domenica 13 gennaio 2013

Moderno, postmoderno e...


L’umanità ha costantemente fronteggiato momenti di passaggio, che abitualmente definiamo crisi.
Fa parte del destino, della storia: è inevitabile. Ben peggio sarebbe la stagnazione.
Oggi attraversiamo tempi che ci fanno saltare la corda, che, anzi, la corda ce la stringono alla gola.
Disagio, incertezza, paura, sensazione di impotenza rappresentano i sinistri cavalieri dell’apocalisse economica, politica, esistenziale. Personalmente mi irritano molto quei talk show televisivi dove opinionisti legittimati o improvvisati ciarlano del bisogno di rifondare una politica diversa ed efficiente. Come se non sapessimo che da sempre il particolarismo storico o la legge del potere più forte agisce per il profitto di pochi a grave danno di tutti gli altri, mentre la pillola viene indorata a furia di affabulazioni e demagogie. L’homo politicus e lo scandalo marciano di pari passo. Le rivoluzioni hanno avuto il solo effetto di cambiare volti e nomi sul palcoscenico del controllo governativo, lasciandone intatte le dinamiche e le reali finalità.
L’uomo dovrebbe snaturarsi, riprogrammato per una inedita tavolozza etica, che regoli e rimoduli gli egocentrismi, l’anaffettività latente, la sete di profitto individuale, cassando peccati non veniali come l’invidia, l’ingratitudine, l’insofferenza, a vantaggio di un modello utopico di egotismo altruistico.
La per niente allegra situazione odierna sullo scenario planetario…conflitto d’interessi, spread, sfiducia nei conduttori della Cosa Pubblica, emorragia di idee e di intelligenze, artati equivoci, informazioni surrettizie, autoritarismi più o meno paternalistici, tracollo di aziende, mancanza di lavoro, abulie e povertà al galoppo, gabelle su gabelle, titoli sensazionalisti e contraddizioni pirotecniche, rabbia e collere che si compiacciono di sé in un carosello di parossistico onanismo societario…farebbe sospettare agli spiriti pagani inclìni al pensiero magico che la profezia dei Maya ci ha azzeccato, pur senza l’intervento di cataclismi naturali eclatanti (il sisma finale, il totale collasso energetico, lo scontro con un asteroide, un virus planetario incurabile, una violenta, spaventosa tempesta solare, etc.etc.), oppure che in terra, sin dagli albori, ha stabilito il suo dominio il diavolo.
Effettivamente neanche la più sbrigliata fantasia degli scrittori di romanzi catastrofici, da London a Brunner a Cristopher, da Wyndham a Nevil Shute a Mordecai Roshwald, da Leiber a J.T. Mc Intosh a Ballard, da Wells a Walter M. Miller a Anderson, da Gerrold a K. W. Jeter, da Charles Eric Maine e William Tenn al mai sufficientemente lodato Brussolo (in Italia inspiegabilmente accolto con tiepidezza o snobbato), avrebbe ipotizzato il nostro attuale traumatizzante cortocircuito.
Oggi, dopo il declino del postmoderno, siamo tristi eredi impreparati dello sgretolamento della morale: la solidarietà è un concetto vuoto, alieno, così come la dignità civile e quel principale sintomo di emancipazione che è la tolleranza, in abiura delle discriminazioni e dei razzismi; il consumismo si è attestato come vizio selvaggio incrementato dalle avidità di mercato, ed oggi disintossicarsene brutalmente per forza di cose è assai difficile, soprattutto per le giovani e giovanissime generazioni dorate; la spettacolarizzazione dilaga persino nelle strategie della politica; la labilità del diritto e la cancrena della giustizia, dietro gli attacchi serrati contro la magistratura e i suoi ampi respiri, completano il panorama di dissolvimento e di dissolutezza. La poesia, sempre longanime e veggente, ha lanciato invano i suoi moniti attraverso le voci di Pasquale Martiniello e di Alfonso Attilio Faia, che nei rispettivi, copiosi scritti, hanno ampiamente esercitato la legittimità di intervento nella politica (tra gli irpini non trascuro di citare almeno Peppino Iuliano); e tenta ancora la carta della deprecazione, del j’accuse, grazie alle speronate di Cristina Alziati (“Come non piangenti”); alle ribollenti temperature di civile impegno di Salvatore Caliolo (“Utopia e speranza”); di Alberto Toni, che si destreggia tra cronaca e storia, reviviscenze euripidee e pasoliniane; di Nicola Bultrini, che con temperie vigorosa, strettamente allacciata a radice filosofica, all’uomo chiede, dall’uomo esige… se vuole essere e fare… tutta l’applicazione e la vigilanza per afferrare, penetrare, assimilare il senso e il destino.
Tramontato il pensiero illuminista, sostenuto dalle correnti hegeliane, le teorie di Husserl, Heidegger, fino al decostruzionismo di Jacques Derrida e alla (trascinante) concezione di “civiltà liquida” di Zygmunt Bauman (in discreta sintonia con Habermas), hanno dato man forte all’ascesa postmoderna del soggettivismo novecentesco, caratterizzato, “scandito” da un “irrazionalismo” che serba debiti con Nietzsche, e che pure ci pone di fronte a una palese antinomia: se la spinta individualista aspira alla visibilità personale del singolo, come unica affermazione del sé, per compiere ciò ed ottenerne compenso, essa deve essere riconosciuta pubblicamente dall’altro, dal nucleo societario. Ora, ho già detto altrove che psicologia e collaterali scienze psicoanalitiche giustificano, avvalorano, anzi prospettano positivamente la ricerca dell’approvazione altrui, come pulsione il cui ricavo è la gratificazione di sé. Tuttavia l’eccesso di una corsa accanita, autoreferenziale, sleale, ipercritica, spietata per il raggiungimento di una prevalenza che finisce col significare “attestato di esistenza”, conduce prima o poi, con fatalità, alla cosiddetta solitudine del cittadino globale. Proprio ciò che l’uomo postmoderno voleva evitare, sfuggendo alla massificazione, all’anonimato.
La data ufficiale del promulgarsi e dell’affermarsi del postmoderno (al di là del pur segnante archetipo di Nietzsche con “Nascita della tragedia”) cade negli anni settanta, precisamente nel 1979, in occasione della stampa dell’opera fondamentale del filosofo francese Jean-François Lyotard “La condizione postmoderna”. Sembrò all’epoca l’imbocco di un percorso fecondo, risolutivo, che dall’architettura dilagava in tutti i settori dell’arte e degli agoni del pensiero, intridendo politica e finanza, modus agendi societario, forza lavoro, filosofia, morale. La rivalutazione del singolo, unico interprete del mondo, rintuzza però storia, progresso e collettivo. Soprattutto appare allarmante la svalutazione della storia e del passato, cui si negano verità e coesione, a favore dell’evento irripetibile, che purtroppo però si ripeterà nell’errore (ennesima contraddizione), stigmatizzando una società priva di memoria, incapace di non fotocopiare gli sbagli, anzi disconoscendone la serialità di ritorno, e attestandone il fattore inedito.
Il lascito del postmoderno agli albori del Terzo Millennio configura un uomo estremamente disorientato, neuronalmente vulnerabile, spodestato del più elementare riferimento, impoverito nelle ideologie, traghettato su infìde sponde, con un domani impossibile, vieppiù distopico, se non si imparerà a capire il presente.
Nei loro rispettivi, brillantissimi saggi, Maurizio Ferraris, docente di filosofia teoretica presso l’Ateneo di Torino (“Manifesto del nuovo realismo”, 2012), confidente in un auspicabile incontro di mediazione, di accordo, se non di fusione tra filosofia teoretica e per eccesso astratta e filosofia mediatica, aperta allo “spazio pubblico” (in gergo filosofia analitica e filosofia continentale), e Carlo Bordoni (“La società insicura”, 2012), sociologo e docente nelle università di Napoli e Firenze, con il proprio cauto ma chiaro riconoscimento degli intenti meritori del modello sociologico duttile descritto da Bauman, aprono spiragli di recupero e salvezza, a patto che il passo catartico di transizione epocale, il Great Divide, avvenga –lectio difficilior– con misura, con disciplinata intelligenza, con maggiore charitas, con sbarazzo del linguaggio “calcolante”, e con quel tanto di “umiltà” che è l’anticamera della saggezza.

ARMANDO SAVERIANO

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