I
mutati tempi, in progressione crescente a causa della competizione
spregiudicata, delle manipolazioni subdole e sleali delle leggi di
mercato, delle distanze fra individuo e individuo anche in seno alla
famiglia, hanno fatto scadere, anzi hanno inibito il contatto con un
ventaglio di sentimenti, di emozioni, di orientamenti istintivi
portati alla solidarietà, alla benevolenza, al rispetto, alla
generosità, alla rinuncia per non ledere altri, per non sottrarre o
precludere ad altri.
Quando
ci sintonizziamo sui canali televisivi, esploriamo internet,
sfogliamo un quotidiano, veniamo sopraffatti da una gragnuola di
barbare crudeltà, di rivelazioni scioccanti, di scandali e
scandaletti, di violenze sbalorditive che
ormai non ci sbalordiscono più:
l’ortodossia conquistata dal Leviatano di
Thomas Hobbes, con il secco slogan “esistenza
uguale guerra di tutti contro tutti” , è
avallata, esercita il trionfo dell’egoismo, recita la declinazione
della brama inveterata di possesso, sancisce lo schiacciamento dei
valori laici e cristiani, esiliandoli nei territori restrittivi,
irriguardosi, calunniatòri e sminuenti della debolezza.
Oggi esercitare la rettitudine significa andare inevitabilmente a
ingrossare le file dei perdenti. Figurarsi adoperare il garbo! È
ridicolo e fa sentire ridicoli; porgersi con gentilezza suscita
diffidenza e vellica le paranoie più morbose e stolte. Dimostrare
uno slancio di altruismo non è certo una virtù cardinale: viene
bensì considerato un calcolo per
certo, un abituale escamotage per
estorcere con l’inganno, con
l’induzione dell’abbassamento della guardia, in vista di un
proprio utile, di un vantaggio concreto, un guadagno tondo tondo
(finalizzato insomma al raggiungimento di una meta della quale si sia
gli esclusivi beneficiari). L’altruismo non è mai riconosciuto per
tale: viene inteso come artifizio che dia i suoi frutti con gli
interessi, a scapito dei precetti basilari di Jean-Jacques Rousseau,
tra l’altro sconfessando quell’indicatore della salute mentale di
cui scriveva David Winnicott nel 1970.
Lo
spirito della coscienza sociale è retorico gonfalone di cui continua
a fare sfoggio la Chiesa, o che appartiene a certa filosofia, alla
ridondanza delle utopie.
Le
conseguenze di tale andazzo sono l’insoddisfazione e la
complementare spinta a raddoppiare le proprie forze, a moltiplicare
le strategie e a pianificare ogni risorsa, pur di accaparrarsi il
proverbiale posto al sole,
pur di godere di maggiore, effimero prestigio.
Non importa
se a sanguinare è la felicità; se l’infelicità è il prezzo
esoso e logorante che tutti sono disposti a pagare, spacciando per
compiuta realizzazione la “cura della roba”, e allineando, sul
banco rancido dei pretesti, passati e recenti capri espiatori.
La
poesia d’azione civile e sociale può caricarsi delle funzioni di
satellite meteorologico per individuare e smascherare ipocrisie e
brutture, ammonendo e istruendo le vittime sociali di mille abusi e
di reiterati tranelli e tradimenti, incoraggiando le ultime
generazioni a inaugurare un percorso graduale di autodirezione,
benché non semplice e fortemente cimentante.
Il problema è trovare
oggi siffatta poesia,
soprattutto nella consapevolezza che essa rischia carenza d’ascolto
e indifferenza, impopolarità e detrazione, artata messa al bando,
rifiuto.
ARMANDO SAVERIANO
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