L’umanità
ha costantemente fronteggiato momenti di passaggio, che abitualmente
definiamo crisi.
Fa parte del destino,
della storia: è inevitabile. Ben peggio sarebbe la stagnazione.
Oggi attraversiamo
tempi che ci fanno saltare la corda, che, anzi, la corda ce la
stringono alla gola.
Disagio, incertezza, paura, sensazione di
impotenza rappresentano i sinistri cavalieri dell’apocalisse
economica, politica, esistenziale. Personalmente mi irritano molto
quei talk show televisivi dove opinionisti legittimati o improvvisati
ciarlano del bisogno di rifondare una politica diversa ed efficiente.
Come se non sapessimo che da sempre il particolarismo storico o la
legge del potere più forte agisce per il profitto di pochi a grave
danno di tutti gli altri, mentre la pillola viene indorata a furia di
affabulazioni e demagogie. L’homo politicus e lo scandalo
marciano di pari passo. Le rivoluzioni hanno avuto il solo effetto di
cambiare volti e nomi sul palcoscenico del controllo governativo,
lasciandone intatte le dinamiche e le reali finalità.
L’uomo dovrebbe snaturarsi, riprogrammato per
una inedita tavolozza etica, che regoli e rimoduli gli egocentrismi,
l’anaffettività latente, la sete di profitto individuale, cassando
peccati non veniali come l’invidia, l’ingratitudine,
l’insofferenza, a vantaggio di un modello utopico di egotismo
altruistico.
La per
niente allegra situazione odierna sullo scenario planetario…conflitto
d’interessi, spread,
sfiducia nei conduttori della Cosa Pubblica, emorragia di idee e di
intelligenze, artati equivoci, informazioni surrettizie,
autoritarismi più o meno paternalistici, tracollo di aziende,
mancanza di lavoro, abulie e povertà al galoppo, gabelle su gabelle,
titoli sensazionalisti e contraddizioni pirotecniche, rabbia e
collere che si compiacciono di sé in un carosello di parossistico
onanismo societario…farebbe sospettare agli spiriti pagani inclìni
al pensiero magico che la profezia dei Maya ci ha azzeccato, pur
senza l’intervento di cataclismi naturali eclatanti (il sisma
finale, il totale collasso energetico, lo scontro con un asteroide,
un virus planetario incurabile, una violenta, spaventosa tempesta
solare, etc.etc.), oppure che in terra, sin dagli albori, ha
stabilito il suo dominio il diavolo.
Effettivamente
neanche la più sbrigliata fantasia degli scrittori di romanzi
catastrofici, da London a Brunner a Cristopher, da Wyndham a Nevil
Shute a Mordecai Roshwald,
da Leiber a J.T. Mc Intosh a Ballard, da Wells a Walter M. Miller a
Anderson, da Gerrold a K. W. Jeter, da Charles Eric Maine e William
Tenn al mai sufficientemente lodato Brussolo (in Italia
inspiegabilmente accolto con tiepidezza o snobbato), avrebbe
ipotizzato il nostro attuale traumatizzante cortocircuito.
Oggi,
dopo il declino del postmoderno, siamo tristi eredi impreparati dello
sgretolamento della morale: la solidarietà è un concetto vuoto,
alieno, così come la dignità civile e quel principale sintomo di
emancipazione che è la tolleranza, in abiura delle discriminazioni e
dei razzismi; il consumismo si è attestato come vizio selvaggio
incrementato dalle avidità di mercato, ed oggi disintossicarsene
brutalmente per forza di cose è assai difficile, soprattutto per le
giovani e giovanissime generazioni dorate; la spettacolarizzazione
dilaga persino nelle strategie della politica; la labilità del
diritto e la cancrena della giustizia, dietro gli attacchi serrati
contro la magistratura e i suoi ampi respiri, completano il panorama
di dissolvimento e di dissolutezza. La poesia, sempre longanime e
veggente, ha lanciato invano
i suoi moniti attraverso le voci di Pasquale Martiniello e di
Alfonso Attilio Faia, che nei rispettivi, copiosi scritti, hanno
ampiamente esercitato la legittimità di intervento nella politica
(tra gli irpini non trascuro di citare almeno Peppino Iuliano); e
tenta ancora la carta della deprecazione, del j’accuse, grazie alle
speronate di Cristina Alziati (“Come non piangenti”); alle
ribollenti temperature di civile impegno di Salvatore Caliolo
(“Utopia e speranza”); di Alberto Toni, che si destreggia tra
cronaca e storia, reviviscenze euripidee e pasoliniane; di Nicola
Bultrini, che con temperie vigorosa, strettamente allacciata a radice
filosofica, all’uomo chiede, dall’uomo esige… se vuole essere e
fare… tutta l’applicazione e la vigilanza per afferrare,
penetrare, assimilare il senso e il destino.
Tramontato
il pensiero illuminista, sostenuto dalle correnti hegeliane, le
teorie di Husserl, Heidegger, fino al decostruzionismo di Jacques
Derrida e alla (trascinante) concezione di “civiltà liquida” di
Zygmunt Bauman (in discreta sintonia con Habermas), hanno dato man
forte all’ascesa postmoderna del soggettivismo novecentesco,
caratterizzato, “scandito” da un “irrazionalismo” che serba
debiti con Nietzsche, e che pure ci pone di fronte a una palese
antinomia: se la spinta individualista aspira alla visibilità
personale del singolo, come unica affermazione del sé, per compiere
ciò ed ottenerne compenso, essa deve essere riconosciuta
pubblicamente dall’altro,
dal nucleo societario. Ora, ho già detto altrove che psicologia e
collaterali scienze psicoanalitiche giustificano, avvalorano, anzi
prospettano positivamente la ricerca dell’approvazione altrui, come
pulsione il cui ricavo è la gratificazione di sé. Tuttavia
l’eccesso di una corsa accanita, autoreferenziale, sleale,
ipercritica, spietata per il raggiungimento di una prevalenza che
finisce col significare “attestato di esistenza”, conduce prima o
poi, con fatalità, alla cosiddetta solitudine del cittadino globale.
Proprio ciò che l’uomo postmoderno voleva evitare, sfuggendo alla
massificazione, all’anonimato.
La data
ufficiale del promulgarsi e dell’affermarsi del postmoderno (al di
là del pur segnante archetipo di Nietzsche con “Nascita della
tragedia”) cade negli anni settanta, precisamente nel 1979, in
occasione della stampa dell’opera fondamentale del filosofo
francese Jean-François Lyotard “La condizione postmoderna”.
Sembrò all’epoca l’imbocco di un percorso fecondo, risolutivo,
che dall’architettura dilagava in tutti i settori dell’arte e
degli agoni del pensiero, intridendo politica e finanza, modus agendi
societario, forza lavoro, filosofia, morale. La rivalutazione del
singolo, unico interprete del mondo, rintuzza però storia, progresso
e collettivo. Soprattutto appare allarmante la svalutazione della
storia e del passato, cui si negano verità e coesione, a favore
dell’evento irripetibile,
che purtroppo però si ripeterà
nell’errore (ennesima contraddizione), stigmatizzando una società
priva di memoria, incapace di non fotocopiare gli sbagli, anzi
disconoscendone la serialità di ritorno, e attestandone il fattore
inedito.
Il
lascito del postmoderno agli albori del Terzo Millennio configura un
uomo estremamente disorientato, neuronalmente vulnerabile, spodestato
del più elementare riferimento, impoverito nelle ideologie,
traghettato su infìde sponde, con un domani impossibile,
vieppiù distopico, se non si imparerà a capire
il presente.
Nei loro
rispettivi, brillantissimi saggi, Maurizio Ferraris, docente di
filosofia teoretica presso l’Ateneo di Torino (“Manifesto del
nuovo realismo”, 2012), confidente in un auspicabile incontro
di mediazione, di accordo, se non di fusione
tra filosofia teoretica e per eccesso astratta e filosofia
mediatica, aperta allo “spazio pubblico” (in gergo filosofia
analitica e filosofia
continentale), e Carlo
Bordoni (“La società insicura”, 2012), sociologo e docente nelle
università di Napoli e Firenze, con il proprio cauto ma chiaro
riconoscimento degli intenti meritori del modello sociologico duttile
descritto da Bauman, aprono spiragli di recupero e salvezza, a patto
che il passo catartico di transizione epocale, il Great
Divide, avvenga –lectio
difficilior– con misura, con disciplinata
intelligenza, con maggiore charitas,
con sbarazzo del linguaggio “calcolante”, e con quel tanto di
“umiltà” che è l’anticamera della saggezza.
ARMANDO SAVERIANO
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