martedì 26 febbraio 2013

Meglio l'ira che il rancore


È, dei sentimenti umani, delle umane passioni, tra i più temuti, esecrati, condannati, per la veemenza con cui, a torto o a ragione, si esplicita. L’ira, ribollente peccato capitale, suscita allarme, diventa agli occhi inorriditi dello spettatore reazione macroscopica, dal ciclonico impeto, che riesce addirittura incomprensibile, anche se a monte ci sono il più grave dei torti, la più nefanda delle nequizie, ad essere stati perpetrati. L’ira fa paura proprio perché chi ne è posseduto non ha più alcuna paura di varcare il limite stabilito dalle convenzioni civili.
Dante Alighieri colloca gli iracondi nel cerchio V dell’Inferno e nel Girone III del Purgatorio. Del Pelide Achille si cantò l’ira funesta. In Dio è la Summa del Castigo, l’esercizio della giustizia punitrice nella nota sequenza liturgica del Dies Irae, il giorno del giudizio (ma provate a traslare l’espressione nel temibile Deus Irae… che a sua volta evolve nel lugubre, minaccioso Mia è la Vendetta!).
Quando è un nume ad essere invasato da questa tempesta perfetta si crea immediatamente una reazione di timorosa tolleranza, un atteggiamento di giustifica complice, un tantino autolesionista, di fronte all’inevitabilità dei fulmini e dei tuoni. Se però si tratta di un uomo comune, non di un eroe delle vecchie e moderne mitologie, non di un paladino fuor di ogni contesto temporale, non di un soldato (categorie quasi elettivamente vocate all’applicazione del codice etico dell’onore, che impone la vendetta per un presunto o oggettivo affronto intollerabile, un torto indicibile, uno spregevole atto delittuoso, pena il marchio della codardìa e della svirilizzazione), allora ecco l’opinione pubblica insorgere, mobilitarsi sconvolta, creargli il vuoto attorno, isolarlo in una bolla pregiudizievole e banalmente manichea, rigorista. La società respinge gli iracondi perché sono imprevedibili, ingovernabili; eppure viviamo in una realtà storica dell’Ira, dove basta la minima provocazione per scatenare rabbiose repliche, o sanguinose faide, dove il malgoverno rafforza le insicurezze, esaspera i conflitti, prepara rivoluzioni.
L’ira insorge a vari livelli e con differente gradazione: chi di noi non ne è stato toccato, a meno che non sia un santo o un atarassico, un imperturbabile? Quando ci vediamo o ci consideriamo vittima di una deflagrante sopraffazione, bersaglio mirato di soprusi; quando veniamo o ci sentiamo umiliati, non rispettati, soffocati, intralciati, dileggiati, profondamente incompresi e trascurati, traditi per far posto ad altri, manipolati, vessati da un cerchio di calunnie abilmente orchestrate…Ecco, allora siamo preda del furore, dello spirito dell’Ira, che pilota ogni pulsione distruttiva. L’ira, quando attacca, è tellurica, s’impenna come uno tsunami, difficilmente può essere mitigata, sedata, o addirittura fermata; dilaga nell’organismo come un magma, come mercurio impazzito, piombo fuso, come tequila o stracciabudella a tasso alcolico impensabile; è un’energia pura, indistruttibile, che trasforma l’umano in bestiale. Sicché può portare a conseguenze devastanti.
Ma la sua immoralità si specchia nell’immoralità di chi intenderebbe con ogni mezzo estirparla, chiamando in causa la scienza del condizionamento, avendo fallito la pedagogia e la pena giudiziaria come deterrente. L’ira irrefrenabile è però su tutt’altro piano rispetto al rancore, che cova incognito, macera nella capsula del silenzio, portando all’odio inevitabile, che è freddo, ragionato, durevole. L’ira è un sentimento “sincero”, non si dà a calcoli, allenta i freni inibitori, essendo pulsionale cancella timori, tira di lato la paura: è impavido. A differenza di rancore e odio che simulano, si nutrono di ostilità meditata, in attesa del momento propizio, dell’occasione nociva per estrinsecarsi, per onorare il gelido altare di un’algida vendetta. Odio e rancore, insomma, sono mascherati dall’atteggiamento di chi ha un deciso controllo psicosomatico: sono congegni autoprogrammati, macchine dell’intelletto emotivo. L’ira esplode immediata, senza indugi, è un disco di fuoco che rotola, rimbalza, lingueggia, ruggisce. Il volto dell’iracondo è erubescente, la sua lingua è secca o secerne abbondante saliva acida, gli occhi strabuzzano, le mani si protendono ad artiglio, i pugni battono contro mura o picchiano sugli oggetti, il corpo visibilmente in tensione trema, suda diaccio, ha contrazioni frequenti di muscoli, le palpebre vibrano, il tono della voce s’impenna, la lingua slitta, s’inceppa, i denti digrignano, tutto l’inverso della fredda collera introiettata, che al massimo palesa un irrigidimento, un pallore verdaceo, lo stiramento delle labbra in un segmento esangue, cattivo.
L’ira ha radici psico-antropologiche molto antiche, assai profonde; obbedisce all’impulso di assertività, quando avverte minata…o compromessa la dignità dell’immagine pubblica.
Epure essa rappresenta, imprevedibilmente, un beneficio, gioca il suo ruolo nel riposizionamento degli equilibri; contiene un’economia compensativa, risarcisce del danno patito, produce fiducia, autostima; imprime una spinta in avanti, favorisce il movimento strategico finalizzato a lavare l’onta, a pareggiare i conti, magari con l’aggravio degli interessi, ha sete di riscatto, aguzza il cervello. Dà il giro di chiavetta a una sorta di volontà di potenza. Considerata questa ottica, l’ira è una risorsa. Non voglio assolutamente farne apologia: depreco le azioni belluine e la ferocia assoluta; quando però essa stimola una “risposta” brutale, ma arguta, che non lede la carne, ma abrade lo spirito dell’offensore, allora è da ritenersi addirittura una leva convogliata a vantaggio della creatività, spinge l’offeso intelligente ed estroso a reagire con affilato, succulento ingegno mefitico.
Per esempio, invece di rovesciare sulla testa dell’offensore, del Caìno infame, il contenuto di un’intera tanica di benzina, far scattare allegramente l’accendino e restarsene a godere il rosolante risultato…invece di fasciargli la gola con una stretta finalizzata allo schiacciamento della carotide…invece di estrarre una rivoltella dalla tasca e vuotare il caricatore in quella trippa…ecco che si ricorre al dileggio maciullante, all’invettiva maleolenta, alla vignetta dissezionatrice a crudo, priva di scrupoli, di remore, di riserve, facendo rimbombare la rauca, stentorea sghignazzata che percuote più di un signor manrovescio affibbiato da un formidabile lanciatore di martello o da un bisonte del sumo.
Ecco perché, elaborando l’ira motivata da una serie impressionante di perfidie a mio danno nel mondo privato e del lavoro, nella sezione dell’Estroso strale, in Malalengua (“Il nettare e la Musa”, in corso di stampa per i tipi di Per Versi), io mi prendo tutto quanto il gusto di dedicare piccante exergo ai miei detrattori, ai boriosi emeriti intellettuali tutti d’un pezzo (di merda), agli screanzati, scorretti soloni di una cultura maccheronica, spergiuri e marioli, alla sfilza di ipocrite beghine corrotte e depravate sui ribaltabili dei Suv e nell’intimità galeotta di letterecci trastulli fedifraghi, ringraziando per aver carburato doviziosamente il mio motore impertinente e salace.

ARMANDO SAVERIANO

Nessun commento:

Posta un commento