Nota
di lettura di Annamaria Ferramosca
Ho
attraversato questa raccolta accogliendo l’invito abbagliante di
Anna Maria Farabbi affacciato nel risvolto di copertina, a
verificare i suoi preavvertimenti, puntualmente verificati .
Ritrovata quella postura incessante di ascolto sottile, percepita
quella restituzione di un canto proveniente dal vuoto che circonda.
Ma qui il vuoto appare densissimo, perché giunge dalle asole
nella stoffa della vita (e pure nella trama cosmica) i cui bordi,
cuciti di parole di poesia, sanno trattenere dalla vertigine. Si
tratta dunque della capacità di inseguire plasmare rivitalizzare la
parola poetica, che in questo libro è chiaramente dispiegata da
una delle più ascoltate poetesse italiane contemporanee.
Scorriamo
dunque i volti di questo “indocile ospite”, che come mi scrive
Lucianna Argentino in dedica, non è che la nostra stessa vita,
sorprendente di rivelazioni - ribellioni. E davvero ci sorprendiamo
di fronte all’intreccio tra sguardo indagatore del quotidiano e
acuto ascolto delle voci sempre sfuggenti (pure di una Voce suprema
in cui l’autrice crede) che stanno dietro le cose, di quell’anima
mundi
da catturare e tradurre. Ma la traduzione che con smania febbrile
Argentino insegue è una visione che possa andare oltre il comune
senso della nostra terrestre vicenda, qualcosa di più potente che
debordi e ci riempia l’anima anche scompaginandola, facendo
intravvedere fuochi che pure lasceranno ancora segni offuscati di
domande irrisposte. Per questa ragione la poesia di Lucianna
Argentino appare, nella sua levità del dettato, una insolita ma
convincente scrittura in cui il desiderio di comunicare la propria
tensione e insieme la riflessione filosofica si mescolano trovando
un raro equilibrio, che potenzia e addensa la qualità poetica dei
testi. Così i versi appaiono intessuti di pensieri metapoetici, per
l’inseguimento -consapevole e ostinato- di una parola che
limpidamente parli. E infatti il termine “parola”(con i suoi
vari sinonimi) si ripete lungo la raccolta, come elemento essenziale
di quel bordo d’asola
che deve proiettare luci di senso su ogni vuoto. Dove il
nasturzio all’ombra della parola
evoca la continua rinascita nella comunicazione e le
parole avvizziscono a
causa delle nostre derive, per la nostra incapacità di allontanare
la paura. E
pure
sia il chiuso esposto alla parola
perché soltanto attraverso di essa sarà possibile aprire ogni
nostra prigione.
Lo
spettacolo di fragilità e anche orrore che per sua “indocile”
natura la vita mostra, spinge il poeta verso una viva reazione, che
Argentino riconosce in quel suo voler mordere
la carne di Dio o lasciarmi mordere,
sentendo l’essenza dell’eterno pervadere il tutto, dilatando
sulla carta. E’ un dio invocato nel silenzio, per acuire la
facoltà dell’ascolto, per affinare fino allo spasimo la scrittura
facendola indelebile
mentre scrivo per sapere cosa è natura/ e cosa è sostanza e come fa
a essere buono/ un frutto o un uomo. Perché
la poetessa è convinta che la
bellezza si fa scrittura/ e non ne muore,
visto che un dio c’è, che rende eterni gli umani in virtù di
ciò che di lui si cattura e si riesce a trasferire in segni.
Semplici sono le intuizioni-suggestioni da comunicare, semplici e
limpide, con quel loro sapore di assoluto , come le risposte che i
bambini si fanno alle domande cui gli adulti non sanno rispondere.
Perfino Dio si fa indocile, se l’autrice immagina che possa essere
lui stesso, a volte, a pregarla con insistenza di ascoltare
ciò che sta nascosto e
con ancora
più obbedienza.
Un dio che può anche essere messo a tacere quando più si fanno
urgenti le esigenze terrene della cura materna e pure quelle,
ineludibili, della scrittura che incessante bussa alle sue dita, per
togliere spazio al male , per addomesticare la paura.
Emerge
una visione vitalissima della funzione del poeta, con la sua tensione
sfibrata a percepire i misteriosi fuochi della poesia, farsene
incendiare e insieme accogliere il senso effimero dell’esistenza
insito in quelle vibrazioni umane di pienezza- gioia, riconoscendone
tutta la vanità. E’ quel che viene mirabilmente detto in soli
sette versi , con la fulminante chiusa che ci descrive destinati a
pestare
la vita nel mortaio dei sensi.
La
poesia di Lucianna Argentino ha un profilo alto, raggiunto con
acuminata sofferenza. E’ un continuo riportare –rapportare la
vita alla necessità sacrale della scrittura. La poetessa esprime
tutta la propria fatica fàtica (del dire) nominando gli oggetti
vivi della sua attenzione, tutte le varie categorie di ultimi, come i
braccati nelle selve cittadine,
destinatarie di una sorta di vangelo poetico, anch’esso portatore
di riscatto. L’interlocutore non è mai un” tu”, piuttosto un
“noi” di profondissima partecipazione, o spesso un sé, sempre
con il noi coincidente. Una sé stessa, per esempio, evocata nel
tempo puro dell’infanzia, bambina che cerca la sua via tra
sassolini e terra nelle scarpe, oppure
adulta, che avanza l’ipotesi – perturbante ma verosimile come un
déja vu- di sentirsi a volte non se stessa, ma un’altra più
simile a me di me, che
le contende la parola. Il soggetto che riflette evoca indica,
anche quando si coniuga umilmente in terza persona singolare, è
però riconoscibile: è lei che scrive, che è anche tutte le donne
scriventi, che cavalca metafore, costeggia i territori dove la parola
ama sostare e nascondersi, si ferma disorientata ad interrogarsi,
ritratto inquieto di ogni poeta di fronte all’ineffabile.
L’ipotesi
che Argentino sembra azzardare sul senso dell’esistere è nel
figurarsi gli umani come creature sacrificali offerte a perpetuare
l’infinito ciclo della creazione. Anelli di una catena destinata,
che sembra coincidere con l’antica spirale incisa nella roccia nei
tempi lontanissimi della grande dea madre, archetipo che a tratti
risale dall’inconscio lasciando chiare orme nei versi .
Sono
pagine , queste, che a fine lettura lasciano la sensazione di
un’efficacia felice della poesia, che accade quando essa si fa
densa interrogazione, sguardo umano compassionevole. Nei sei versi
di “Non
è che l'ombra del silenzio”
-soltanto sei, per la densità racchiusa in testi brevissimi che è
sua cifra originale - Lucianna Argentino sembra proferire
dichiarazione di poetica: la sua scrittura come energia destinata,
ricerca nutrita dell’humus della vita, volta a tradurre il suo
mistero. L’autrice è consapevole che la propria ricerca non può
che svolgersi nelle tre direzioni del silenzio, dell’ascolto puro
dell’infanzia, dell’incontro. E’ questa la triade che più
approssima alla verità, uno stare nella vita e nella poesia
condensato in quel sapientissimo verso: il
nostro stare separati e contigui .
E al lettore non importa sapere se l’autrice riconduce
l’inconoscibile,
la voce che mai tace,
al divino di cui pure è convinta. Al lettore, chiunque esso sia e
ovunque si trovi nel mondo, preme di più conoscere il percorso che
dal flusso vitale conduce alla pacificazione, alla tensione armonica
che governa il tutto, da raggiungere e custodire perché -vogliamo
crederlo – sempre volta a limitare
il male, rendendo sinottici dolore e gaudio .
Annamaria
Ferramosca
LUCIANNA ARGENTINO - L'OSPITE INDOCILE - PASSIGLI, 2012
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