È, dei
sentimenti umani, delle umane passioni,
tra i più temuti, esecrati, condannati, per la veemenza con cui, a
torto o a ragione, si esplicita. L’ira, ribollente peccato
capitale, suscita allarme, diventa agli occhi inorriditi dello
spettatore reazione macroscopica, dal ciclonico impeto, che riesce
addirittura incomprensibile, anche se a monte ci sono il più grave
dei torti, la più nefanda delle nequizie, ad essere stati
perpetrati. L’ira fa paura proprio perché chi ne è posseduto non
ha più alcuna paura di varcare il limite stabilito dalle convenzioni
civili.
Dante
Alighieri colloca gli iracondi nel cerchio V dell’Inferno e nel
Girone III del Purgatorio. Del Pelide
Achille si cantò l’ira funesta. In Dio è
la Summa del Castigo, l’esercizio della giustizia punitrice nella
nota sequenza liturgica del Dies Irae, il giorno del giudizio (ma
provate a traslare l’espressione nel temibile Deus
Irae… che a sua volta evolve nel lugubre,
minaccioso Mia è la Vendetta!).
Quando è
un nume ad essere invasato da questa tempesta perfetta si crea
immediatamente una reazione di timorosa tolleranza, un atteggiamento
di giustifica complice, un tantino autolesionista, di fronte
all’inevitabilità dei fulmini e dei tuoni. Se però si tratta di
un uomo comune, non di un eroe delle vecchie e moderne mitologie, non
di un paladino fuor di ogni contesto temporale, non di un soldato
(categorie quasi elettivamente vocate all’applicazione del codice
etico dell’onore,
che impone la vendetta
per un presunto o oggettivo affronto intollerabile, un torto
indicibile, uno spregevole atto delittuoso, pena il marchio della
codardìa e della
svirilizzazione),
allora ecco l’opinione pubblica insorgere, mobilitarsi sconvolta,
creargli il vuoto attorno, isolarlo in una bolla pregiudizievole e
banalmente manichea, rigorista. La società respinge gli iracondi
perché sono imprevedibili, ingovernabili; eppure viviamo in una
realtà storica dell’Ira, dove basta la minima provocazione per
scatenare rabbiose repliche, o sanguinose faide, dove il malgoverno
rafforza le insicurezze, esaspera i conflitti, prepara rivoluzioni.
L’ira
insorge a vari livelli e con differente gradazione: chi di noi non ne
è stato toccato, a meno che non sia un santo o un atarassico, un
imperturbabile? Quando ci vediamo o ci consideriamo vittima di una
deflagrante sopraffazione, bersaglio mirato di soprusi; quando
veniamo o ci sentiamo umiliati, non rispettati, soffocati,
intralciati, dileggiati, profondamente incompresi e trascurati,
traditi per far posto ad altri, manipolati, vessati da un cerchio di
calunnie abilmente orchestrate…Ecco, allora siamo preda del furore,
dello spirito dell’Ira, che pilota ogni pulsione distruttiva.
L’ira, quando attacca, è tellurica, s’impenna come uno tsunami,
difficilmente può essere mitigata, sedata, o addirittura fermata;
dilaga nell’organismo come un magma, come mercurio impazzito,
piombo fuso, come tequila o stracciabudella a tasso alcolico
impensabile; è un’energia pura, indistruttibile, che trasforma
l’umano in bestiale. Sicché può portare a conseguenze devastanti.
Ma la
sua immoralità si specchia nell’immoralità di chi intenderebbe
con ogni mezzo estirparla, chiamando in causa la scienza del
condizionamento,
avendo fallito la pedagogia e la pena giudiziaria come deterrente.
L’ira irrefrenabile è però su tutt’altro piano rispetto al
rancore, che cova incognito, macera nella capsula del silenzio,
portando all’odio inevitabile,
che è freddo, ragionato, durevole. L’ira è un sentimento
“sincero”, non si dà a calcoli, allenta i freni inibitori,
essendo pulsionale cancella timori, tira di lato la paura: è
impavido. A differenza di rancore e odio che simulano, si nutrono di
ostilità meditata, in attesa del momento propizio, dell’occasione
nociva per estrinsecarsi, per onorare il gelido altare di un’algida
vendetta. Odio e rancore, insomma, sono mascherati dall’atteggiamento
di chi ha un deciso controllo psicosomatico: sono congegni
autoprogrammati, macchine dell’intelletto emotivo. L’ira esplode
immediata, senza indugi, è un disco di fuoco che rotola, rimbalza,
lingueggia, ruggisce. Il volto dell’iracondo è erubescente, la sua
lingua è secca o secerne abbondante saliva acida, gli occhi
strabuzzano, le mani si protendono ad artiglio, i pugni battono
contro mura o picchiano sugli oggetti, il corpo visibilmente in
tensione trema, suda diaccio, ha contrazioni frequenti di muscoli, le
palpebre vibrano, il tono della voce s’impenna, la lingua slitta,
s’inceppa, i denti digrignano, tutto l’inverso della fredda
collera introiettata, che al massimo palesa un irrigidimento, un
pallore verdaceo, lo stiramento delle labbra in un segmento esangue,
cattivo.
L’ira ha
radici psico-antropologiche molto antiche, assai profonde; obbedisce
all’impulso di assertività, quando avverte minata…o compromessa
la dignità dell’immagine pubblica.
Epure
essa rappresenta, imprevedibilmente, un beneficio, gioca il suo ruolo
nel riposizionamento degli equilibri; contiene un’economia
compensativa, risarcisce del danno patito, produce fiducia,
autostima; imprime una spinta in avanti, favorisce il movimento
strategico finalizzato a lavare l’onta, a pareggiare i conti,
magari con l’aggravio degli interessi, ha sete di riscatto, aguzza
il cervello. Dà il giro di chiavetta a una sorta di volontà di
potenza. Considerata questa ottica, l’ira è una
risorsa. Non voglio assolutamente farne apologia: depreco le azioni
belluine e la ferocia assoluta; quando però essa stimola una
“risposta” brutale, ma arguta, che non lede la carne, ma abrade
lo spirito dell’offensore, allora è da ritenersi addirittura una
leva convogliata a vantaggio della creatività, spinge l’offeso
intelligente ed estroso a reagire con affilato, succulento ingegno
mefitico.
Per
esempio, invece di rovesciare sulla testa dell’offensore, del Caìno
infame, il contenuto di un’intera tanica di benzina, far scattare
allegramente l’accendino e restarsene a godere il rosolante
risultato…invece di fasciargli la gola con una stretta finalizzata
allo schiacciamento della carotide…invece di estrarre una
rivoltella dalla tasca e vuotare il caricatore in quella
trippa…ecco che si ricorre al dileggio maciullante, all’invettiva
maleolenta, alla vignetta dissezionatrice a crudo, priva di scrupoli,
di remore, di riserve, facendo rimbombare la rauca, stentorea
sghignazzata che percuote più di un signor manrovescio affibbiato da
un formidabile lanciatore di martello o da un bisonte del sumo.
Ecco
perché, elaborando l’ira motivata da una serie impressionante di
perfidie a mio danno nel mondo privato e del lavoro, nella sezione
dell’Estroso strale,
in Malalengua (“Il
nettare e la Musa”, in corso di stampa per i tipi di Per Versi), io
mi prendo tutto quanto il gusto di dedicare piccante exergo
ai miei detrattori, ai boriosi emeriti intellettuali tutti d’un
pezzo (di merda), agli screanzati, scorretti soloni di una cultura
maccheronica, spergiuri e marioli, alla sfilza di ipocrite beghine
corrotte e depravate sui ribaltabili dei Suv e nell’intimità
galeotta di letterecci trastulli fedifraghi, ringraziando per aver
carburato doviziosamente il mio motore impertinente e salace.
ARMANDO SAVERIANO
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