lunedì 25 marzo 2013

Cambiare costa fatica


Immagine tratta dall'Edipo Re di Sofocle
con Franco Branciaroli per la regia di Antonio Calenda
All’apertura del sipario le luci resteranno spente. La scena sarà per qualche secondo in penombra, illuminata soltanto dalla fioca luce verde-pallido di una lampada da studio, lasciando intuire allo spettatore l’arredamento di uno studio psicanalitico.
Una poltrona al centro della scena. A destra una scrivania sulla quale poggia la lampada verde e, ben visibili, alcuni libri.
Lentamente una luce neutra comincia ad alzarsi, come una luce solare che piano piano penetra nell’ambiente per poi riempirlo.
Di fuori si sente bussare al campanello. Alla seconda, terza bussata si udirà l’aprirsi di una porta.

Voce maschile  (da fuori) Permesso? Buongiorno. (Pausa, poi come per rispondere ad una precisa domanda) Sì, ho un appuntamento. (Pausa) Posso entrare? Grazie!

Entra RENATO. E’ un uomo di mezza età di aspetto distinto, sobrio; una persona che grazie al suo stile di vita ha imparato a saper stare in società e a tenere conversazione sugli argomenti più disparati: dalla letteratura alle scienze, alle arti, alla politica, ai viaggi, alla gastronomia. Entra a passo svelto diretto verso la poltrona. Si siede.

Renato (Con crescente tono di sfida, quasi a voler misurare la consistenza dell’interlocutore) Ho deciso di smetterla con la psicanalisi, voglio che lo sappia subito. Meglio dirselo ora che siamo alla prima seduta: non ci credo più, non c’ho mai creduto. Ecco, vede, io sono un avvocato, e tutto nella mia vita deve essere dimostrato attraverso l’individuazione di “prove”, di tracce tangibili. Io credo soltanto a quello che vedo. Tutti quei discorsi sull’inconscio, tipo “Sono molto legato a mia madre”, “Oddio quanto è grave”, “Quanto le devo dottore” comincio a trovarli un po’ ridicoli. Ho già perso sei anni della mia vita a sentire le chiacchiere dei suoi colleghi. E sto peggio di prima. 

Ora lei si sta dicendo che sto molto male, ma faccio la parte di quello che non vuole essere aiutato, giusto? Ho un “atteggiamento difensivo”, lo chiamate così giusto? E tra un po’ mi dirà di stendermi, magari di chiudere gli occhi, e poi comincerà a chiedermi se ho un sogno ricorrente, qual è il mio primo ricordo… e altre domande sul mio passato…  Ma vuole davvero che le parli del mio passato? (Balza in piedi) Lei non se lo immagina nemmeno che cosa sono stato capace di combinare in passato, io! Eccolo lì il mio passato, è tutto scritto nelle carte che le ha mandato lo psichiatra: un paio di ricoveri in “strutture specializzate”, un tentativo di suicidio “piuttosto serio” e una dozzina di psicofarmaci prescritti. (Meccanico, come per recitare una formula) “La sintomatologia presentata dal paziente è fortemente suggestiva di una forma severa di depressione”. 

(Pausa, ascolta) 

Ah! Le ha già lette? Tanto meglio! Tanto lo so benissimo che per voi medici conta solo quello che vi dicono le carte, i libri, i manuali. Come se tutto quello che dite e fate rispondesse a una scienza esatta, in cui tutto è prevedibile e non c’è la minima possibilità di errore. Ma io, caro dottore, non sono una casella da riempire! Io sto male! Malissimo! Ma lo sa cosa significa essere disperati? Se non l’ha mai vissuto, come può immaginare quello io provo, quello che io sento davvero, qui (si batte il petto)? Cosa ne sa lei della depressione? L’ha studiata per caso sui libri? Io ho un vuoto dentro (si batte ancora il petto)! Un buco nero, enorme! (Tira un sospiro gettandosi sulla poltrona, poi amaro) Tutto mi sembra così privo di senso. 

(Cava fuori dalla tasca l’accendino e un pacchetto di sigarette, ne estrae una e l’accende. Inizia a fumare) Come dice? Non si può fumare qui? 
(Pausa, quasi a cercare con la mente una risposta a effetto, poi con un impercettibile sogghigno) Arrestatemi! (Unisce i polsi mimando un paio di manette)

No, no, scherzavo. Ora la spengo (fa un ultimo tiro, poi spegne la sigaretta sotto la scarpa). Scusi sa, ma negli ultimi anni a noi fumatori ci trattano come gli appestati! Prima invece si poteva fumare dappertutto, ricorda? 
(Pausa) Pensi che la prima sigaretta la fumai a tredici anni, per gioco, non avevo la minima idea di cosa fosse. Era il 1970, c’erano i mondiali e faceva un caldo incredibile. Mio padre aveva l’abitudine di andare a fumarsi una sigaretta nello studio dopo pranzo, prima di andare a coricarsi. Una volta dimenticò il pacchetto sulla scrivania, tra due grossi volumi di diritto privato. (Si schermisce, quasi a giustificarsi) Io me lo trovai tra le mani… tutti dormivano… ero curioso di sapere che sapore avesse… insomma, presi una sigaretta e scesi in cantina… Rimasi disgustato! Avevo lo stomaco sottosopra, la bocca impastata, il fiato appesantito e le mani puzzolenti. Cominciai a tossire e mi girò persino un po’ la testa. “Non toccherò mai più quella robaccia!”, mi dissi. Fu la mia prima ultima sigaretta. 
(Pausa) Secondo il mio primo analista tutta questa manfrina era per assecondare un’inconscia affermazione di virilità… Verso mio padre, capisce? Che idiozia! Non ho mai avuto problemi con mio padre, anzi, era lui ad avere problemi per causa mia… (Con progressiva autocommiserazione) Quante gliene ho fatte passare! Ho voluto sempre fare il comodo mio, fregandomene degli altri, per questo la mia famiglia non mi ha mai voluto bene davvero! Non sono mai stato preso in considerazione, in casa si è sempre fatto quello che piaceva al mio fratello più piccolo. Ma era giusto, è giusto. Perché io sono cattivo, molto cattivo! Lei non se l’immagina proprio che razza di pensieri mi passano per la mente, che razza di bastardo sono! 

(Pausa, ascolta) Come dice scusi? 
(Pausa, ascolta ancora, poi spiazzato dal dover rispondere a una domanda strana e inattesa
No… Non ho mai ammazzato nessuno… 
(Pausa, come sopra) No… non mi ubriaco nemmeno… 
(Pausa, come sopra, ma questa volta più perentorio) No! Ma che dice! Non mi drogo e non mi sono mai drogato! Quella roba mi fa schifo! 
(Pausa, resta in ascolto) Vuole smetterla con queste domande idiote! 
(Pausa, come sopra) Mia moglie non la tradirei mai! Lei non c’entra niente con tutta questa storia, anzi… Ha una pazienza con me… Se non ci fosse lei ad accompagnarmi da uno specialista all’altro, starei anche peggio… La amo, è tutta la mia vita, dico sul serio. E’ solo per lei che sono qui. E’ stata lei a convincermi a venire, a fare un ultimo tentativo con lei, dottore. 

(Pausa, precisa) Beh, solo per lei proprio no, ci sono anche i miei figli. Ne ho due: Edoardo, come mio padre, e Donatella. (Con un’improvvisa e fugace punta d’orgoglio) Entrambi diplomati al classico con ottimi voti. (Repentinamente mesto) Sono preoccupato per lei: si è laureata in architettura un anno e mezzo fa, ma ancora non lavora e questo la butta giù. Sembra trovare la sua realizzazione in tanti piccoli impegni quotidiani, con i quali si riempie le giornate. Ma questo non la soddisfa, e lei intimamente lo sa. E allora si butta giù di nuovo: è un circolo vizioso. (Di nuovo con autocommiserazione) E la colpa è la mia, che non l’aiuto abbastanza! 

(Ritorna mesto) Edoardo invece è il più piccolo, e mi ha dato una grossa delusione. Volevo per lui una carriera da magistrato, si era anche iscritto a giurisprudenza. (Leggermente sdegnato) E invece si è messo in testa di voler fare l’attore! Ha frequentato un anno ed ora si è convinto che deve andarsene per forza a Roma. (Imitando la boria del figlio) “E’ un dovere che sento verso me stesso”, dice. (Sincero) Non è stato mai davvero portato, mia moglie è stata a fare questa sciocchezza. L’ha sempre assecondato, fin da quando era bambino, e a dirla tutta credo che questa storia del teatro non sia una velleità di Edoardo, ma un’ambizione della madre. Perché in questo modo può vantarsi con le amiche, capisce? Perché c’ha il figlio attore. E al marito? Che valore ha suo marito? Uno studio legale ben avviato, e che tutti in questa città conoscono e rispettano, improvvisamente non conta più nulla? Che fine ha fatto il buon nome dello studio legale “Edoardo Panutti e figlio”? (Rammaricato) Ah certo lo merito tutto questo… fossi stato un padre migliore! Come mio padre, per esempio… gli sforzi che ha fatto per mettermi in riga! 

Mi ricordo, quasi come in un sogno, che ero piccolissimo, e mi divertivo a far ridere le zie con delle pantomime che improvvisavo nel salotto della vecchia casa al paese. Poi mio padre usciva dallo studio e gridava: (fa il verso alle pose seriose del padre) “Questa è la casa di un avvocato, non sta bene comportarsi in questo modo!”. (Divertito) Sempre così, le stesse identiche parole, senza cambiare una virgola. Era diventata una pantomima anche la sua, uno spettacolo nello spettacolo. E a pensarci bene, la stessa avvocatura non è poi tanto lontana da certe mosse e atteggiamenti tipiche degli attori. In un certo senso, anche noi avvocati dobbiamo fingere spudoratamente, a volte. 

(Si alza) Come vede, caro dottore, negli ultimi anni ho talmente frequentato la psicanalisi, da essere diventato un po’ psicanalista anche io. (Torna di nuovo ad essere incalzante, con crescente tono di sfida) Io sono perfettamente consapevole del mio problema. Ma lei lo sa cosa vuol dire davvero essere depressi? Ti senti escluso, abbandonato, e nessuno si rende conto delle ingiustizie che ti fanno. Tutto ti sembra vano. Vedi tutto nero, come se avessi gli occhiali da sole. E guai ad avvicinarti ad una finestra, soprattutto se sei solo, perché a quel punto resistere è veramente difficile… La questione è molto più complessa di quanto crede, caro dottorino. Certamente adesso starà pensando che sono un presuntuoso, non è vero? 
Ma come si permette! 

(Pausa, ascolta

Questo è uno di quei vostri tipici giochini mentali… È certo che anche io ho dei difetti, ci mancherebbe. E tra questi non escluderei la presunzione. Ma che vuol dire questo? Dovrei forse essere perfetto? Quelli come lei devono finirla di pensare che solo una persona perfetta può aiutare gli altri, perché altrimenti nessuno accetterà più di farsi aiutare. Questo è il giochino mentale: ricercare i difetti altrui per evitare di farsi aiutare, per non impegnarsi nelle relazioni… Ma perché non cominciamo, tutti, una buona volta per tutte, a chiederci, piuttosto, cosa ciascuno di noi può dare agli altri e cosa dagli altri può imparare, nonostante le nostre imperfezioni? 

(Leggermente compiaciuto) Sa, caro dottorino, nel periodo in cui giravo da una clinica all’altra ho elaborato una mia personalissima teoria. Tutti gli altri “ospiti” come me venivano da situazioni e storie completamente diverse dalla mia. Dovevamo pur avere una cosa in comune, per trovarci tutti lì in quel momento. Ebbene, tutte le persone che ho incontrato erano convinte di non avere possibilità di scelta. Chi sta male pensa sempre di non avere scelta o di avere pochissime alternative a disposizione: sono sempre convinte di essere meno libere di quanto non siano in realtà. 

Ora lei mi dirà che anche nelle situazioni più tragiche c’è la possibilità di cambiare, ma che noi, presi dalla nostra sofferenza, non ce ne accorgiamo. Detta così potrei anche essere d’accordo con lei. Solo che a parole è molto più facile! Nessun cambiamento è a costo zero. Tutto ha un prezzo: economico, affettivo, materiale. E soprattutto, cambiare costa fatica… 

Io ho pensato a lungo alla mia situazione: l’unica apparente soluzione sta nell’individuare un’alternativa. Per poter scegliere. Già… ma come trovarla? Tutta la mia vita è stata segnata da un unico imperativo: non deludere. Non deludere mio padre, non deludere mia madre, non deludere gli amici, non deludere mia moglie, non deludere i miei figli. E ho finito per deludere me stesso! E adesso mi ritrovo un padre che mi considera un mediocre, una moglie che si realizza solo nello shopping e nelle velleità di un figlio che avanza spedito verso la disoccupazione e una figlia talmente stupida da non volersi fare aiutare… 

(Pausa. Poi colto da una folgorante illuminazione) Strano, non avevo mai pensato in questi termini, ma se l’alternativa fosse il suo contrario? Se capovolgessi la prospettiva? Sì, insomma, se cominciassi a pensare che sono gli altri a essere cattivi? In fondo, io sono stato un bravo figlio, un padre attento, un marito affettuoso… e se nonostante i miei pregi e i miei sforzi, tutti, a partire dai miei genitori, si sono accorti molto poco di non volermi bene quanto merito, allora i cattivi sarebbero loro. 
(Lucido, definitivo) Delle due l’una: se fossi davvero così cattivo, gli altri farebbero bene a non amarmi. Ma se io fossi una brava persona, sempre attenta ai bisogni altrui, sarebbero ingiusti gli altri a non volermi bene quanto merito. Ma questa è una realtà troppo dolorosa da accettare! Tra pensare che sono cattivi gli altri e pensare che sono io il problema e solo per questo non amato, ho fatto, paradossalmente, una scelta. Per me è molto meno doloroso pensare di essere l’unica causa di tutto ciò che non funziona. E in questo modo proteggo tutti gli altri. Pensare che il cattivo sono io è forse il male minore. E poi cambiare sarebbe troppo doloroso. Cambiare costa fatica. Non parliamone più. 

(Si ferma, la sua attenzione è catturata in un punto fisso e indefinito. Comincia lentamente ad alzarsi in piedi, senza distogliere lo sguardo da quel punto. Poi come colto di sorpresa ma comunque riverente

Buongiorno, dottore. 

(Un buio improvviso chiude la scena).

Salvatore Iermano
"Con l'inversione, lo spostamento e la sublimazione 
la psicoanalisi estende a tal punto i confini dell'interpretazione in direzione dell'arbitrario, 
che ogni controllo diviene impossibile 
e ogni spiegazione può essere lecita 
esattamente come il suo opposto".
Arthur Schnitzler.

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