Una doverosa commemorazione
Nella
vetrina dei poeti meridionalisti merita un ruolo a parte il tasto
amaro e impertinente di Pasquale Martiniello,
che ha sempre ricusato gli esodi verso lidi più vantaggiosi alla
carriera, e tanto meno gli assorbimenti nell’intellighenzia della
capitale lombarda, come invece hanno fatto non pochi.
Il poeta
di Mirabella Eclano se da un lato può essere considerato l’esponente
pater della nutrita
generazione di cantori irpini, a lui debitori -da fonte battesimale-
per le ispirazioni e le differenti fortune, dall’altro si emancipa
dal recinto pur ricchissimo e sterminato della “sudità” per
irrompere nell’esplorazione di temi ed avvenimenti universali, il
cui tòpos è il mondo.
Il suo
poièo è frutto della
dedizione coerente, costante, quotidiana: è specchio di vita,
esercizio di vita, si fa - come abbiamo scritto altrove - bisturi
antropologico che viviseziona innanzitutto il sé poetante, quindi
l’uomo nelle sue potenziali altezze e negli anfratti bui,
tormentati, enigmatici, di cui, se e quando egli ne acquista
consapevolezza, ha orrore.
E
dell’uomo indaga il background,
le condizioni e i condizionamenti, la formazione psicologica e
culturale, le pulsioni, gli istinti, facendo leva sullo scandaglio
mnèstico, lo scandaglio della memoria individuale e collettiva:
tanto lo conduce inevitabilmente all’analisi a vasto raggio non
soltanto della controversa questione meridionalista, ancora irrisolta
e forse irrisolvibile, ma alla presa di coscienza delle conseguenze
svariate che derivano dagli eventi che si verificano in tutto il
nostro sistema travagliato.
Questa
analisi degli accadimenti e delle trasformazioni socioculturali nel
nostro meridione, nel nostro Paese, nell’Europa, oltreoceano e sul
resto del pianeta, diventa ben presto una mappa, una sorta di
dizionario enciclopedico scandìto dal metalinguaggio della poesia,
che tuttavia non si limita all’interesse cronachistico; svolge una
precipua funzione, primaria, delicata, la quale d’altronde
rappresenta e assolve il ruolo che dovrebbe avere o assumere
l’intellettuale non asservito, immune ad allettamenti, a pressioni,
a tentazioni di eterodirezionalità. Noi diremmo, immediatamente, un
po’ genericamente, l’engagement
sartriano. Benché l’impegno rivendicato da Martiniello non sia un
reboare che si leva dalla carta,
e sulla pagina vibrante di sdegno resta:
l’indignatio e
l’appello a reagire alla malasocietà in campo d’azione si
fondano sull’esperienza diretta, che risale agli anni laboriosi e
difficili del personale riscatto sociale di Martiniello, che da
contadino è diventato insegnante, preside, sindaco. Il sofferto
passaggio di status ha
avuto rifrazioni vantaggiose per l’intera comunità mirabellana, in
particolare per quella -cospicua- agreste.
Martiniello, da sindaco, ha
amministrato con sagacia, senza mai badare a un tornaconto personale
e senza innescare clientelismi e nepotismi. Grazie alle sue
battaglie, le campagne emarginate, desolate, hanno avuto la luce
elettrica; grazie alla ferrea determinazione del preside, il paese ha
assistito alla fondazione e alla fioritura dei licei (classico e
scientifico).
Quindi
un richiamo all’impegno da parte di chi sa sulla pelle, sulle
serchie e sotto ai calli, in senso stretto, che cosa significa
operare in prima linea, esponendosi e rischiando la reputazione.
L’esercizio della virtù ed il conseguimento dell’onore,
nell’accezione ciceroniana e nella locuzione di Tommaso d’Aquino
“exhibitio reverentiae in testimonium virtutis”
.
La
lucidità della denuncia non ammette soste o parzialità.
Il poeta
fa suo il concetto espresso da Elsa Morante,
a proposito della natura salvìfica della poesia: “Il
poeta è destinato a smascherare gli imbrogli. E una poesia, una
volta partita, non si ferma più, corre e si moltiplica, arrivando da
tutte le parti, fin dove il poeta stesso non se lo sarebbe
aspettato.”
Martiniello stana il male ovunque
si dissimuli, in qualunque forma si pervesta: fretta,
superficialità, confusione, deroga dei doveri, infingardaggine,
abulìa, distacco dalle radici e quindi dimenticanza delle origini.
Nei suoi percorsi taglienti, nei versi non confortanti egli ammette
che passioni, malaccorti appetiti e una oscura pulsione di destrudo
sono in germe nell’umanità, tentata e dannata; d’altro conto
egli fermamente crede, nel suo pessimismo ottimistico (massimo
ossimoro), nella sua fede cristiana intinta di laico illuminismo, che
queste spinte deleterie, questi bassi istinti possano essere
convogliati a non produrre danno, chiedendo soccorso alla
sublimazione delle arti creative. Il poeta è convinto che attraverso
la catabasi si possa ascendere alla dignità, conquistando
l’elaborazione migliore e la migliore risoluzione dei contrasti
che tanto spesso ci spingono all’anomìa.
Pertanto la poesia è lo strumento
di cui si serve, lui servo della poesia, per compiere la trascrizione
del sé autentico nel mondo, emendato dei divieti, delle stereotipìe,
dei pregiudizi, delle ambivalenze, delle prevaricazioni,
dell’opportunismo.
E che cos’è la poesia, se non
una forma dinamica, eversiva (del pensiero e del linguaggio), una
sorta di corrente tumultuosa che si prefigge, anche quando non lo
intende, alzare il livello di qualità della vita, grazie alla
capacità di staccarsi dalla staticità dei modi abituali e stantìi
di decodificare la realtà?
Martiniello vuole innanzitutto
restituire il passato rimosso dalle nebbie storiche e minacciato dal
revisionismo; un passato troppo vago per le attuali generazioni di
ignoranti tecnologici, disinvolti nel navigare in internet e nel
collezionare gasdgets elettronici, telematici, ma incapaci di sentire
la natura, o di concepire l’istanza dell’opposizione contra
latrones , l’istanza della lotta d’azione
sociale da parte delle classi oppresse contro baroni e padroni di
rinnovata protervia.
Larga
parte della produzione poetica martiniellana si cala in questo
compito non agevole, non immediato: restituire un passato di disagi e
di sofferenze non misurati dall’esterno, vissuti, al contrario
nelle pieghe della carne; e quindi denarcotizzare le coscienze di
oggi. Ed agisce, Martiniello, in virtù di un metalinguaggio che
-esso stesso- risale la corrente della poesia in dialetto
e mutua l’introiezione esclusiva in esempio universale. Qui
interviene una delicata operazione di forgiatura di un logos
antico, di un ethos e
di un epos dal sapore
ancestrale, che si verniciano di contemporaneo, affinché parola e
sottotracce, testo e sottotesto, vengano accettati, assorbiti,
proprio nella finalità che il poièin
crepiti, come filo elettrico scoperto, nell’ego coscienziale dei
fruitori. Questa operazione di mediazione del dialetto in lingua
impegna laboriosamente il poeta di Mirabella Eclano, in uno strenuo,
cimentante scrìbere- delère- polìre ,
che recupera le forme dialettali, ne fa calchi preziosissimi, e
rivivifica il nostro lessico, evidenziandone le diramazioni, le
ricorrenze, la duttilità, le ragioni storiche, le stazioni
culturali.
Il suo è
un vero e proprio laboratorio linguistico, che sperimenta di continuo
questa traslazione dal logos
originario al logos in
uso attuale. Nella dialektos koinè
di Martiniello questa sorta di ricorrente dialetto metonimico
occupa una funzione chiave e, nella scacchiera dei sottintesi, degli
spazi bianchi, della eco immaginifica e feconda, conserva intatto il
suo colore. Attraverso questo dialetto rimodellato, grazie a questa
koinè dalla veste
nuova, si perviene al contatto quasi sinestetico, sensoriale, con il
lato autentico di sé: un recupero dell’atavico, un archetipo che
preme la sua impronta digitale. Quindi la risorsa del sollevare il
coperchio del virtuale orcio che raccoglie, contiene, preserva il
patrimonio mnèstico, nonché i benefici che derivano da quest’azione
indubbiamente sfibrante e coraggiosa di guardare dietro e dentro di
sé.
Nel
filone primario della produzione martiniellana c’è
l’interrogazione del senso del meraviglioso e la descrizione di
un’Arcadia non ancora contaminata; ma subito si sgrana e si
confessa la travagliata appartenenza alla terra bella e amara,
generosa e crudele, coi suoi riti e coi tributi di sofferenza
officiati e pagati con animo corroborato dall’onesto lavorante.
Ecco gli affreschi di vere e proprie cerimonie dell’aia, tempio del
cafone contadino, scanditi da preghiere, scongiuri e da invettive
salaci, agre; ecco le figure chiave del padre intento a fare innesti
nel meleto o ad accudire le arnie; quelle della nonna e della madre,
mule rassegnate e intessute di ferro e di corda, còlte in momenti
chiaroscurali di vita minima esemplare.
Nel
secondo filone, il poeta viaggia per terre di confine prossime e
lontane, col suo cahier de doléance
sotto il braccio, e la punta della caustica lingua che abrade,
sferza, che non sa, non può, non vuole tacere. Giacché il silenzio
suonerebbe vile, sarebbe complice del caos, farebbe il gioco dei
cattivi governanti.
La
poetica di Martiniello approda alla satira politica, irride il
costume, i vizi e i vezzi degli italiani, del Belpaese, dell’umana
gente oin ogni angolo di dove: è come una sublime investitura, dove
la parola in fondo accarezza l’amore schiaffeggiando, guida alla
Ehrliebe anche quando
riprova, tuona, maledice e bestemmia.
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