Claudia
Iandolo misura l’ossatura della sua
esistenza con l’attimo ineffabile in cui stabilisce un legame quasi
fisico con la scrittura. Con la parola ingaggia un conflitto erotico:
amore e rabbia, soggiacenza e prepotenza, gemito e singhiozzo,
sospiro e grido rappresentano la dogana ove tutto si denuncia, quando
ogni atto è completato. Una scrittrice che conserva un rapporto
bivalente con la poesia: ha bisogno di cantarla per sbarazzarsene, e
vi ritorna sempre perché intanto quella non l’abbandona mai,
essendo in circolo come un debito del sangue, un’assicurazione per
sentirsi integra e vulnerabile, ferma e in continuo spostamento,
sazia e spossata, viva nell’istante del distacco, dell’anticipo
di morte che assai spesso celebra, chiaramente o in cripticità tale
da rendere ispido e dannato il verso.
Ci ha abituato alle sue lunghe assenze dal panorama
editoriale, per cui siamo tranquillli: sappiamo che nel suo hortus di
gatti, carteggi, caos dionisiaco e sogni feroci e dolcissimi, la sua
lingua arrota il logos; suo maestro d’armi è l’estro, rasoio
carezzevole e tenia che non succhia, rigenera, da vero lievito-madre.
Alia ci
accoglie nel presente, nel passato prossimo, forse, per quanto
concerne la prima parte, quella dell’equilibrio rischioso, perché
un poco dissimulato, della quietezza, dell’assestamento in una
malinconia che per sé Iandolo accoglie come rosolio dell’anima:
non saprebbe ormai farne a meno. Ha soltanto smorzato, intanto, un
esubero d’ansia, ha imparato a girare in tondo, con studiata
lentezza, a un senso d’angoscia che ha sempre reso eccelsa la sua
cifra: nell’addomesticare certi toni acuti ne ha preservato la
ghiotta asprezza ferente, fascinosa, che attraverso la decorticazione
di una lettura seconda, profonda, palesa la ribellione, la volontà
di guardare dritto nella solitudine, per aggrinfiare un po’ di
stelle al di là di ogni accecamento. Pacata e trepida, Claudia è
formidabile Parca per se stessa e per chi inevitabilmente in simili
destini si riconosce: perché la poeta dialoga con l’altro da sé,
anche quando l’introspezione scava nel personale abisso.
L’amor-dolore e le noncuranze subite dal passaggio distratto di
uomini incapaci di sostare, inetti nello sguardo, emergono come una
sinfonia che concilia tramonti e albe, apre squarci di pioggia nel
ratto istante del sereno. Claudia r-esiste,
forse inevitabilmente barcolla, ma resta intatta e vibrante, anche e
soprattutto nella terribilità del “dolce dire”, del patimento
che mai l’appassisce; la corrobora, invece.
Salutiamo
Aegre, la seconda
parte, come un amico di antica data, dal
quale è difficile, impossibile separarsi.
Rilevavo, in illo tempore, e confermo: è un tarlo nella mente che è
penetrato a partire dall’adolescenza attraverso lo scortichìo del
cuore. Molte voci si agitano nella poetessa, ma è sempre una,
identica e sola, detestata e disturbante, che si fa strada per
erompere e per pronunciare il dicibile e tutto l’indicibile della
collera e del dolore, dietro lo stucco di una filosofia appesa alle
grucce, dietro la verniciatina acetosa del cinismo o la puntura del
sarcasmo, molto al di là di altri rovelli
intellettuali (“Musici”,
“Residenza”)
oppure emozionali, lo siano essi in misura autentica e/o fittizia
(“Maria”, “U.S.”),
per distogliere magari un attimo la coscienza da ciò che urtica e
non placa, da ciò che bruciando non annienta né si consuma. La
poetessa rincorre un alfabeto specialistico che vorrebbe far
affiorare ciò che per calcolo non sparisce: al contrario rivela
l’atto rattristante e cannibale di una fallita rimozione, almeno
all’ascolto non frastornabile dello speleologo di mestiere.
“Aegre”
ha raccolto, assai più di un decennio fa, un dolente canzoniere,
fatto di rese e di ribellioni, di verità confesse e barlumi
inconfessati, non escluse emollienti attenuazioni. Il tempo e la
stizza verso quel passato hanno spinto Claudia Iandolo a conservare
(per fortuna!) intatto il titolo originale, magnifico, che raggruppa
oggi, nel famoso termine da lei preferito, “stondature” pregresse
e più recenti.
Il risultato è un
lambicco di intensità eloquente e spudorata, con il quale Iandolo
avvince il lettore e tormenta se stessa nell’atto medesimo in cui
si compiace della malìa di un verso, della bellezza fermentata
attraverso un lungo buio, un cavernoso anello di solitudine.
I
frammenti dedicati a “Juergen”
sono la migliore testimonianza di un passato ineludibile ed
inimbavagliabile che pur acconsentendo al make-up e ai lifting non si
presta a totali revisioni; in special modo non si lascia dimenticare,
perché è insistente presente, è un passato che ad orma costante ha
(beffardamente) preannunciato il futuro-cappio, copia carbone di sé.
La Iandolo teme e aborrisce il vivere
se stessa alla luce bianca e immutata della reiterazione coatta,
dell’abuso di diaboliche sequenze di ritorno. Naturalmente respinge
con tutte le forze l’irrazionalità di un circolo vizioso da girone
sulla terra o da pagina teatrale di Dino Buzzati. E tuttavia un
sospetto la raggela.
I distacchi, gli strappi, le morti, i
legami negati rappresentano la stessa faccia sui due lati della
moneta esistenza. In qualche pagina sta lì lì per tradirsi un
legittimo sospiro di autocommiserazione: ma prevale l’orgoglio
della donna e interviene salvifico il genio della scrittrice, che
tacita ammonisce la “ragazza che perde ombrelli”, che non trova e
non ottiene-conserva gli uomini e gli amori (se non attraverso
estenuanti rêveries romantiche e romanzate, sprazzi di illusoria
felicità); genio e orgoglio, resilienza e dignità le impongono di
sollevare le spalle, il mento, lo sguardo.
Così si
alternano le geologie del diario insepolto e le architetture di nuova
mappatura dove ruzzolano, à la façon
dei dadi, le parole asciutte eppure di amplia, sensitivizzante
rifrazione. I critici passano a setaccio il poièo
di Claudia Iandolo, senza però potere entrare nei granai del suo
mondo appartato, dove sicuramente si urtano vetri e cristalli
frangibilissimi: è qui che si intercettano le ombre della fuggitiva
e della tosta, di quella che morde a crudo la forza del desiderio per
inventarsene il sapore o sostituirne un sogno più realistico del
vero, tra le stratificazioni di una dolcezza toccata dal malessere e
quelle asperrime di un accanimento maledetto nel destino.
Aegre,
sposo felice di Alia, e Alia, sugoso complemento-contenitore di
questi (diremmo entrambi i coniugi) possono venire eletti a petit
livre de chevet da chi ormai non conta più i
“feroci week end di niente”,
da chi tra rassegnazione e sgomento è suo malgrado spettatore delle
“tracce del suo passare”. Ma specialmente
da chi sappia riconoscere e stimare la Poesia Imperdibile.
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