Se è vero che le
esperienze della vita ci insegnano subito che le insidie, le
macchinazioni, le scorrettezze e l’ingratitudine sono all’ordine
del giorno e tanto più sono dolorose quando vengono perpetrate da
persone che si credevano amiche, o tutt’al più incapaci di cadere
fino al polpaccio nelle bassezze, esse non ci preparano al grado di
meschinità, di infingardaggine, di perfidia e di crudeltà a cui il
prossimo può arrivare.
Calunnie,
sotterfugi per evitare di mantenere gli accordi presi (specialmente
se di natura economica), voltafaccia scioccanti, mobbing, elusioni
improvvise e pretestuose, vere frodi alla buona fede e alla
malaccorta fiducia erogata con il cuore, egoismi, minaccia di
denuncia per aver onorato pubblicamente un caro defunto, mancanza di
solidarietà persino nell’ascolto di un cruccio o di uno sfogo:
tutto questo succedersi senza soluzione di continuità per l’intero
corso del non rimpianto 2012, e che agli albori del corrente anno
ancora non accenna a concedermi un attimo di tregua, la frazione di
un fiato appena, potrebbe indurre la mia mente, se essa fosse incline
al pensiero magico fuor della passione narrativa per il
soprannaturale, a sospettare il malocchio.
Ma invece di ricorrere ad azioni
legali, ad un fisico confronto, ad un ricambio di contumelie o al
progetto di rivalse adeguate al danno, fisico e psicologico (e
la tentazione bussa alla porta), mi soccorre ancora una
volta la parola, abile e sciolta, lei sì amica fidata, lei sì
potente sodale. Sostegno e conforto, anche per quell’indifferenza
che –dicevo– ho riscontrato, nelle pregresse
e recentissime occasioni, non senza cupa amarezza, in chi gode
della mia stima e che è stato più volte, alla bisogna,
proprio dal sottoscritto rinfrancato, sostentato con interventi
pratici e tempestivi.
Bis
dat qui cito dat. Chi eroga nell’immediato
un beneficio è come se ne raddoppiasse gli effetti.
La
scrittura è terapeutica: penso che noi si sia generalmente concordi
su questo; altrimenti non esisterebbero, né mai sarebbero esistiti,
i diari; né avrebbero avuto seguito percorsi di scrittura da…spurgo
emotivo. Non ci sarebbe stata nemmeno tanta letteratura sanguigna,
gustosa e agguerrita. C’è chi sostiene il diritto di replica,
addirittura il diritto alla vendetta, magari a freddo, per rendere
micidiale la sorpresa dopo un periodo ragionevolmente lungo di
apparente mancanza di reazione. Al
riguardo, la moderna psicologia,
all’analisi del sentimento di vendetta, gli assegna una funzione
compensativa, che equilibra il dissesto interiore, seda la collera,
opera da singolare mediatore, che in qualche misura concilia l’offeso
con l’offensore; beninteso la positività del proposito di vendetta
si ferma a questo “ruolo” di fattore bilanciante, alla strategia
emotiva del pensiero, della fantasticheria, e certo non può sfociare
in progettualità criminose messe a punto, in delitti che l’umana
coscienza, il buonsenso, la bioetica respingono con energia e che
d’altronde la giurisprudenza condanna e punisce.
E poiché
abbiamo l’adagio che recita ‘ne uccide più
la lingua che la spada’, perché non
ricorrere alle straordinarie risorse della parola per prenderci una
soddisfacente rivincita? In fondo è un omicidio legale. Il bastone,
la scimitarra, la pistola, il kalashnikov è l’invettiva.
L’invettiva!
L’invettiva, lo scritto pugnace, l’attacco feroce e nello stesso
tempo raffinato e corrosivo per colpire chi ha per primo ferito, chi
ha inteso mortificare, deprivare, scorticare, e
senza provocazione, senza giustificata motivazione logica, è il
rimedio ideale per mettere a tacere i tormenti dell’animo percosso
e per ricavare un “rimborso spese” morale. A patto che –mi pare
ovvio– si abbia sufficiente dimestichezza con la lingua e la parola
letali e bastante
determinazione nella (saporita) impresa.
Strumento
perfetto, quant’altri mai efficace (e distruttivo) è il verso,
dono impareggiabile della Musa, signora della Poesia, a sua volta
depositaria di intelligente nemesi, di flagellante castigo. E la
poesia stessa deve a pieno titolo sentirsi debitrice di coloro che,
con l’esercizio dell’iniquità e del malo agire, o di artati
cavilli (nel mio caso amici di lunga data, conoscenti, colleghi,
membri transfughi dell’associazione Logopea) ne hanno stuzzicato la
progettazione e l’elevazione di tempietti di caustica arguzia o di
cattedrali dalle devastanti allegorie. Personalmente mi sono sempre
sentito avvezzo alla satira indisponente e acidula, quindi mi è
stato semplice fare un passo più in là e trasformare la strofa in
una vera e propria bomba a orologeria. Così è nata la silloge
Malalengua, parte
integrante della voluminosa antologia Il
nettare e la Musa, in odor di stampa presso
Per Versi.
In
verità l’invettiva, l’apostrofe spietata, occupa solo una
delle tre sezioni di Malalengua,
quella dedicata allo strale.
Confido
che essa provochi intenso mal di pancia negli ignobili, arroganti,
incauti destinatari,
con specifica attenzione a talune docenti(ndecenti)
tanto sfrontate, presuntuose e millantatrici quanto incompetenti e
ciuche (nel teatro, nella scrittura creativa…nella creatività in
generale…e nella mitologia greco-romana).
La mia
attitudinale propensione all’intelligenza inter-relazionale e
introiettiva è un pregio che ha il suo effetto collaterale
nell’espormi più sensibilmente alle cattive azioni altrui, agli
atti nevrotici dei frustrati, ai malintesi dei protervi. Tuttavia ho
sempre reagito, anche a costo di aggiungere danno al danno.
Soprattutto in determinati
istituti scolastici dove …avrete capito… ho dovuto
necessariamente incrociare il fioretto con insegnanti limitate,
invidiose, meschine e arriviste, sprovvedute, abituate a fare il
bello e il brutto tempo con l’acquiescenza del/della DS e dei
colleghi.
Non hanno
vinto loro. Ho vinto io. In una competizione che non ho mai cercato,
ma che debbo avere involontariamente innescato, per colpa
della mia poliedricità, del mio scrupolo
nell’applicazione del dovere, della mia solerzia e della coerenza
con cui sempre agisco, in aperto vanto (mi si conceda questa vanità).
Insomma,
cari amici che forse -io spero- mi starete leggendo, l’origine di
ogni carogneria,
di ogni infamia, di ogni perversità risiede infallibilmente
nell’ingratitudine che scaturisce dal più terribile peccato
capitale: l’invidia.
Una energia diffusiva contraria, un tarlo pernicioso, che dopo lenta
incubazione deflagra, causando avversione e rancore assurdi, non di
rado psicotici, nei confronti di colui o colei che fruisce di una
dote o di una facoltà che non si possiede; di colui o colei che ha
solo saputo trarre profitto dal kairòs
aristotelico; di colui o colei che è baciato dal favore di una
maggiore fortuna.
In
psicanalisi l’invidia è stata appassionato oggetto di studio da
parte di Melanie Klein,
che innanzitutto la differenziò dalla bramosia e dalla gelosia,
benché tali stati o sentimenti siano intimamente connessi ed
interagiscano tra loro. E se essa potrebbe (ma non sempre è così)
scaturire dalla deprivazione e dalla frustrazione, l’ingratitudine
scatta dalla gratificazione ottenuta, proprio perché
afferma/conferma l’assenza, nel destinatario beneficato, del
possesso di quelle risorse, di quelle qualità di appartenenza
esterna. Si odia,
nell’atto stesso dell’elargizione, chi si è supplicato di
accorrere, di
risolvere, di dare.
Un’azione
altruistica dovrebbe ricevere il premio del riconoscimento e quindi
di una calda accoglienza, che garantisce da parte
del beneficiato il ricordo duraturo, ed un impegno morale alla
solidarietà nei confronti dell’artefice del generoso,
provvidenziale intervento (sia stato esso di natura pragmatica o di
aiuto psicologico).
In
realtà, e ne ho già discusso sulle pagine virtuali dell’interrotto
primo blog di Logopea,
a proposito della recensione del bestseller di Maria
Rita Parsi, se il bene compiuto trova la
felicità nel suo medesimo accadere, nel suo esatto compiersi, è
umano aspettarsi perlomeno l’assenza di una risposta ostile,
discreditante, denigratoria, proprio da parte di chi si è compreso,
soccorso, amato. E la gratitudine, se il beneficio è stato salvifico
e vitale, e soprattutto tempestivo,
a differenza della passeggera, fuggevole riconoscenza, ha o dovrebbe
avere, nel suo stesso etimo, una estensione temporale non limitata,
una memoria non labile, preservando in sé il germe sostanziale e
sostanziante della mobilitazione a intervenire, in caso di bisogno, a
favore di chi per primo, e disinteressatamente, offrì il braccio,
porse la mano, sollevò dalla caduta, medicò il taglio, seppe
ascoltare senza
superficialità e senza fretta di mutar
discorso. Perché neanche quest’ultima cosa
viene concessa dagli egocentrici sbrigativi e anaffettivi. Continuo a
parlare per disgraziata esperienza diretta, si può dire ormai
cotidie.
L’invettiva
salace, escoriante, destabilizzatoria, mortale come una freccia che
trapassa l’aorta, ha una ferrata, brillante dignità letteraria,
che parte assai da lontano, per chi lo ignorasse o per quegli
insegnanti mediocri e/o impreparati, affetti da pigrizia culturale e
da sclerosi della volizione a migliorare il proprio stato di
piattezza, abituati a spappagallare dal libro Carducci, Leopardi e
Manzoni e a sapere zero, per
esempio, sulla
fervente, cruciale attività letteraria italiana delle riviste a
circuito mirato, delle plaquettes semiclandestine, dei pamphlets, che
hanno costituito palestra formativa e di confronto, spesso
rivoluzionario, per i
più autorevoli autori internazionali. Nei miei percorsi didattici
nell’ambito della scrittura creativa presso i vari istituti
scolastici ho sempre riservato un paio di dense lezioni
sull’argomento, con il mio metodo reticolare,
che di volta in volta ha destato, secondo gli animi, gli intelletti,
la sensibilità e la purezza di giudizio atteggiamenti di ammirazione
o (per l’appunto) di torva invidia.
L’invettiva
è una forma di scrittura polemica, aggressiva e virulenta, che si
origina nei codici sallustiani, con le orazioni autentiche o ritenute
falsi di scuola di
Cicerone e di
Sallustio.
I
trecentisti e gli umanisti del Quattrocento animarono attraverso il
genere innumerevoli contrasti, estrusero rivalità, odî, manigolde
insinuazioni, chiare accuse, insulti tout-court molto bollenti, non
risparmiando l’aspetto salace, i fatti intimi e privati. Celebri
quelle di Bracciolini
contro l’antipapa Felice V, o contro Filelfo. Non posso non citare,
di seguito, l’Invectiva contra quendam magni
status hominem sed nullius scientiae aut virtutis del
Petrarca, indirizzata
al cardinale Giovanni di Caraman, che malignava largamente sulla sua
amicizia con i Visconti (1355); sempre Petrarca si scagliò contro i
troppi medici che infestavano le stanze di Santa Degenza del Papa
Clemente VI, Invectivarum contra medicum
quendam libri IV. Le copiose Invectivae
di Petrarca erano tra l’altro mirate anche
a tutelare la poesia contro l’arroganza della scienza e delle arti
non liberali. Il Goethe
compose delle Invektiven (pubblicate
dopo la sua morte) contro scrittori e pensatori del suo tempo,
Böttiger e Merkel.
Se la
satira, secondo Giovenale
(si natura negat, facit indignatio versum),
nasce da una condizione psicologico-sociale, a sua volta accesa da
speronature esterne, da motivazioni/giustificazioni obiettive, da
pressanti “stimoli”, vieppiù l’invettiva spiega la propria
foga trituratrice con gli attacchi proditorî subìti, con le
istigazioni maligne messe in atto da avversari, denigratori,
invidiosi.
Satira e
invettiva hanno radici comuni nel dichiarare un dissidio
intercorrente tra soggetti (la tenzone tra Dante
e Forese Donati), o tra soggetto e realtà, tra scrittore e comunità
circostante(i fabliaux,
i sirventesi politici, i bestiari medievali, le pasquinate
dell’Aretino); ma
l’invettiva, pur conservando lo sberleffo spinto, l’accanito
morso a presa d’acciaio, non si propone intenti morali di
raddrizzamento, vuole “limitarsi” a controbattere con dispiego di
azzannate e di artigliate l’assalto polemico, la contumelia, la
diffamazione, restituendo l’affronto con i dovuti interessi.
Insomma, fa sfacelo, macella.
Aggiungo
che testi poetici di denuncia, contenuti nei principali libri degli
irpini P. Martiniello,
G. Iuliano,
R. Della Fera e A.
A. Faia, spesso hanno sfiorato, con la loro
frusta elettrica e con il sarcasmo al vetriolo, la vera e propria
invettiva politico-sociale-ambientalista, con esiti di formidabile
riverbero; testimoniando che la poesia d’engagement
non è mai tramontata, non è mai “fuori
moda”; non è vero che nessuno la compone più (e se così fosse,
fattori scoraggianti sarebbero la difficoltà di concepimento e di
elaborazione oltre alle conseguenze a latere
che essa comporta). Ma tale tesi, che ho
sentito formulare inorridito nel corso di una non lontana
presentazione libraria, è sostenuta solo da pseudocritici
improvvisati, domenicali e di provincia, freak
intellettualistoidi che campano di già
illegittima eredità, spacciano per recensioni e brevi saggi (sic!) i
temini da focomelici mentali
(sono essi stessi, tra l’altro, poetastri da inserto umoristico).
ARMANDO SAVERIANO
Il kairòs aristotelico è una sua invenzione. Studi meglio.
RispondiEliminaSi informi bene, perché chi deve studiare è lei. Inoltre, l'anonimato è indice di scorrettezza e sinonimo di pusillanimità
RispondiEliminaCalma! In realtà lei dovrebbe ringraziarmi: non si leggono troppi commenti si questo blog o sbaglio? Anonimo o non, il mio intervento almeno potrebbe dare un senso all'esistenza di questo spazio virtuale. Poi può rispondermi a tono tranquillamente.
RispondiEliminaTornando ad Aristotele: kairòs in greco vuol dire "Occasione", "momento propizio" e viene usato, a partire da Aristotele, in luogo del più generico chronos. Ne "La costituzione degli ateniesi" oi kairòi significa "le circostanze favorevoli". Aristotele è l'inventore della logica ed il teorizzatore della scienza; la sua è una filosofia teleologica, semmai, cioè guarda al telos, al fine, non al momento favorevole, tantomeno bacia gli artisti o quello che si presumono tali.
Calmatevi entrambi. Il Nostro Anonimo deve essere davvero un esperto in materia, se si è concesso di consigliare ad Armando di studiare meglio con un tono così perentorio. Io non sono un esperto, ma vorrei dare il mio contributo. E' vero, Armando usa la parola kairos in maniera impropria; egli infatti lascia intendere che kairos sia "il sapere portare alla luce le proprie qualità nel modo migliore". In realtà kairos vuol dire tempo. A differenza di chronos, che è il tempo quantitativo e misurabile, il kairos è il tempo qualitativo, cioè un determinato momento che è "opportuno" affinché qualcosa avvenga o un'azione sia compiuta. Perciò kairos non è usata in luogo del più generico chronos, ma con un significato diverso da quello di chronos. A differenza del chronos, il kairos va còlto: il generale deve cogliere il kairos per attaccare, il medico per curare, l'oratore per bilanciare le parti del discorso. Più in generale, ogni uomo deve saper cogliere il proprio kairos, i propri momenti giusti. La critica dell'Anonimo mi appare abbastanza fondata nei contenuti, non tanto nei modi.
RispondiEliminaVorrei tuttavia precisare che Aristotele non può essere considerato il teorizzatore della scienza proprio perché, come l'Anonimo giustamente ricordava, egli ha una visione teleologica del mondo; al contrario, la scienza moderna propone una visione causale-relazionale, molto più vicina a Democrito.
Inoltre, sebbene Aristotele sia certamente l'inventore della Logica in quanto disciplina autonoma, va detto che l'esigenza di una Logica fu suscitata in lui dai problemi posti dai filosofi precedenti: mi riferisco in particolare ai Sofisti e alla scuola Eleatica. Problemi a cui la Logica e la Metafisica aristotelica rispondono in maniera soltanto parziale e in alcuni casi non intravedendone minimamente la reale portata: si veda, ad esempio, quanto è riduttiva l'analisi aristotelica dei paradossi di Zenone; ma più in generale, quanto sia carente la sua filosofia dell'infinito. Il motivo di tanta carenza è il mancato uso della matematica come strumento di analisi, e anche per questo egli è molto lontano da uno spirito scientifico moderno. Su questi argomenti sono certamente più preparato.
Fatte le dovute precisazioni, mi sembra che capiti a tutti di scrivere qualche inesattezza, ma non per questo si deve essere rimproverati come sui banchi di scuola. Tutti, a partire da me, dovremmo studiare meglio.
Caro Armando, sei stato troppo avventato nella risposta. Come al solito, reagisci in maniera troppo brusca alla maleducazione altrui. L'anonimato non è necessariamente un segno di pusillanimità: si può scegliere di celare la propria identità per molti motivi. Personalmente ho trovato un non tanto celato astio provocatorio nelle parole dell'Anonimo; tuttavia io sono molto sospettoso nei riguardi di questi tipi di astio, perché spesso celano ben altro sentimento: l'affezione. Dico bene?
Da Costantino
Tranquilli adesso vi date tutti una bella calmata. Da oggi ogni commento verrà moderato così evitiamo questo teatrino telematico.
RispondiEliminaBuona giornata e buona lettura!
Il web master
P.S.
Ovviamente chiunque può contraddire qualsiasi tesi, massima elasticità, purché si forniscano argomentazioni valide e non basate sulla presunzione (magari avvalendosi di citazioni, materiali tratti da qualche studio condotto da personaggi un po' più autorevoli rispetto al pensiero di un saccente presunto anonimo). Qui vale la regola "La forma è sostanza", pertanto attenti a ciò che scrivete. Contribuite a generare un dibattito costruttivo e basato sul confronto leale e non nascondetevi dietro questi atteggiamenti puerili. I vostri commenti possono diventare anche dei magnifici post a condizione che il tutto venga condotto con la massima compostezza e serietà. Se volete il teatrino andate a guardare i talk show, qui non c'è spazio per questo genere di cose, non finché ci sono io a gestire questa piattaforma. Chiaro? Se poi volete la guerra apritevi un blog e producete (a)cultura perché di polemiche sterili e infantili ci siamo ampiamente rotti i cosiddetti.
Vi auguro ancora una magnifica giornata, il sole splende, gli uccellini cinguettano, le nubi sono diradate, andate a fare quattro passi e liberate le vostre menti dai pensieri peccaminosi e malvagi.