recitazione” claudicante dei tre ragazzi, e infonde un guizzo di attrait a una vicenda, che si vuole, nelle intenzioni, perversa. Magari in una seconda occasione, ci accorgeremo che Maurizio Tesei, Davide Marucci e Carola Clavarino hanno frequentato una scuola di recitazione. Non me ne vogliano. Prendano questo appunto come stimolo di riflessione e di impegno al miglioramento. I Maestri Diotaiuti dell’omonimo Conservatorio Teatrale romano, e Papalotti, capiranno e credo approveranno ciò che intendo. Cari Maestri, castighino senza remore gli atteggiamenti pateticamente divistici di certi allievi, montati e ingrati, anaffettivi e cialtronescamente impettiti nel monadismo senza finestre del manichino! Costoro hanno creato una pseudocasta semplicemente disgustosa! La rimpianta, severissima, rigorosissima Wanda Capodaglio ha di che rivoltarsi nella tomba. E li avrebbe fatti correre di gran carriera, questi sedicenti Romolo Valli e Annamaria Guarnieri!  

  Andrea Gagliardi, con Offline si tuffa e ci immerge in una ripassata del giapponese “Kairo”, di Kiyoshi Kurosawa, già replicato dall’americano “Pulse” di Jim Sonzero.
  Ma mentre lo spavento in entrambi questi film è autentico, intangibile e sferzante come una scossa elettrica, e si accresce quando la storia prende una piega cupa e apocalittica, in Offline è un tentativo fallimentare: nessun sussulto, nessuno spasmo, ma qualche livido di disillusione anche per lo spettatore meno smaliziato. La nuova minaccia (e il nuovo infìdo allettamento) di demoni e di dei parte, passa e aggrinfia da e per alchimie tecnologiche, tempeste telematiche, lebbre virtuali che invasano e spossessano, fino allo spopolamento del mondo reale. Qui i fantasmi diventano virus e contagio, ma l’occasione di esplorare un hikikomori occidentalizzato e di acquerellare un sostrato esistenziale cortocircuitante cola a picco. Recitazione nell’ordine della diligenza: ci si aspettava qualcosa in più da Primo Reggiani e da Daniele De Angelis. Musiche in linea con il deragliamento generale.

  Omar Protani e Marco Farina, supportati da Gabriele Albanesi (anche co-responsabile di soggetto e sceneggiatura) adorano il blood & gore più glorioso, lo splatter più invadente e appiccicaticcio, il kitsch pop triviale: e non ne fanno mistero, al timone di Urla In Collina, l’episodio più americanofilo, laccato e frastornante dell’intera antologica. Tre ragazze bellocce, spregiudicate e candidamente “cattive” mettono sotto le ruote un incauto pedone notturno. Mal gliene incoglierà. Ma anche allo spettatore, trascinato suo malgrado in un luna park di poltergeist, aggressioni sotto la doccia, fughe finto-disperate per i corridoi della locanda dove le sbarbine alloggiano per la notte, urla fotocopiate e terrore fiacco e stuccato: il tutto sparato a ripetizione, e malgrado ciò catatonico, efficace per una larga produzione di sbadigli nell’ansia che scorrano i liberatori titoli di coda. Girato in parte POV style, con l’escamotage della soggettiva (ormai che palle!) dalla telecamerina a mano o del cellulare (Ah, se pensiamo invece al glorioso “Peeping Tom”, di Michael Powell del 1960!), ambisce al ritmo martellante e tenta il falso finale salvifico per la fanciulla più “scrupolosa”. La fotografia di Raoul Torresi è però splendida, veramente, soprattutto nelle sequenze iniziali.
  Chiara Brunamento, Laura Gigante e Guja Quaranta ce la mettono tutta pur di superare di uno/due gradini lo standard recitativo dei “colleghi” del cast giovane di “17 Novembre”. E naturalmente ci riescono.    

                                                                                                           ARMANDO SAVERIANO

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