Fatalità e utopie nella poesia di Armando SAVERIANO
Sulle sabbie del tempo, il daimon di Armando SAVERIANO si muove tra
l’imponente leggerezza della tradizione e il coraggio del rischio dell’avvenire
( <<I poeti sono i più arrischianti>> - direbbe Heidegger ), di
questo guardare oltre verso terre misteriose e spazi ignoti, in cerca di nuove
significazioni, spostando limiti, bramando l’inaudito, le parole finora non
dette e le cose giammai realizzate “Non
avrò tempo per il rovello della nostalgia / il rimpianto di quel che mai ho
avuto / la Ribalderia l’Amore la Fortuna” ( Nel nulla - pag. 5 ).
“Sei tarli nel giustacuore” per questo sacerdote della parola che
si pone tra l’aurorale e il presagio della fine “Il mondo è solo una lapide che attende iscrizioni” (Non altro sentore
avendo – pag. 12), che coniuga la meraviglia con il disincanto, il Fato con
l’Utopia, eros con thanatos, avvalendosi di una lingua
altamente metaforica, di un lessico epico e lirico al tempo stesso, con una
semantica ardita e con una struttura quando rarefatta e quando densa, carnale.
Nulla – per Saveriano – è
impoetico, il comico e il tragico, il furore adamantino e il lento risalire, le
piccole scaramucce e l’inesorabile destino, così, il suo pensiero poetante
pervade memoria e oblio (<< L’oblio / E il caso ci depredano >> -
per dirla con Borges), si dispiega in un canto
ontologicamente sublime,
rivelandosi – infine – in una estetica che è vissuto quotidiano,
esperienza di vita, stile, per cui, si
può benissimo asserire – con Francesco De Sanctis – che << Il mondo
estetico è sostanza, non parvenza >>.
D’altronde, un po’ tutta la
poetica del Nostro si pone come atto fondante, istante che svela l’Essere, che
restituisce una verginità originaria ad ogni incontro, ad ogni gesto, ad ogni
felice intuizione e che fa emergere il nostro ex-sistere, colto in una dignità che supera degrado e sciattezza,
volgarità e bassezze.
A tale proposito, non posso non
citare di nuovo l’Heidegger del << Nur wo sprache, da ist weet >>
(“Solo dove è linguaggio, là è il mondo”), laddove il poeta descrive, in modo
suggestivo e originale, il dicibile e invoca l’indicibile.
Ecco – dunque – che il dettato,
per Saveriano, si fa urgente, necessario, come costante si rivela la ricerca di
quell’energia primordiale che rende plausibili i sogni e le pulsioni, le
ribellioni e le invettive, i rammarichi e i desideri, i ricordi e i segreti, le
rinunce e le ossessioni.
E’ qui presente un labor limae dotto e raffinato che fa di
ogni componimento - di questa plaquette solida
e immaginifica – una costruzione architettonica dove ogni parola trova (e dal
proprio interno e rispetto all’intero contesto) una sua giustificazione, una
sua legittimità.
Di conseguenza, abbiamo a che
fare con un continuum, trattandosi di
una impalcatura esterna retta da un ricco e forbito zibaldone di pensieri; si tratta di un discorso artistico e poetico
che possiede una filosofia di vita, una visione del mondo, una weltanschauung lucida, magmatica, nonché
ferrea e paradigmatica, il cui fondale viene impreziosito da suggestioni e da
immagini che provengono dal teatro, dal cinema, dalla pittura e dalla
musica.
Scorgo, ancora, un qualcosa di
tellurico che - seppure con difficoltà - si apre alla salvezza, dal sottosuolo della coscienza
erompono conati di disperazione “Dio
dimora nella succulenza delle anime / visitando la sua residenza all’inferno” (
Non altro sentore avendo – pag. 12 ), con il tutto comunque ( e il
dettaglio e l’insieme ) espresso in modo seducente, per una bellezza
incommensurabile che ci trasforma dal di dentro e che muta il corso degli
eventi “Colto nell’atto / di tendere
l’anima recessa / all’ultima frangia dello scialle lunare” (Nato da Macchina e
Sfinge – pag. 8).
Quella di Saveriano è una sorta
di pascaliana scommessa al fine di risalire dagli Inferi (Holderlin) “demone
fra demoni agognati /
lucibondi lascivi / mia cancrena
inebriante abominio” ( Nato da Macchina e Sfinge – pag. 8 ), dotato di un
armamentario lessicale forbito,
spesso, lussureggiante (come – ad esempio – accade in Derek
Walcott) e arioso “Una scudisciata nel cielo dibattuto ammutolì / la vita invisibile il
bosco da dove erano sparite / le farfalle elettriche i cappelli di feltro
seminati / dalle scimmie frettolose gli occhi rovesciati / dei sognatori di
nuvole” ( Non altro sentore avendo – pag. 12 ).
Non una lamentazione, ma un grido
pudico e consapevole che proviene da una gola remota; nessun altro spasimo se
non la ricerca di una qualche ammiccante fortuna tra le ombre della malasorte e
le piaghe del destino; un grido pur
sempre di libertà, di fuga da lacci, legami e convenzioni, quasi un sentore di
inappartenenza, di assoluta estraneità “Perché
curarsene Andare abbandonato / come adesso / come del resto sono sempre stato /
invisibile dopo che sfruttato” (Nel nulla - pag. 5).
Come non rammentare i versi di
Montale? << Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma
s’era tua era di qualcuno: / di te che non sei più forma, ma essenza >>
(da “Xenia”).
Insomma, note, sillabe, icone,
appunti di viaggio, elementi scenici, estrose rappresentazioni, agnizioni, il
tutto nasce e si consuma in un’aria melanconica “Ogni notte cambia il mio dolore / e il mio pensiero aggruma” (Noctescit
– pag. 4), con una vis drammatica
che fa dire “Agogno allora al caso / che
mi stronchi presto / Senza lancinante spasimo” (Noctescit – pa. 4).
PERFUNCTA VITA è un momento
tremendo di verifica, un approdo che – però - tenta di cogliere bagliori
futuri, azioni che possano avvalorare il senso di una sfida.
Una sfida portata al Nulla,
all’Insignificanza, alla Vanità del tutto, al Disinganno, al non-sense, da uno
spirito che avidamente sta a suggere la vita e che mostra ora una forma/ morphé, il suo compimento, la sua
momentanea realizzazione.
Ed è, ancora, questo il riepilogo di non un’ esistenza sola
ma di mille e più esistenze, il suo
io è, piuttosto, dato da più anime, un “io moltitudine”, perché Saveriano generosamente ( alla Whitman << Sono
grande, contengo moltitudini >> )
si dà ( e nella scrittura e nell’opera quotidiana ), senza misure o
calcoli, anche se qui subentra un’amara consapevolezza “E’ ora che io taccia del tempo / dissipato per mia vocazione confessa
/ che taccia di questa consenziente cattura / che taccia che taccia”.
Per tutte queste ragioni,
faccio fatica a dover registrare
- in questo diario - sconfitte o perdite, allorché
è la parola poetica che conia, trasforma e sentenzia su come va il
mondo; c’è tutta la lezione dell’Ottocento e del Novecento letterario, con la
vena simbolista e surrealista e i richiami decadenti e crepuscolari, ed è presente sì il sentore di una fine
imminente della civiltà occidentale (con un “io” sempre più dimesso e lacerato,
con una società in frantumi, con regni e stagioni che ineluttabilmente si
sgretolano), ma le rovine di Armando
Saveriano non ammettono la
polvere in quanto conservano ancora l’antico luccichio della gloria, i riflessi
di una bellezza imperitura “S’avventa la memoria
sugli usci delle case / Poi alle tegole s’alza sbigottita / E filtra nei
pori delle vecchie addormentate” ( Sfinita la notte ed insaziata – pag. 3 ).
Elementi e suggestioni che si
possono cogliere in certi passaggi lirici che si fanno preludio di evanescenze,
ineffabile sortilegio di allusioni “e filanti
misteri e fidenti arcani / nel cono d’innumerevoli lune / la tua foresta dai
pennacchi di fuoco” (Cerimonia per Elizabeth – pag. 9), inusitati battesimi
“Nacqui un sabato futuro” (Nato da
Macchina e Sfinge – pag. 8).
A mio modo di vedere la poesia di
“Perfuncta vita” mette insieme e le << cieche speranze >> di
Eschilo e << lo stormo bianco dei
miei versi >> della Achmatova; e
il senso della finitudine e l’interrogarsi sulle – cosiddette – domande ultime;
e la tensione verso l’Invisibile e la struggente descrizione di ciò che è
natura, materia, opacità; e il rumore, il chiasso degli affanni umani e il
sovrumano silenzio, il tacere assoluto “sfiora
se vuoi le braccia / io taccio sulla sorte” ( Noctescit – pag. 4 ) e ancora “Tacemmo
non avendo altro sentore che la pelle / la luna l’arabesco dei rami i sudori
della notte” (Non altro sentore avendo – pag. 12).
Prima di scendere nel “gorgo muti” ( per dirla alla Pavese ), il
poeta ci
fa ammirare un qualcosa che
resta – comunque – imperscrutabile, offrendoci anche una nuova chiave di
lettura; e, così, alla fine, mi piace
sottolineare il fatto che è qui presente
una promessa di immortalità, o quanto meno lo spirito per nuove avventure, una
sorta di affinità elettiva col mondo che verrà “c’è sempre un’ora che quando scocca / dimentica aperta la sua porta /
io cerco affinità nelle orme / che le foglie non coprono / le bestemmie non
colmano” (Noctescit – pag. 4).
San
Giorgio del Sannio, 1 Ottobre 2015
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