domenica 24 febbraio 2013

A Varney quel che è di Varney

Una passeggiata col vampiro

Dracula di Bram Stoker ha avuto dei precursori: alcuni illustri, altri un po’ meno. Tutti però rappresentativi, e che è ingiusto impacchettare nel dimenticatoio. Il mito ha peraltro innumerevoli epigoni, anch’essi in larga parte sconosciuti, poco conosciuti in Europa e in Italia o messi sotto aceto su scaffali troppo in alto per essere raggiunti dallo sguardo avido e curioso degli appassionati.
La spettrale figura del non morto, complice il grande cinema pioniere, con Nosferatu, Eine Symphonie Des Grauens, di Friedrich Wilhelm Murnau (chi può scordare la maschera spaventevole del cadaverico Max Schrech? Terrorizza ancor oggi chi vede la pellicola restaurata) e con il metafisico, onirico, inquietante Vampyr, di Carl Theodor Dreyer, ha suscitato da sempre –e continua a farlo– una morbosa fascinazione anche in coloro che sbocconcellano aria di sufficienza, ostentano schizzinosità. Oggi il vampiro gode di salute invidiabile, circola in aperto sole senza temere disintegrazioni, occupa la cima di una classifica boom, che condivide solo con gli zombie, nella letteratura popolare e nel cinema di ampio consumo (pur aprendosi una pista di rispetto nel campo autoriale, mainstream) rivolti ad un target folto, crescente: il branco adolescenziale, che adora i temi del ribellismo, del gap fra le generazioni, del conflitto domestico, della diversità dannata e eroica, della storia romantica e impossibile, con l’innesto del dark moderatamente gore.

Se nel passato imperversavano i penny dreadful, le dispense interminabili vendute per un soldino in cambio del brivido facile e del sospiro languido di fanciulle in fiore e sfiorite matrone borghesi, cameriere e baby sitter, fascicoletti che ancora appassionerebbero –ne siamo sicuri– lettrici e lettori patiti delle saghe, adesso abbiamo i fumetti a puntate, soprattutto manga, i romanzi a ondate di Stephanie Meyers, di Charlaine Harris, mentre sul Grande Schermo si infittiscono i sequel fuori di conto di Twilight et similia: scie snodatissime di volumi e lungometraggi che si guardano bene dal mollare “l’affare”.
Ma il vampiro adolescente o per adolescenti ha avuto, cinematograficamente, esempi assai più interessanti e di spessore, purtroppo sottovalutati, che andrebbero invece riproposti per un’acuta analisi risarcitrice: innanzitutto Near Dark (Il buio si avvicina), di Kathryn Bigelow, e –dello stesso anno, il 1987– Lost Boys (Ragazzi perduti) di Joel Schumacher. Mentre la Bigelow insiste sul modello sociale freak e sulle atmosfere on the road, con famiglia atipica in camper “protetto”, fra solidarietà e contrasti, e tutta una popolazione di camionisti, avventori di motel trash, ragazzotte in jeans sgambati, sgangherati locali di frontiera, rednecks, Schumacher punta su un tentativo di commistione, non sempre riuscito, tra commedia e horror adrenalinico. Risultato che arrideva a Fright Night (Ammazzavampiri), di Tom Holland, due anni prima (1985), con il tripudio degli effetti speciali di Richard Edlund, e grazie al cast azzeccato: Roddy McDowal, caratterista formidabile, William Ragsdale e un sensuale/letale Chris Sarandon (scaltro prosciugapupe gotico-metropolitano della villetta accanto). A volo radente aggiungo, per un target adulto, la fortunata soap opera del vampiro Barnaba Collins (al secolo Jonathan Frid), Dark Shadows, condensata in due lungometraggi, il primo del 1970, La Casa Dei Vampiri, regia di Dan Curtis (memorabile l’invecchiamento di Barnaba/Frid, in virtù di tecniche e talenti del tostissimo make-up artist Dick Smith, che si rifece allo stesso eccellente procedimento usato per/su Dustin Hoffman in Little Big Man di Arthur Penn), il secondo, recentissimo, su altri piani e registri di godibilità, con lo strabiliante Johnny Depp, le patinate Eva Green e Michelle PfeifferTornando alla letteratura, dicevo dei precursori del Dracula stokeriano D.O.C. Il vero antesignano, secondo molti, è il Ruthven di John William Polidori, che nel tracciarne il profilo si sarebbe ispirato all’amico (anche amante, dicono alcuni) Byron; il romanzo apparve nel 1819, o giù di lì, con il titolo Il Vampiro, e ci presenta un modello diabolico, esasperante, maudit-salottiero in voga all’epoca, che cozza con il pallidissimo, alto, segaligno, dinoccolato, angoscioso, lascivo Varney del romanzo fiume vittoriano a dispense, finalmente riscoperto. Non sono il solo a preferire la Carmilla (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu, le cui implicazioni saffiche ante litteram sarebbero state trascinate all’eccesso (ovviamente per i tempi), a cinema, ne Il Sangue e La Rosa (1960 -insopportabile, pecoreccio il titolo originale: …Et mourir de plaisir), di Roger Vadim, all’epoca invaghito della bella Annette Stroyberg, inutile attrice, surclassata nella sua nullità solo da Elsa Martinelli (al confronto di entrambe, Mel Ferrer appare il delfino della Comèdie Française). Nel lontano 1999, la Mondadori pubblicò un elegante volume antologico, che segnalo a tutti coloro che volessero mettersene alla (ardimentosa) ricerca nelle librerie antiquarie o sulle spesso sorprendenti bancarelle dell’usato: The Ultimate Dracula. In copertina, una esplicita immagine tratta dalla tavola Un castello in Transilvania dell’artista fantasy Frank FrazettaTanti gli autori, e tutti di rispetto: Philip Josè Farmer, Dan Simmons, Anne Rice, Mike Resnick, Janet Asimov, John Lutz etc. etc. I continuatori sprigionano la loro inventiva, manipolano leggenda e tradizione, senza tradire icone, atmosfere e suggestioni, trasportando semmai Vlad Tepes/Dracula nel 1944 a Bergen-Belsen, in clima di soluzione finale (Dracula 1944, Edward D. Hoch); proiettando l’attore cult morfinomane Bela Lugosi dal set hollywoodiano dell’Universal sui Carpazi, al cospetto dell’Impalatore (La posta in palio, Kevin J. Anderson); donandoci un nosferatu haitiano, un sinistro monsieur, non meno deleterio dei famigerati ton-ton macoute, accudito da doakah Jones, il via via sbigottito, terrorizzato, poi ingurgitato e digerito medico della clinica locale (L’ombra della morte, W. R. Philbrick; barando con i riferimenti eruditi del ribattezzato Ruthven Byron, attore flâneur che sorseggia martini, guida jaguar, corteggia opulente scrittrici brune, e non rinuncia a far giustizia per impuniti delitti, snudate le zanne (Sogni di Vampiro, Dick Lochte); ferendoci oltre misura con un crudelissimo spaccato (pagine agghiaccianti!) della Bucarest post regime dei Ceausescu, attraverso un dedalo di orrori: villaggi rasi al suolo, o inquinati irrimediabilmente da oscuri complessi industriali, orfanotrofi-lager, dove piccini ridotti pelle e ossa dall’incuria e dall’Aids vengono sostentati da infermiere-virago, atrofiche emotive, ispide e spicce distributrici di iniezioni non sterilizzate e di bottigliole di sangue di ambigui donatori adulti (il “latte” energetico dei bambini!); passando per capannoni-obitorio affollati di cadaveri straziati, amputati, violati, di corpi seviziati e trucidati dalle belve della Securitate… vecchi inermi, adolescenti imbrigliati nel filo spinato, giovani donne incinte col ventre squarciato e il feto riverso sulle cosce (Tutti i figli di Dracula, Dan Simmons). Intanto, non perdiamo di vista il buon Varney, invenzione furbesca della cosiddetta “letteratura da due soldi”, smerciata con gran fortuna sotto forma di opuscoli, tra il 1845 e il 1847, attribuita tanto a tal James Malcom Rymer quanto a tal Thomas Preskett Prest (firme fittizie dietro cui si celava probabilmente un’alternanza di scribacchini frenetici, facenti capo alla cosiddetta Salisbury Square School of Fiction, un po’ come accadeva per Oss117, Nick Carter/Sterminio, e come accade per Malko Linge su Segretissimo Mondadori). L’Inghilterra di metà ottocento era avvezza alle pubblicazioni seriali, che vendevano benone sul mercato vittoriano, giovandosi della nascente alfabetizzazione nelle classi medio-basse; era, non dimentichiamolo, l’epoca di uno dei più grandi e intramontabili scrittori mondiali, Charles Dickens, capace di stregare generazioni con i suoi capolavori, ancora oggi letti e in bella mostra nelle nostre biblioteche domestiche (assieme, almeno per quanto personalmente mi riguarda, a Jane Austen e alle sorelle Brontë). Varney the Vampire, or The Feast of Blood (Varney il Vampiro, o Il Banchetto di Sangue) è la tipica vicenda ingarbugliata, zeppa di cascami gotici e di ambientazioni medievali, tesa a sensazionalizzare l’azione, il mistero, il soprannaturale, la passione erotica e il gusto macabro per l’abnorme, il ridondante. La storia è più confusa che complicata, risente della (studiata) dilatazione fino all’inverosimile, per cui fatalmente pecca in coerenza di trama e in spendibilità di personaggi, che scompaiono dal narrato o vengono propinati in versioni contraddittorie, comunque abbozzati (le descrizioni indulgono, al contrario, sulle grazie delle belle vittime discinte e dormienti, alla mercè dei canini dell’umbraceo mordicollo, o su tetre location, su particolari ritenuti raccapriccianti). La scrittura è il contrario esatto delle cesellature di Le Fanu: gli autori badavano a scervellarsi per rendere i colpi di scena irresistibili e indurre la gente alla fedeltà nell’acquisto; non potevano lavorare di fino, e forse non ne sarebbero stati all’altezza. Eppure il romanzone squinternato conserva un innegabile attrait, al punto che io stesso ne consiglio la lettura. Come? Rivolgendosi alla meritoria Casa Editrice Gargoyle Books, che lo ha ristampato in tre tomi nel 2010. Dovrebbe circolare ancora un succinto libriccino, con la copertina originale, e tre smilzi episodi intitolati con i nomi di battesimo di altrettante vampirizzate in camicia da notte. È in mio possesso, ma al momento non l’ho sottomano per dare maggiori informazioni (trascurabili, a conti fatti). Romanzo e protagonista si fanno piacere: diciamo che affezionano quel lettore che non si scoraggia di fronte a un migliaio di pagine, tra stereotipi kitsch, sobbalzi di scene, suspense di maniera, sequenze rocambolesche, qualche inattesa elucubrazione vampirica sulla triste/trista condizione di immortale solo, infelice, fatale predatore di gentili, mulíebri membra inermi. Ahi-ahi! Bisogna pur vivere, ma a che vale vivere una non vita così? Lo stile nient’affatto impeccabile, caracollante anziché no, si fa comunque perdonare; anzi attrae, diletta, conquista (leggere per credere!), come le sceneggiature e i dialoghi lessicalmente e sintatticamente frettolosi e incerti del Max Bunker di Kriminal e Satanik dell’eroica maison Editoriale Corno (considero Riccardo Secchi un maestro unico e inimitabile, che mi ha cresciuto negli anni verdi di un’adolescenza ormai contemplabile dal binocolo rovesciato; che io ho seguìto e seguo con accanimento; che ha deliziato e delizia ancora i miei pomeriggi e le serate). Diamo a Varney quel che è di Varney e a Dracula quel che è di Dracula.

ARMANDO SAVERIANO

Nessun commento:

Posta un commento