martedì 26 marzo 2013

Chiedere troppo?

Il potere è un’oscena teoria di carri allegorici, che destano una triste ilarità, un ghigno amaro della coscienza; suo congeniale teatro è il Belpaese, dove è sempre festa per il banchetto dei suoi altolocati attori.
Il potere cannibale divora se stesso, innalza e distrugge.
Europa e America sono un calderone bollente che brucia e vede bruciare capitali con l’impazzare della più potente crisi economica mai sospettata; la politica italiana, in particolare, tra liti persistenti e promesse malferme, il continuo scaricabarile delle responsabilità di ingorghi e fallimenti, non è stata in grado (e ancora pare non esserlo) di rigenerarsi, esiliando le giustificate diffidenze create dalle inespugnabili poltrone dei soliti noti, e fondando un rinnovato rapporto di fiducia con il cittadino, oggi lontano dalla costruzione e dalla percorribilità di un’etica civile, che proprio la politica, in teoria, dovrebbe essere in grado di modellare e garantire.
Sicché dimorano le disfunzionalità di sistema, le contraddizioni e gli scontri del dibattito intellettuale, le posizioni di principio, le gare di forza, le reticenze, le tendenziose legittimazioni, lo sciacallaggio di immagini, una inetta mediazione internazionale. Tutto, tra l’altro, contribuisce a far prosperare il senso di malessere contemporaneo, a far precipitare la considerazione di sé nel cittadino medio, magari isolato nello strato sociale più escluso o emarginato, tenendo presente che il metro valutativo della società è quello del successo, individuato nell’appartenenza alla classe elevata.
Di conseguenza un ribellismo fa da contrappeso al risentimento individuale, mentre nelle ultimissime generazioni domina il nichilismo (nemmeno “nobilitato” dalla consapevolezza e dalla ferma volontà di una filosofia): l’amoralità, l’inconcludenza, l’abulia, l’anaffettività, il ventre molle della coscienza, la brutalità aggregativa, le famigerate dinamiche del branco. Accade che questi giovani, spesso adolescenti, vivano come in un videogioco, cancellano chi “dà fastidio”, per noia, fatalità e capriccio. E si accrescono le “vite spezzate”, per dirla alla Zygmunt Bauman, generate dal mood di pessimismo , rancore, xenofobia, allergia ai doveri, assenza di stimoli propositivi.
Tra bestemmia e disperazione, preghiera e speranza, ci si barcamena alla men peggio.
Ma verso quale aspettativa?
Se i nostri politici non fossero una casta autoreferenziale, clientelista e nepotista, si lascerebbero alle spalle i disonorevoli trascorsi; si potrebbe reimpostare il dialogo con i cittadini, riconoscendo le loro reali aspettative, aiutandoli a esorcizzare ansie e paure, riedificando lo Stato sulla tutela della sicurezza e del risparmio, dell’istruzione e del lavoro, della sanità e dei trasporti, eliminando la burocrazia inefficiente, dando una sterzata alla giustizia magona.
Se la classe dirigente fosse capace di prendere decisioni, se non eludesse il tema della fiducia, dando il proverbiale buon esempio, se cessasse di assecondare clientele d’ogni sorta in qualsiasi settore, se in sostanza agisse con trasparenza, si ridurrebbe drasticamente il malessere sociale che ci appesta. Sarebbe gradatamente riportata in auge la credibilità delle istituzioni statali e a livello di ragionevole recupero il tasso declinante della fiducia del cittadino nei confronti delle istituzioni (viste ormai e metabolizzate come forze parassitarie, dissipatrici e rapacemente personalistiche).
Finalmente si instaurerebbe la cultura del merito, e quindi del valore, nel campo degli studi, delle professioni, sul versante civico e politico, discernendo, soppesando, incoraggiando e incanalando le capabilities del singolo. Ma evidentemente è chiedere troppo.

ARMANDO SAVERIANO

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