Se nel
passato imperversavano i penny dreadful,
le dispense interminabili vendute per un soldino in cambio del
brivido facile e del sospiro languido di fanciulle in fiore e
sfiorite matrone borghesi, cameriere e baby sitter, fascicoletti che
ancora appassionerebbero –ne siamo sicuri– lettrici e lettori
patiti delle saghe, adesso abbiamo i fumetti a puntate, soprattutto
manga, i romanzi a
ondate di Stephanie Meyers,
di Charlaine Harris,
mentre sul Grande Schermo si infittiscono i sequel fuori di conto di
Twilight et similia:
scie snodatissime di volumi e lungometraggi che si guardano bene dal
mollare “l’affare”.
Ma il
vampiro adolescente o per adolescenti ha avuto, cinematograficamente,
esempi assai più interessanti e di spessore, purtroppo
sottovalutati, che andrebbero invece riproposti per un’acuta
analisi risarcitrice: innanzitutto Near Dark
(Il buio si avvicina),
di Kathryn Bigelow, e
–dello stesso anno, il 1987– Lost Boys
(Ragazzi perduti) di
Joel Schumacher.
Mentre la Bigelow insiste sul modello sociale freak
e sulle atmosfere on the road,
con famiglia atipica in camper “protetto”, fra solidarietà e
contrasti, e tutta una popolazione di camionisti, avventori di motel
trash, ragazzotte in jeans sgambati, sgangherati locali di
frontiera, rednecks,
Schumacher punta su un tentativo di commistione, non sempre riuscito,
tra commedia e horror adrenalinico. Risultato che arrideva a Fright
Night (Ammazzavampiri),
di Tom Holland, due
anni prima (1985), con il tripudio degli effetti speciali di Richard
Edlund, e grazie al cast azzeccato: Roddy
McDowal, caratterista formidabile, William
Ragsdale e un sensuale/letale Chris
Sarandon (scaltro prosciugapupe
gotico-metropolitano della villetta accanto). A volo radente
aggiungo, per un target adulto, la fortunata soap opera del vampiro
Barnaba Collins (al
secolo Jonathan Frid),
Dark Shadows,
condensata in due lungometraggi, il primo del 1970, La
Casa Dei Vampiri, regia di Dan
Curtis (memorabile l’invecchiamento di
Barnaba/Frid, in virtù
di tecniche e talenti del tostissimo make-up artist Dick
Smith, che si rifece allo stesso eccellente
procedimento usato per/su Dustin Hoffman in
Little Big Man di
Arthur Penn), il
secondo, recentissimo, su altri piani e registri di godibilità, con
lo strabiliante Johnny Depp,
le patinate Eva Green e
Michelle Pfeiffer. Tornando
alla letteratura, dicevo dei precursori del Dracula stokeriano D.O.C. Il vero
antesignano, secondo molti, è il Ruthven di
John William Polidori,
che nel tracciarne il profilo si sarebbe ispirato all’amico (anche
amante, dicono alcuni) Byron;
il romanzo apparve nel 1819, o giù di lì, con il titolo Il
Vampiro, e ci presenta un modello diabolico,
esasperante, maudit-salottiero in voga all’epoca, che cozza con il
pallidissimo, alto, segaligno, dinoccolato, angoscioso, lascivo
Varney del romanzo
fiume vittoriano a dispense, finalmente riscoperto. Non sono
il solo a preferire la Carmilla
(1872) di Joseph Sheridan Le Fanu,
le cui implicazioni saffiche ante litteram sarebbero state trascinate
all’eccesso (ovviamente per i tempi), a cinema, ne Il
Sangue e La Rosa (1960 -insopportabile,
pecoreccio il titolo originale: …Et mourir
de plaisir), di Roger
Vadim, all’epoca invaghito della bella
Annette Stroyberg,
inutile attrice, surclassata nella sua nullità solo da Elsa
Martinelli (al confronto di entrambe, Mel
Ferrer appare il delfino della Comèdie
Française). Nel
lontano 1999, la Mondadori pubblicò un elegante volume antologico,
che segnalo a tutti coloro che volessero mettersene alla
(ardimentosa) ricerca nelle librerie antiquarie o sulle spesso
sorprendenti bancarelle dell’usato: The
Ultimate Dracula. In copertina, una esplicita
immagine tratta dalla tavola Un castello in
Transilvania dell’artista fantasy Frank
Frazetta. Tanti gli autori, e tutti di rispetto: Philip
Josè Farmer, Dan Simmons, Anne Rice, Mike
Resnick, Janet Asimov, John Lutz etc. etc. I
continuatori sprigionano la loro inventiva, manipolano leggenda e
tradizione, senza tradire icone, atmosfere e suggestioni,
trasportando semmai Vlad Tepes/Dracula nel 1944 a
Bergen-Belsen, in clima di soluzione finale (Dracula
1944, Edward D. Hoch); proiettando l’attore cult
morfinomane Bela Lugosi dal set hollywoodiano dell’Universal
sui Carpazi, al cospetto dell’Impalatore (La posta in
palio, Kevin J. Anderson); donandoci un nosferatu
haitiano, un sinistro monsieur, non meno deleterio dei
famigerati ton-ton macoute, accudito da doakah Jones,
il via via sbigottito, terrorizzato, poi ingurgitato e
digerito medico della clinica locale (L’ombra della morte,
W. R. Philbrick; barando con i riferimenti eruditi del
ribattezzato Ruthven Byron, attore flâneur che sorseggia
martini, guida jaguar, corteggia opulente scrittrici brune, e non
rinuncia a far giustizia per impuniti delitti, snudate le zanne
(Sogni di Vampiro, Dick Lochte); ferendoci oltre misura
con un crudelissimo spaccato (pagine agghiaccianti!) della Bucarest
post regime dei Ceausescu, attraverso un dedalo di orrori:
villaggi rasi al suolo, o inquinati irrimediabilmente da oscuri
complessi industriali, orfanotrofi-lager, dove piccini ridotti pelle
e ossa dall’incuria e dall’Aids vengono sostentati da
infermiere-virago, atrofiche emotive, ispide e spicce distributrici
di iniezioni non sterilizzate e di bottigliole di sangue di ambigui
donatori adulti (il “latte” energetico dei bambini!); passando
per capannoni-obitorio affollati di cadaveri straziati, amputati,
violati, di corpi seviziati e trucidati dalle belve della Securitate…
vecchi inermi, adolescenti imbrigliati nel filo spinato, giovani
donne incinte col ventre squarciato e il feto riverso sulle cosce
(Tutti i figli di Dracula, Dan Simmons). Intanto, non perdiamo di vista il buon Varney,
invenzione furbesca della cosiddetta “letteratura da due soldi”,
smerciata con gran fortuna sotto forma di opuscoli, tra il 1845 e il
1847, attribuita tanto a tal James Malcom Rymer quanto a tal
Thomas Preskett Prest (firme fittizie dietro cui si celava
probabilmente un’alternanza di scribacchini frenetici, facenti capo
alla cosiddetta Salisbury Square School of Fiction, un po’
come accadeva per Oss117, Nick Carter/Sterminio, e come
accade per Malko Linge su Segretissimo Mondadori).
L’Inghilterra di metà ottocento era avvezza alle pubblicazioni
seriali, che vendevano benone sul mercato vittoriano, giovandosi
della nascente alfabetizzazione nelle classi medio-basse; era, non
dimentichiamolo, l’epoca di uno dei più grandi e intramontabili
scrittori mondiali, Charles Dickens, capace di stregare
generazioni con i suoi capolavori, ancora oggi letti e in bella
mostra nelle nostre biblioteche domestiche (assieme, almeno per
quanto personalmente mi riguarda, a Jane Austen e alle sorelle
Brontë). Varney the Vampire, or The Feast of Blood
(Varney il Vampiro, o Il Banchetto di Sangue) è la tipica
vicenda ingarbugliata, zeppa di cascami gotici e di ambientazioni
medievali, tesa a sensazionalizzare l’azione, il mistero, il
soprannaturale, la passione erotica e il gusto macabro per l’abnorme,
il ridondante. La storia è più confusa che complicata, risente
della (studiata) dilatazione fino all’inverosimile, per cui
fatalmente pecca in coerenza di trama e in spendibilità di
personaggi, che scompaiono dal narrato o vengono propinati in
versioni contraddittorie, comunque abbozzati (le descrizioni
indulgono, al contrario, sulle grazie delle belle vittime discinte e
dormienti, alla mercè dei canini dell’umbraceo mordicollo, o su
tetre location, su particolari ritenuti raccapriccianti). La
scrittura è il contrario esatto delle cesellature di Le Fanu:
gli autori badavano a scervellarsi per rendere i colpi di scena
irresistibili e indurre la gente alla fedeltà nell’acquisto; non
potevano lavorare di fino, e forse non ne sarebbero stati
all’altezza. Eppure il romanzone squinternato conserva un
innegabile attrait, al punto che io stesso ne consiglio la
lettura. Come? Rivolgendosi alla meritoria Casa Editrice Gargoyle
Books, che lo ha ristampato in tre tomi nel 2010. Dovrebbe
circolare ancora un succinto libriccino, con la copertina originale,
e tre smilzi episodi intitolati con i nomi di battesimo di
altrettante vampirizzate in camicia da notte. È in mio possesso, ma
al momento non l’ho sottomano per dare maggiori informazioni
(trascurabili, a conti fatti). Romanzo e
protagonista si fanno piacere: diciamo che affezionano quel lettore
che non si scoraggia di fronte a un migliaio di pagine, tra
stereotipi kitsch, sobbalzi di scene, suspense di maniera, sequenze
rocambolesche, qualche inattesa elucubrazione vampirica sulla
triste/trista condizione di immortale solo, infelice, fatale
predatore di gentili, mulíebri membra inermi. Ahi-ahi!
Bisogna pur vivere, ma a che vale vivere una non
vita così? Lo stile
nient’affatto impeccabile, caracollante anziché no, si fa comunque
perdonare; anzi attrae, diletta, conquista (leggere per credere!),
come le sceneggiature e i dialoghi lessicalmente e sintatticamente
frettolosi e incerti del Max Bunker
di Kriminal e
Satanik dell’eroica maison
Editoriale Corno (considero Riccardo
Secchi un maestro unico e inimitabile, che mi
ha cresciuto negli anni verdi di un’adolescenza ormai contemplabile
dal binocolo rovesciato; che io ho seguìto e seguo con accanimento;
che ha deliziato e delizia ancora i miei pomeriggi e le serate). Diamo a
Varney quel che è di Varney e a Dracula quel che è di Dracula.
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