mercoledì 10 aprile 2013

Lucianna Argentino - L'ospite indocile

Nota di lettura di Annamaria Ferramosca 



Ho attraversato questa raccolta accogliendo l’invito abbagliante di Anna Maria Farabbi affacciato nel risvolto di copertina, a verificare i suoi preavvertimenti, puntualmente verificati . Ritrovata quella postura incessante di ascolto sottile, percepita quella restituzione di un canto proveniente dal vuoto che circonda. Ma qui il vuoto appare densissimo, perché giunge dalle asole nella stoffa della vita (e pure nella trama cosmica) i cui bordi, cuciti di parole di poesia, sanno trattenere dalla vertigine. Si tratta dunque della capacità di inseguire plasmare rivitalizzare la parola poetica, che in questo libro è chiaramente dispiegata da una delle più ascoltate poetesse italiane contemporanee.
Scorriamo dunque i volti di questo “indocile ospite”, che come mi scrive Lucianna Argentino in dedica, non è che la nostra stessa vita, sorprendente di rivelazioni - ribellioni. E davvero ci sorprendiamo di fronte all’intreccio tra sguardo indagatore del quotidiano e acuto ascolto delle voci sempre sfuggenti (pure di una Voce suprema in cui l’autrice crede) che stanno dietro le cose, di quell’anima mundi da catturare e tradurre. Ma la traduzione che con smania febbrile Argentino insegue è una visione che possa andare oltre il comune senso della nostra terrestre vicenda, qualcosa di più potente che debordi e ci riempia l’anima anche scompaginandola, facendo intravvedere fuochi che pure lasceranno ancora segni offuscati di domande irrisposte. Per questa ragione la poesia di Lucianna Argentino appare, nella sua levità del dettato, una insolita ma convincente scrittura in cui il desiderio di comunicare la propria tensione e insieme la riflessione filosofica si mescolano trovando un raro equilibrio, che potenzia e addensa la qualità poetica dei testi. Così i versi appaiono intessuti di pensieri metapoetici, per l’inseguimento -consapevole e ostinato- di una parola che limpidamente parli. E infatti il termine “parola”(con i suoi vari sinonimi) si ripete lungo la raccolta, come elemento essenziale di quel bordo d’asola che deve proiettare luci di senso su ogni vuoto. Dove il nasturzio all’ombra della parola evoca la continua rinascita nella comunicazione e le parole avvizziscono a causa delle nostre derive, per la nostra incapacità di allontanare la paura. E pure sia il chiuso esposto alla parola perché soltanto attraverso di essa sarà possibile aprire ogni nostra prigione.
Lo spettacolo di fragilità e anche orrore che per sua “indocile” natura la vita mostra, spinge il poeta verso una viva reazione, che Argentino riconosce in quel suo voler mordere la carne di Dio o lasciarmi mordere, sentendo l’essenza dell’eterno pervadere il tutto, dilatando sulla carta. E’ un dio invocato nel silenzio, per acuire la facoltà dell’ascolto, per affinare fino allo spasimo la scrittura facendola indelebile mentre scrivo per sapere cosa è natura/ e cosa è sostanza e come fa a essere buono/ un frutto o un uomo. Perché la poetessa è convinta che la bellezza si fa scrittura/ e non ne muore, visto che un dio c’è, che rende eterni gli umani in virtù di ciò che di lui si cattura e si riesce a trasferire in segni. Semplici sono le intuizioni-suggestioni da comunicare, semplici e limpide, con quel loro sapore di assoluto , come le risposte che i bambini si fanno alle domande cui gli adulti non sanno rispondere. Perfino Dio si fa indocile, se l’autrice immagina che possa essere lui stesso, a volte, a pregarla con insistenza di ascoltare ciò che sta nascosto e con ancora più obbedienza. Un dio che può anche essere messo a tacere quando più si fanno urgenti le esigenze terrene della cura materna e pure quelle, ineludibili, della scrittura che incessante bussa alle sue dita, per togliere spazio al male , per addomesticare la paura.
Emerge una visione vitalissima della funzione del poeta, con la sua tensione sfibrata a percepire i misteriosi fuochi della poesia, farsene incendiare e insieme accogliere il senso effimero dell’esistenza insito in quelle vibrazioni umane di pienezza- gioia, riconoscendone tutta la vanità. E’ quel che viene mirabilmente detto in soli sette versi , con la fulminante chiusa che ci descrive destinati a pestare la vita nel mortaio dei sensi.
La poesia di Lucianna Argentino ha un profilo alto, raggiunto con acuminata sofferenza. E’ un continuo riportare –rapportare la vita alla necessità sacrale della scrittura. La poetessa esprime tutta la propria fatica fàtica (del dire) nominando gli oggetti vivi della sua attenzione, tutte le varie categorie di ultimi, come i braccati nelle selve cittadine, destinatarie di una sorta di vangelo poetico, anch’esso portatore di riscatto. L’interlocutore non è mai un” tu”, piuttosto un “noi” di profondissima partecipazione, o spesso un sé, sempre con il noi coincidente. Una sé stessa, per esempio, evocata nel tempo puro dell’infanzia, bambina che cerca la sua via tra sassolini e terra nelle scarpe, oppure adulta, che avanza l’ipotesi – perturbante ma verosimile come un déja vu- di sentirsi a volte non se stessa, ma un’altra più simile a me di me, che le contende la parola. Il soggetto che riflette evoca indica, anche quando si coniuga umilmente in terza persona singolare, è però riconoscibile: è lei che scrive, che è anche tutte le donne scriventi, che cavalca metafore, costeggia i territori dove la parola ama sostare e nascondersi, si ferma disorientata ad interrogarsi, ritratto inquieto di ogni poeta di fronte all’ineffabile.
L’ipotesi che Argentino sembra azzardare sul senso dell’esistere è nel figurarsi gli umani come creature sacrificali offerte a perpetuare l’infinito ciclo della creazione. Anelli di una catena destinata, che sembra coincidere con l’antica spirale incisa nella roccia nei tempi lontanissimi della grande dea madre, archetipo che a tratti risale dall’inconscio lasciando chiare orme nei versi .
Sono pagine , queste, che a fine lettura lasciano la sensazione di un’efficacia felice della poesia, che accade quando essa si fa densa interrogazione, sguardo umano compassionevole. Nei sei versi di “Non è che l'ombra del silenzio” -soltanto sei, per la densità racchiusa in testi brevissimi che è sua cifra originale - Lucianna Argentino sembra proferire dichiarazione di poetica: la sua scrittura come energia destinata, ricerca nutrita dell’humus della vita, volta a tradurre il suo mistero. L’autrice è consapevole che la propria ricerca non può che svolgersi nelle tre direzioni del silenzio, dell’ascolto puro dell’infanzia, dell’incontro. E’ questa la triade che più approssima alla verità, uno stare nella vita e nella poesia condensato in quel sapientissimo verso: il nostro stare separati e contigui . E al lettore non importa sapere se l’autrice riconduce l’inconoscibile, la voce che mai tace, al divino di cui pure è convinta. Al lettore, chiunque esso sia e ovunque si trovi nel mondo, preme di più conoscere il percorso che dal flusso vitale conduce alla pacificazione, alla tensione armonica che governa il tutto, da raggiungere e custodire perché -vogliamo crederlo – sempre volta a limitare il male, rendendo sinottici dolore e gaudio .
Annamaria Ferramosca



LUCIANNA ARGENTINO - L'OSPITE INDOCILE - PASSIGLI, 2012


Nessun commento:

Posta un commento