Immagine tratta dall'Edipo Re di Sofocle con Franco Branciaroli per la regia di Antonio Calenda |
All’apertura
del sipario le luci resteranno spente. La scena sarà per qualche secondo in
penombra, illuminata soltanto dalla fioca luce verde-pallido di una lampada da
studio, lasciando intuire allo spettatore l’arredamento di uno studio
psicanalitico.
Una poltrona
al centro della scena. A destra una scrivania sulla quale poggia la lampada
verde e, ben visibili, alcuni libri.
Lentamente una
luce neutra comincia ad alzarsi, come una luce solare che piano piano penetra
nell’ambiente per poi riempirlo.
Di fuori si
sente bussare al campanello. Alla seconda, terza bussata si udirà l’aprirsi di
una porta.
Voce maschile (da fuori)
Permesso? Buongiorno. (Pausa, poi come
per rispondere ad una precisa domanda) Sì, ho un appuntamento. (Pausa) Posso entrare? Grazie!
Entra RENATO.
E’ un uomo di mezza età di aspetto distinto, sobrio; una persona che grazie al
suo stile di vita ha imparato a saper stare in società e a tenere conversazione
sugli argomenti più disparati: dalla letteratura alle scienze, alle arti, alla
politica, ai viaggi, alla gastronomia. Entra a passo svelto diretto verso la
poltrona. Si siede.
Renato (Con crescente tono di sfida, quasi a voler misurare la consistenza
dell’interlocutore) Ho deciso di smetterla con la psicanalisi, voglio che lo sappia
subito. Meglio dirselo ora che siamo alla prima seduta: non ci credo più, non
c’ho mai creduto. Ecco, vede, io sono un avvocato, e tutto nella mia vita deve
essere dimostrato attraverso l’individuazione di “prove”, di tracce tangibili.
Io credo soltanto a quello che vedo. Tutti quei discorsi sull’inconscio, tipo
“Sono molto legato a mia madre”, “Oddio quanto è grave”, “Quanto le devo
dottore” comincio a trovarli un po’ ridicoli. Ho già perso sei anni della mia
vita a sentire le chiacchiere dei suoi colleghi. E sto peggio di prima.
Ora lei
si sta dicendo che sto molto male, ma faccio la parte di quello che non vuole
essere aiutato, giusto? Ho un “atteggiamento difensivo”, lo chiamate così
giusto? E tra un po’ mi dirà di stendermi, magari di chiudere gli occhi, e poi
comincerà a chiedermi se ho un sogno ricorrente, qual è il mio primo ricordo… e
altre domande sul mio passato… Ma vuole
davvero che le parli del mio passato? (Balza
in piedi) Lei non se lo immagina nemmeno che cosa sono stato capace di
combinare in passato, io! Eccolo lì il mio passato, è tutto scritto nelle carte
che le ha mandato lo psichiatra: un paio di ricoveri in “strutture
specializzate”, un tentativo di suicidio “piuttosto serio” e una dozzina di
psicofarmaci prescritti. (Meccanico, come
per recitare una formula) “La sintomatologia presentata dal paziente è
fortemente suggestiva di una forma severa di depressione”.
(Pausa, ascolta)
Ah! Le ha già lette? Tanto meglio! Tanto lo so benissimo che per
voi medici conta solo quello che vi dicono le carte, i libri, i manuali. Come
se tutto quello che dite e fate rispondesse a una scienza esatta, in cui tutto
è prevedibile e non c’è la minima possibilità di errore. Ma io, caro dottore,
non sono una casella da riempire! Io sto male! Malissimo! Ma lo sa cosa
significa essere disperati? Se non l’ha mai vissuto, come può immaginare quello
io provo, quello che io sento davvero, qui (si
batte il petto)? Cosa ne sa lei della depressione? L’ha studiata per caso
sui libri? Io ho un vuoto dentro (si
batte ancora il petto)! Un buco nero, enorme! (Tira un sospiro gettandosi sulla poltrona, poi amaro) Tutto mi
sembra così privo di senso.
(Cava fuori
dalla tasca l’accendino e un pacchetto di sigarette, ne estrae una e l’accende.
Inizia a fumare) Come dice? Non si
può fumare qui?
(Pausa, quasi a cercare con la mente una risposta a
effetto, poi con un impercettibile sogghigno) Arrestatemi! (Unisce i polsi mimando un paio di manette)
No, no, scherzavo. Ora la spengo (fa un
ultimo tiro, poi spegne la sigaretta sotto la scarpa). Scusi sa, ma negli
ultimi anni a noi fumatori ci trattano come gli appestati! Prima invece si
poteva fumare dappertutto, ricorda?
(Pausa)
Pensi che la prima sigaretta la fumai a tredici anni, per gioco, non avevo la
minima idea di cosa fosse. Era il 1970, c’erano i mondiali e faceva un caldo
incredibile. Mio padre aveva l’abitudine di andare a fumarsi una sigaretta
nello studio dopo pranzo, prima di andare a coricarsi. Una volta dimenticò il
pacchetto sulla scrivania, tra due grossi volumi di diritto privato. (Si schermisce, quasi a giustificarsi) Io me lo trovai tra le mani… tutti
dormivano… ero curioso di sapere che sapore avesse… insomma, presi una
sigaretta e scesi in cantina… Rimasi disgustato! Avevo lo stomaco sottosopra,
la bocca impastata, il fiato appesantito e le mani puzzolenti. Cominciai a
tossire e mi girò persino un po’ la testa. “Non toccherò mai più quella
robaccia!”, mi dissi. Fu la mia prima ultima sigaretta.
(Pausa) Secondo il mio primo analista tutta questa manfrina era per
assecondare un’inconscia affermazione di virilità… Verso mio padre, capisce?
Che idiozia! Non ho mai avuto problemi con mio padre, anzi, era lui ad avere
problemi per causa mia… (Con progressiva
autocommiserazione) Quante gliene ho fatte passare! Ho voluto sempre fare
il comodo mio, fregandomene degli altri, per questo la mia famiglia non mi ha
mai voluto bene davvero! Non sono mai stato preso in considerazione, in casa si
è sempre fatto quello che piaceva al mio fratello più piccolo. Ma era giusto, è
giusto. Perché io sono cattivo, molto cattivo! Lei non se l’immagina proprio
che razza di pensieri mi passano per la mente, che razza di bastardo sono!
(Pausa, ascolta) Come dice scusi?
(Pausa, ascolta ancora, poi spiazzato dal
dover rispondere a una domanda strana e inattesa)
No… Non ho mai ammazzato
nessuno…
(Pausa, come sopra) No… non
mi ubriaco nemmeno…
(Pausa, come sopra,
ma questa volta più perentorio) No! Ma che dice! Non mi drogo e non mi sono
mai drogato! Quella roba mi fa schifo!
(Pausa,
resta in ascolto) Vuole smetterla con queste domande idiote!
(Pausa, come sopra) Mia moglie non la
tradirei mai! Lei non c’entra niente con tutta questa storia, anzi… Ha una
pazienza con me… Se non ci fosse lei ad accompagnarmi da uno specialista
all’altro, starei anche peggio… La amo, è tutta la mia vita, dico sul serio. E’
solo per lei che sono qui. E’ stata lei a convincermi a venire, a fare un
ultimo tentativo con lei, dottore.
(Pausa,
precisa) Beh, solo per lei proprio no, ci sono anche i miei figli. Ne ho
due: Edoardo, come mio padre, e Donatella. (Con
un’improvvisa e fugace punta d’orgoglio)
Entrambi diplomati al classico con ottimi voti. (Repentinamente mesto) Sono
preoccupato per lei: si è laureata in architettura un anno e mezzo fa, ma ancora
non lavora e questo la butta giù. Sembra trovare la sua realizzazione in tanti piccoli
impegni quotidiani, con i quali si riempie le giornate. Ma questo non la
soddisfa, e lei intimamente lo sa. E allora si butta giù di nuovo: è un circolo
vizioso. (Di nuovo con autocommiserazione) E la colpa è la mia,
che non l’aiuto abbastanza!
(Ritorna
mesto) Edoardo invece è il più piccolo, e mi ha dato una grossa delusione.
Volevo per lui una carriera da magistrato, si era anche iscritto a
giurisprudenza. (Leggermente sdegnato) E invece si è messo in testa
di voler fare l’attore! Ha frequentato un anno ed ora si è convinto che deve
andarsene per forza a Roma. (Imitando la
boria del figlio) “E’ un dovere
che sento verso me stesso”, dice. (Sincero)
Non è stato mai davvero portato, mia moglie è stata a fare questa sciocchezza.
L’ha sempre assecondato, fin da quando era bambino, e a dirla tutta credo che
questa storia del teatro non sia una velleità di Edoardo, ma un’ambizione della
madre. Perché in questo modo può vantarsi con le amiche, capisce? Perché c’ha
il figlio attore. E al marito? Che valore ha suo marito? Uno studio legale ben
avviato, e che tutti in questa città conoscono e rispettano, improvvisamente
non conta più nulla? Che fine ha fatto il buon nome dello studio legale “Edoardo
Panutti e figlio”? (Rammaricato) Ah
certo lo merito tutto questo… fossi stato un padre migliore! Come mio padre,
per esempio… gli sforzi che ha fatto per mettermi in riga!
Mi ricordo, quasi
come in un sogno, che ero piccolissimo, e mi divertivo a far ridere le zie con
delle pantomime che improvvisavo nel salotto della vecchia casa al paese. Poi
mio padre usciva dallo studio e gridava: (fa
il verso alle pose seriose del padre) “Questa è la casa di un avvocato, non
sta bene comportarsi in questo modo!”. (Divertito)
Sempre così, le stesse identiche parole, senza cambiare una virgola. Era
diventata una pantomima anche la sua, uno spettacolo nello spettacolo. E a pensarci
bene, la stessa avvocatura non è poi tanto lontana da certe mosse e
atteggiamenti tipiche degli attori. In un certo senso, anche noi avvocati
dobbiamo fingere spudoratamente, a volte.
(Si
alza) Come vede, caro dottore, negli ultimi anni ho talmente frequentato la
psicanalisi, da essere diventato un po’ psicanalista anche io. (Torna di nuovo ad essere incalzante, con
crescente tono di sfida) Io sono perfettamente consapevole del mio
problema. Ma lei lo sa cosa vuol dire davvero essere depressi? Ti senti
escluso, abbandonato, e nessuno si rende conto delle ingiustizie che ti fanno. Tutto
ti sembra vano. Vedi tutto nero, come se avessi gli occhiali da sole. E guai ad
avvicinarti ad una finestra, soprattutto se sei solo, perché a quel punto
resistere è veramente difficile… La questione è molto più complessa di quanto
crede, caro dottorino. Certamente adesso starà pensando che sono un
presuntuoso, non è vero?
Ma come si permette!
(Pausa, ascolta)
Questo è uno di quei vostri tipici giochini
mentali… È certo che anche io ho dei difetti, ci mancherebbe. E tra questi non
escluderei la presunzione. Ma che vuol dire questo? Dovrei forse essere perfetto?
Quelli come lei devono finirla di pensare che solo una persona perfetta può
aiutare gli altri, perché altrimenti nessuno accetterà più di farsi aiutare.
Questo è il giochino mentale: ricercare i difetti altrui per evitare di farsi
aiutare, per non impegnarsi nelle relazioni… Ma perché non cominciamo, tutti,
una buona volta per tutte, a chiederci, piuttosto, cosa ciascuno di noi può
dare agli altri e cosa dagli altri può imparare, nonostante le nostre
imperfezioni?
(Leggermente compiaciuto)
Sa, caro dottorino, nel periodo in cui giravo da una clinica all’altra ho
elaborato una mia personalissima teoria. Tutti gli altri “ospiti” come me
venivano da situazioni e storie completamente diverse dalla mia. Dovevamo pur
avere una cosa in comune, per trovarci tutti lì in quel momento. Ebbene, tutte
le persone che ho incontrato erano convinte di non avere possibilità di scelta.
Chi sta male pensa sempre di non avere scelta o di avere pochissime alternative
a disposizione: sono sempre convinte di essere meno libere di quanto non siano
in realtà.
Ora lei mi dirà che anche nelle situazioni più tragiche c’è la
possibilità di cambiare, ma che noi, presi dalla nostra sofferenza, non ce ne
accorgiamo. Detta così potrei anche essere d’accordo con lei. Solo che a parole
è molto più facile! Nessun cambiamento è a costo zero. Tutto ha un prezzo:
economico, affettivo, materiale. E soprattutto, cambiare costa fatica…
Io ho
pensato a lungo alla mia situazione: l’unica apparente soluzione sta
nell’individuare un’alternativa. Per poter scegliere. Già… ma come trovarla? Tutta
la mia vita è stata segnata da un unico imperativo: non deludere. Non deludere
mio padre, non deludere mia madre, non deludere gli amici, non deludere mia
moglie, non deludere i miei figli. E ho finito per deludere me stesso! E adesso
mi ritrovo un padre che mi considera un mediocre, una moglie che si realizza
solo nello shopping e nelle velleità di un figlio che avanza spedito verso la
disoccupazione e una figlia talmente stupida da non volersi fare aiutare…
(Pausa. Poi colto da una folgorante
illuminazione) Strano, non avevo mai pensato in questi termini, ma se
l’alternativa fosse il suo contrario? Se capovolgessi la prospettiva? Sì,
insomma, se cominciassi a pensare che sono gli altri a essere cattivi? In fondo,
io sono stato un bravo figlio, un padre attento, un marito affettuoso… e se
nonostante i miei pregi e i miei sforzi, tutti, a partire dai miei genitori, si
sono accorti molto poco di non volermi bene quanto merito, allora i cattivi sarebbero
loro.
(Lucido, definitivo) Delle due
l’una: se fossi davvero così cattivo, gli altri farebbero bene a non amarmi. Ma
se io fossi una brava persona, sempre attenta ai bisogni altrui, sarebbero
ingiusti gli altri a non volermi bene quanto merito. Ma questa è una realtà
troppo dolorosa da accettare! Tra pensare che sono cattivi gli altri e pensare
che sono io il problema e solo per questo non amato, ho fatto, paradossalmente,
una scelta. Per me è molto meno doloroso pensare di essere l’unica causa di
tutto ciò che non funziona. E in questo modo proteggo tutti gli altri. Pensare
che il cattivo sono io è forse il male minore. E poi cambiare sarebbe troppo
doloroso. Cambiare costa fatica. Non parliamone più.
(Si ferma, la sua attenzione è catturata in un punto fisso e indefinito.
Comincia lentamente ad alzarsi in piedi, senza distogliere lo sguardo da quel
punto. Poi come colto di sorpresa ma comunque riverente)
Buongiorno,
dottore.
(Un buio improvviso chiude la
scena).
Salvatore Iermano
"Con l'inversione, lo spostamento e la sublimazione la psicoanalisi estende a tal punto i confini dell'interpretazione in direzione dell'arbitrario,
che ogni controllo diviene impossibile
e ogni spiegazione può essere lecita
esattamente come il suo opposto".
Arthur Schnitzler.
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