Non quella discussa degli
entusiasmi scientifici, della popolare eccitazione, dei reprimenda
pontifici, della cauta posizione della bioetica: ad altri e in
opportuna sede lascio aperta la polemica, il dialogo stuzzicante,
tutte le possibili speculazioni mediche, filosofiche e morali.
A ben
differente clonazione alludo: a quella letteraria (o se preferite
illetteraria), poetica (o impoetica), creativa (o anti-creativa).
Tralasciando il manipolo di aspiranti narratori in erba, che tanto
vorrebbero assomigliare ai minimalisti o alla gioventù
cannibale di tempi andati, e che si copiano a
vicenda, malintendendo Bukowsky, Gregory Corso, Kerouac, Burroughs,
Bunker, Easton Ellis, Lethem, Lang (ai cui elaborati non sarebbero in
grado di avvicinarsi neanche lontanamente), occupati come sono a
épater les bourgeois, con un’equivocata trasgressione tutta di
sesso, alcool, violenza e nicotina e un’aria da maudits appiccicata
addosso con lo scotch e una botta di coccoina, veniamo agli
amatissimi poeti, quelli che camminano con una mano in fronte e le
bisacce tintinnanti di medaglie del presidente.
Questi
simpatici e farseschi amici imperversano nell’intero Belpaese, da
nord a sud, e sono croce per gli autentici scrittori, quelli
benedetti dal talento e dalla vorace curiosità di sapere (quelli che
ogni giorno si mettono in discussione, e possono arrivare a
ripudiare, a bruciare i loro carteggi, quando li ritengono indegni
non solo di diffusione, ma di esistenza) e delizia per gli
indissuasibili, metodici organizzatori di concorsi e concorsini.
La genìa
di cui parliamo occupa una posizione intermedia tra gli illusi
arroganti illeggibili e i Poeti, che praticano e studiano poesia,
italiana e straniera, dalla Scuola Siciliana a oggi, e sono
consapevoli di cosa significa stallo o evoluzione.
Collocandosi
nel mezzo di bassezza e altezza, potrebbero aspirare alla perfezione
e alla saggezza di chi applica l’est modus
in rebus; potrebbero farsi araldi dell’in
medio stat virtus.
Invece sono solo dei fossili
inutili, men che mai interessanti.
I loro
versi impressionano le giurie incatramate nei cliché delle cartoline
emotive racchiuse in una cornice finemente intagliata e verniciata
d’oro; sono versi zeppi del rhum della retorica e dell’enfasi più
becere, fanno invidia ai babà in pasticceria. I masticatori di
stoppie li sfornano più indigeribili di una pila di pizze chiene
ammazzarate.
Le signore
e i signori di cui parliamo costituiscono un nutrito gruppo: da
trent’anni propongono le loro maschere seriali, da trent’anni i
vieti giri di valzer e di polka; da trent’anni spremono gli
zuccheri dal famigerato lacrimatoio; ai concorsi di provincia (anche
e soprattutto quando gli sciancati certamina assumono la pompa di
evento culturale di distinzione e si nutrono di lustrini e di
côtillons) ora si classifica l’uno, ora si classifica l’altro.
Sono una
casta vegliarda di imbonitori della parola, si considerano non meno
che onomaturghi, maestri nel toccare le corde emotive delle zitelle e
dei sonnolenti padri di famiglia, impareggiabili nel costruire
cattedrali di schiuma, di trine e di sospiri uguali nell’uno,
uguali nell’altro.
Basta
leggere una sola
poesia di uno solo di
loro, per dire di aver letto tutte quelle
dei compari e delle comari di stampino.
Non sono
però sodali, perché si detestano a vicenda; tantomeno si tratta di
esponenti di alcuna scuola: si sono limitati a depredarsi a vicenda,
a ispirarsi alle relative grandezzate, fino ad acquisire un calco
ornamentale e vuoto impressionante. Cesellano le descrizioni di
ricordi singhiozzanti, sono (o parlano di) genitori o figli eroici
votati al nobile sacrificio, invocano o maledicono (con rispetto e
con prudenza) il Padreterno nel sivo del manierismo boccalone,
s’imbellettano persino di rivendicazioni sociali, si piangono
emigrati con la coppolella e la valigia tenuta insieme con un ruvido
spago.
Non hanno
visto una vanga, un puntello minerario, né si sono mai seduti alla
catena di montaggio di una fabbrica teutonica o britannica.
Rappresentano
le star depositarie di un (farloppo) bagaglio sapienziale e
battesimale, mito per le giurie di professori di latino sottaceto,
per giornalisti free-lance di parrocchia, per artritiche maestre
elementari, per accademici che a stento arrivano a leggere Gozzano, e
che a loro volta scrivono ancora oggi come all’epoca di Leopardi,
ma senza averne l’imperituro genio.
Ho dato in
lettura a un mio brillante allievo, versificatore precoce e di
autonoma personalità, dei testi pervenuti ad un Premio che gode di
prestigio, e gli ho chiesto di darmi un parere.
Dopo
qualche giorno, il giovanotto, allargando le braccia, ha riferito di
aver nutrito il sospetto che i lavori fossero tutti opera di un unico
autore, tenendo conto della rancida identica sgranatura di contenuti,
della monotona diligenza con cui, attraverso il medesimo schema, il
medesimo stile, le prevedibilissime cadenze, s’imbrattavano di
sentimentalismo rococò il bavero della giacca o l’orlo della
gonna.
Una
sconfinata tristezza sopraggiunge quando prendiamo atto che essi
continueranno a montare sulla sola giostra che conoscono, a esibire
dubbi privilegi di casta e di penna; continueranno a produrre fasulla
poesia non capendo nulla della Poesia, quella con la P maiuscola,
ignari dell’esistenza di uomini, donne e opere pregevoli, profonde
e complesse, nel panorama letterario autentico, che cresce e cambia
perché è un organismo vivo.
Ciao,
cloni. Purtroppo arrivederci, e non addio.
ARMANDO SAVERIANO
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