martedì 26 febbraio 2013

Martiniello: l'occhio insonne del Poiein


Una doverosa commemorazione

Nella vetrina dei poeti meridionalisti merita un ruolo a parte il tasto amaro e impertinente di Pasquale Martiniello, che ha sempre ricusato gli esodi verso lidi più vantaggiosi alla carriera, e tanto meno gli assorbimenti nell’intellighenzia della capitale lombarda, come invece hanno fatto non pochi.
Il poeta di Mirabella Eclano se da un lato può essere considerato l’esponente pater della nutrita generazione di cantori irpini, a lui debitori -da fonte battesimale- per le ispirazioni e le differenti fortune, dall’altro si emancipa dal recinto pur ricchissimo e sterminato della “sudità” per irrompere nell’esplorazione di temi ed avvenimenti universali, il cui tòpos è il mondo.
Il suo poièo è frutto della dedizione coerente, costante, quotidiana: è specchio di vita, esercizio di vita, si fa - come abbiamo scritto altrove - bisturi antropologico che viviseziona innanzitutto il sé poetante, quindi l’uomo nelle sue potenziali altezze e negli anfratti bui, tormentati, enigmatici, di cui, se e quando egli ne acquista consapevolezza, ha orrore.
E dell’uomo indaga il background, le condizioni e i condizionamenti, la formazione psicologica e culturale, le pulsioni, gli istinti, facendo leva sullo scandaglio mnèstico, lo scandaglio della memoria individuale e collettiva: tanto lo conduce inevitabilmente all’analisi a vasto raggio non soltanto della controversa questione meridionalista, ancora irrisolta e forse irrisolvibile, ma alla presa di coscienza delle conseguenze svariate che derivano dagli eventi che si verificano in tutto il nostro sistema travagliato.
Questa analisi degli accadimenti e delle trasformazioni socioculturali nel nostro meridione, nel nostro Paese, nell’Europa, oltreoceano e sul resto del pianeta, diventa ben presto una mappa, una sorta di dizionario enciclopedico scandìto dal metalinguaggio della poesia, che tuttavia non si limita all’interesse cronachistico; svolge una precipua funzione, primaria, delicata, la quale d’altronde rappresenta e assolve il ruolo che dovrebbe avere o assumere l’intellettuale non asservito, immune ad allettamenti, a pressioni, a tentazioni di eterodirezionalità. Noi diremmo, immediatamente, un po’ genericamente, l’engagement sartriano. Benché l’impegno rivendicato da Martiniello non sia un reboare che si leva dalla carta, e sulla pagina vibrante di sdegno resta: l’indignatio e l’appello a reagire alla malasocietà in campo d’azione si fondano sull’esperienza diretta, che risale agli anni laboriosi e difficili del personale riscatto sociale di Martiniello, che da contadino è diventato insegnante, preside, sindaco. Il sofferto passaggio di status ha avuto rifrazioni vantaggiose per l’intera comunità mirabellana, in particolare per quella -cospicua- agreste.
Martiniello, da sindaco, ha amministrato con sagacia, senza mai badare a un tornaconto personale e senza innescare clientelismi e nepotismi. Grazie alle sue battaglie, le campagne emarginate, desolate, hanno avuto la luce elettrica; grazie alla ferrea determinazione del preside, il paese ha assistito alla fondazione e alla fioritura dei licei (classico e scientifico).
Quindi un richiamo all’impegno da parte di chi sa sulla pelle, sulle serchie e sotto ai calli, in senso stretto, che cosa significa operare in prima linea, esponendosi e rischiando la reputazione. L’esercizio della virtù ed il conseguimento dell’onore, nell’accezione ciceroniana e nella locuzione di Tommaso d’Aquino “exhibitio reverentiae in testimonium virtutis” .
La lucidità della denuncia non ammette soste o parzialità.
Il poeta fa suo il concetto espresso da Elsa Morante, a proposito della natura salvìfica della poesia: “Il poeta è destinato a smascherare gli imbrogli. E una poesia, una volta partita, non si ferma più, corre e si moltiplica, arrivando da tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe aspettato.”

Martiniello stana il male ovunque si dissimuli, in qualunque forma si pervesta: fretta, superficialità, confusione, deroga dei doveri, infingardaggine, abulìa, distacco dalle radici e quindi dimenticanza delle origini. Nei suoi percorsi taglienti, nei versi non confortanti egli ammette che passioni, malaccorti appetiti e una oscura pulsione di destrudo sono in germe nell’umanità, tentata e dannata; d’altro conto egli fermamente crede, nel suo pessimismo ottimistico (massimo ossimoro), nella sua fede cristiana intinta di laico illuminismo, che queste spinte deleterie, questi bassi istinti possano essere convogliati a non produrre danno, chiedendo soccorso alla sublimazione delle arti creative. Il poeta è convinto che attraverso la catabasi si possa ascendere alla dignità, conquistando l’elaborazione migliore e la migliore risoluzione dei contrasti che tanto spesso ci spingono all’anomìa.
Pertanto la poesia è lo strumento di cui si serve, lui servo della poesia, per compiere la trascrizione del sé autentico nel mondo, emendato dei divieti, delle stereotipìe, dei pregiudizi, delle ambivalenze, delle prevaricazioni, dell’opportunismo.

E che cos’è la poesia, se non una forma dinamica, eversiva (del pensiero e del linguaggio), una sorta di corrente tumultuosa che si prefigge, anche quando non lo intende, alzare il livello di qualità della vita, grazie alla capacità di staccarsi dalla staticità dei modi abituali e stantìi di decodificare la realtà?

Martiniello vuole innanzitutto restituire il passato rimosso dalle nebbie storiche e minacciato dal revisionismo; un passato troppo vago per le attuali generazioni di ignoranti tecnologici, disinvolti nel navigare in internet e nel collezionare gasdgets elettronici, telematici, ma incapaci di sentire la natura, o di concepire l’istanza dell’opposizione contra latrones , l’istanza della lotta d’azione sociale da parte delle classi oppresse contro baroni e padroni di rinnovata protervia.
Larga parte della produzione poetica martiniellana si cala in questo compito non agevole, non immediato: restituire un passato di disagi e di sofferenze non misurati dall’esterno, vissuti, al contrario nelle pieghe della carne; e quindi denarcotizzare le coscienze di oggi. Ed agisce, Martiniello, in virtù di un metalinguaggio che -esso stesso- risale la corrente della poesia in dialetto e mutua l’introiezione esclusiva in esempio universale. Qui interviene una delicata operazione di forgiatura di un logos antico, di un ethos e di un epos dal sapore ancestrale, che si verniciano di contemporaneo, affinché parola e sottotracce, testo e sottotesto, vengano accettati, assorbiti, proprio nella finalità che il poièin crepiti, come filo elettrico scoperto, nell’ego coscienziale dei fruitori. Questa operazione di mediazione del dialetto in lingua impegna laboriosamente il poeta di Mirabella Eclano, in uno strenuo, cimentante scrìbere- delère- polìre , che recupera le forme dialettali, ne fa calchi preziosissimi, e rivivifica il nostro lessico, evidenziandone le diramazioni, le ricorrenze, la duttilità, le ragioni storiche, le stazioni culturali.
Il suo è un vero e proprio laboratorio linguistico, che sperimenta di continuo questa traslazione dal logos originario al logos in uso attuale. Nella dialektos koinè di Martiniello questa sorta di ricorrente dialetto metonimico occupa una funzione chiave e, nella scacchiera dei sottintesi, degli spazi bianchi, della eco immaginifica e feconda, conserva intatto il suo colore. Attraverso questo dialetto rimodellato, grazie a questa koinè dalla veste nuova, si perviene al contatto quasi sinestetico, sensoriale, con il lato autentico di sé: un recupero dell’atavico, un archetipo che preme la sua impronta digitale. Quindi la risorsa del sollevare il coperchio del virtuale orcio che raccoglie, contiene, preserva il patrimonio mnèstico, nonché i benefici che derivano da quest’azione indubbiamente sfibrante e coraggiosa di guardare dietro e dentro di sé.
Nel filone primario della produzione martiniellana c’è l’interrogazione del senso del meraviglioso e la descrizione di un’Arcadia non ancora contaminata; ma subito si sgrana e si confessa la travagliata appartenenza alla terra bella e amara, generosa e crudele, coi suoi riti e coi tributi di sofferenza officiati e pagati con animo corroborato dall’onesto lavorante. Ecco gli affreschi di vere e proprie cerimonie dell’aia, tempio del cafone contadino, scanditi da preghiere, scongiuri e da invettive salaci, agre; ecco le figure chiave del padre intento a fare innesti nel meleto o ad accudire le arnie; quelle della nonna e della madre, mule rassegnate e intessute di ferro e di corda, còlte in momenti chiaroscurali di vita minima esemplare.
Nel secondo filone, il poeta viaggia per terre di confine prossime e lontane, col suo cahier de doléance sotto il braccio, e la punta della caustica lingua che abrade, sferza, che non sa, non può, non vuole tacere. Giacché il silenzio suonerebbe vile, sarebbe complice del caos, farebbe il gioco dei cattivi governanti.
La poetica di Martiniello approda alla satira politica, irride il costume, i vizi e i vezzi degli italiani, del Belpaese, dell’umana gente oin ogni angolo di dove: è come una sublime investitura, dove la parola in fondo accarezza l’amore schiaffeggiando, guida alla Ehrliebe anche quando riprova, tuona, maledice e bestemmia.

ARMANDO SAVERIANO

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