Il potere è un’oscena
teoria di carri allegorici, che destano una triste ilarità, un
ghigno amaro della coscienza; suo congeniale teatro è il Belpaese,
dove è sempre festa per il banchetto dei suoi altolocati attori.
Il potere cannibale divora
se stesso, innalza e distrugge.
Europa e America sono un
calderone bollente che brucia e vede bruciare capitali con
l’impazzare della più potente crisi economica mai sospettata; la
politica italiana, in particolare, tra liti persistenti e promesse
malferme, il continuo scaricabarile delle responsabilità di ingorghi
e fallimenti, non è stata in grado (e ancora pare non esserlo) di
rigenerarsi, esiliando le giustificate diffidenze create dalle
inespugnabili poltrone dei soliti noti, e fondando un rinnovato
rapporto di fiducia con il cittadino, oggi lontano dalla costruzione
e dalla percorribilità di un’etica civile, che proprio la
politica, in teoria, dovrebbe essere in grado di modellare e
garantire.
Sicché dimorano le
disfunzionalità di sistema, le contraddizioni e gli scontri del
dibattito intellettuale, le posizioni di principio, le gare di forza,
le reticenze, le tendenziose legittimazioni, lo sciacallaggio di
immagini, una inetta mediazione internazionale. Tutto, tra l’altro,
contribuisce a far prosperare il senso di malessere contemporaneo, a
far precipitare la considerazione di sé nel cittadino medio, magari
isolato nello strato sociale più escluso o emarginato, tenendo
presente che il metro valutativo della società è quello del
successo, individuato nell’appartenenza alla classe elevata.
Di conseguenza un
ribellismo fa da contrappeso al risentimento individuale, mentre
nelle ultimissime generazioni domina il nichilismo (nemmeno
“nobilitato” dalla consapevolezza e dalla ferma volontà di una
filosofia): l’amoralità, l’inconcludenza, l’abulia,
l’anaffettività, il ventre molle della coscienza, la brutalità
aggregativa, le famigerate dinamiche del branco. Accade che questi
giovani, spesso adolescenti, vivano come in un videogioco, cancellano
chi “dà fastidio”, per noia, fatalità e capriccio. E si
accrescono le “vite spezzate”, per dirla alla Zygmunt Bauman,
generate dal mood di pessimismo , rancore, xenofobia, allergia
ai doveri, assenza di stimoli propositivi.
Tra bestemmia e
disperazione, preghiera e speranza, ci si barcamena alla men peggio.
Ma verso quale
aspettativa?
Se i nostri politici non
fossero una casta autoreferenziale, clientelista e nepotista, si
lascerebbero alle spalle i disonorevoli trascorsi; si potrebbe
reimpostare il dialogo con i cittadini, riconoscendo le loro reali
aspettative, aiutandoli a esorcizzare ansie e paure, riedificando lo
Stato sulla tutela della sicurezza e del risparmio, dell’istruzione
e del lavoro, della sanità e dei trasporti, eliminando la burocrazia
inefficiente, dando una sterzata alla giustizia magona.
Se la classe dirigente
fosse capace di prendere decisioni, se non eludesse il tema della
fiducia, dando il proverbiale buon esempio, se cessasse di
assecondare clientele d’ogni sorta in qualsiasi settore, se in
sostanza agisse con trasparenza, si ridurrebbe drasticamente il
malessere sociale che ci appesta. Sarebbe gradatamente riportata in
auge la credibilità delle istituzioni statali e a livello di
ragionevole recupero il tasso declinante della fiducia del cittadino
nei confronti delle istituzioni (viste ormai e metabolizzate come
forze parassitarie, dissipatrici e rapacemente personalistiche).
Finalmente si
instaurerebbe la cultura del merito, e quindi del valore, nel campo
degli studi, delle professioni, sul versante civico e politico,
discernendo, soppesando, incoraggiando e incanalando le capabilities
del singolo. Ma evidentemente è chiedere troppo.
ARMANDO SAVERIANO
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