sabato 12 gennaio 2013

Il doppio profilo di Alia



Claudia Iandolo misura l’ossatura della sua esistenza con l’attimo ineffabile in cui stabilisce un legame quasi fisico con la scrittura. Con la parola ingaggia un conflitto erotico: amore e rabbia, soggiacenza e prepotenza, gemito e singhiozzo, sospiro e grido rappresentano la dogana ove tutto si denuncia, quando ogni atto è completato. Una scrittrice che conserva un rapporto bivalente con la poesia: ha bisogno di cantarla per sbarazzarsene, e vi ritorna sempre perché intanto quella non l’abbandona mai, essendo in circolo come un debito del sangue, un’assicurazione per sentirsi integra e vulnerabile, ferma e in continuo spostamento, sazia e spossata, viva nell’istante del distacco, dell’anticipo di morte che assai spesso celebra, chiaramente o in cripticità tale da rendere ispido e dannato il verso.
Ci ha abituato alle sue lunghe assenze dal panorama editoriale, per cui siamo tranquillli: sappiamo che nel suo hortus di gatti, carteggi, caos dionisiaco e sogni feroci e dolcissimi, la sua lingua arrota il logos; suo maestro d’armi è l’estro, rasoio carezzevole e tenia che non succhia, rigenera, da vero lievito-madre.
Alia ci accoglie nel presente, nel passato prossimo, forse, per quanto concerne la prima parte, quella dell’equilibrio rischioso, perché un poco dissimulato, della quietezza, dell’assestamento in una malinconia che per sé Iandolo accoglie come rosolio dell’anima: non saprebbe ormai farne a meno. Ha soltanto smorzato, intanto, un esubero d’ansia, ha imparato a girare in tondo, con studiata lentezza, a un senso d’angoscia che ha sempre reso eccelsa la sua cifra: nell’addomesticare certi toni acuti ne ha preservato la ghiotta asprezza ferente, fascinosa, che attraverso la decorticazione di una lettura seconda, profonda, palesa la ribellione, la volontà di guardare dritto nella solitudine, per aggrinfiare un po’ di stelle al di là di ogni accecamento. Pacata e trepida, Claudia è formidabile Parca per se stessa e per chi inevitabilmente in simili destini si riconosce: perché la poeta dialoga con l’altro da sé, anche quando l’introspezione scava nel personale abisso. L’amor-dolore e le noncuranze subite dal passaggio distratto di uomini incapaci di sostare, inetti nello sguardo, emergono come una sinfonia che concilia tramonti e albe, apre squarci di pioggia nel ratto istante del sereno. Claudia r-esiste, forse inevitabilmente barcolla, ma resta intatta e vibrante, anche e soprattutto nella terribilità del “dolce dire”, del patimento che mai l’appassisce; la corrobora, invece.
Salutiamo Aegre, la seconda parte, come un amico di antica data, dal quale è difficile, impossibile separarsi. Rilevavo, in illo tempore, e confermo: è un tarlo nella mente che è penetrato a partire dall’adolescenza attraverso lo scortichìo del cuore. Molte voci si agitano nella poetessa, ma è sempre una, identica e sola, detestata e disturbante, che si fa strada per erompere e per pronunciare il dicibile e tutto l’indicibile della collera e del dolore, dietro lo stucco di una filosofia appesa alle grucce, dietro la verniciatina acetosa del cinismo o la puntura del sarcasmo, molto al di là di altri rovelli intellettuali (“Musici”, “Residenza”) oppure emozionali, lo siano essi in misura autentica e/o fittizia (“Maria”, “U.S.”), per distogliere magari un attimo la coscienza da ciò che urtica e non placa, da ciò che bruciando non annienta né si consuma. La poetessa rincorre un alfabeto specialistico che vorrebbe far affiorare ciò che per calcolo non sparisce: al contrario rivela l’atto rattristante e cannibale di una fallita rimozione, almeno all’ascolto non frastornabile dello speleologo di mestiere.
“Aegre” ha raccolto, assai più di un decennio fa, un dolente canzoniere, fatto di rese e di ribellioni, di verità confesse e barlumi inconfessati, non escluse emollienti attenuazioni. Il tempo e la stizza verso quel passato hanno spinto Claudia Iandolo a conservare (per fortuna!) intatto il titolo originale, magnifico, che raggruppa oggi, nel famoso termine da lei preferito, “stondature” pregresse e più recenti.
Il risultato è un lambicco di intensità eloquente e spudorata, con il quale Iandolo avvince il lettore e tormenta se stessa nell’atto medesimo in cui si compiace della malìa di un verso, della bellezza fermentata attraverso un lungo buio, un cavernoso anello di solitudine.
I frammenti dedicati a “Juergen” sono la migliore testimonianza di un passato ineludibile ed inimbavagliabile che pur acconsentendo al make-up e ai lifting non si presta a totali revisioni; in special modo non si lascia dimenticare, perché è insistente presente, è un passato che ad orma costante ha (beffardamente) preannunciato il futuro-cappio, copia carbone di sé.
La Iandolo teme e aborrisce il vivere se stessa alla luce bianca e immutata della reiterazione coatta, dell’abuso di diaboliche sequenze di ritorno. Naturalmente respinge con tutte le forze l’irrazionalità di un circolo vizioso da girone sulla terra o da pagina teatrale di Dino Buzzati. E tuttavia un sospetto la raggela.
I distacchi, gli strappi, le morti, i legami negati rappresentano la stessa faccia sui due lati della moneta esistenza. In qualche pagina sta lì lì per tradirsi un legittimo sospiro di autocommiserazione: ma prevale l’orgoglio della donna e interviene salvifico il genio della scrittrice, che tacita ammonisce la “ragazza che perde ombrelli”, che non trova e non ottiene-conserva gli uomini e gli amori (se non attraverso estenuanti rêveries romantiche e romanzate, sprazzi di illusoria felicità); genio e orgoglio, resilienza e dignità le impongono di sollevare le spalle, il mento, lo sguardo.
Così si alternano le geologie del diario insepolto e le architetture di nuova mappatura dove ruzzolano, à la façon dei dadi, le parole asciutte eppure di amplia, sensitivizzante rifrazione. I critici passano a setaccio il poièo di Claudia Iandolo, senza però potere entrare nei granai del suo mondo appartato, dove sicuramente si urtano vetri e cristalli frangibilissimi: è qui che si intercettano le ombre della fuggitiva e della tosta, di quella che morde a crudo la forza del desiderio per inventarsene il sapore o sostituirne un sogno più realistico del vero, tra le stratificazioni di una dolcezza toccata dal malessere e quelle asperrime di un accanimento maledetto nel destino.
Aegre, sposo felice di Alia, e Alia, sugoso complemento-contenitore di questi (diremmo entrambi i coniugi) possono venire eletti a petit livre de chevet da chi ormai non conta più i “feroci week end di niente”, da chi tra rassegnazione e sgomento è suo malgrado spettatore delle “tracce del suo passare”. Ma specialmente da chi sappia riconoscere e stimare la Poesia Imperdibile.

ARMANDO SAVERIANO


ALIA CLAUDIA IANDOLO ED. TRACCE 2012 PAG. 80 EURO 11. 00

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