MATURITÀ METAESPRESSIVA NELLA
PASSIONE PLURISENSO DELLA PAROLA
Un’atmosfera
di sospensione levita nell’Altroquando (o se si preferisce nel ‘Novunque’)
evocato, perlustrato, dimorato dalla poeta. Si attende l’irrompere di qualcosa,
un’epifania mnestica, un flusso coscienziale che rivela e libera o che
ingarbuglia e ammanetta nel cerchio sempiterno del ritorno, fra nostos
malinconico e pulsione escapista di rifiuto e fuga. Se l’abreazione scioglie e
guarisce tra gli spasmi della nuova consapevolezza, la rimozione inconscia in
qualche modo pialla, culla, protegge. Tutta la raccolta (“MADRE TERRA” –
Passigli Ed.) oscilla da uno di questi poli all’altro, e ovviamente genera
disappunto, spiazza, ora sconcertando ora rassicurando negli squarci di luce
polívoca, nei lampi serotini di una carezza acquatica o ventosa.
Immaginiamo
una foresta pluviale, o una grotta che invita e turba, un condotto sotterraneo
che anela al firmamento, un sedile in pietra all’apice di un colle scabro
circondato da un anello rigoglioso di promesse e di fantasmatizzazioni alla
Edith Wharton o alla Rosemary Timperley, quel che resta del paradiso dopo la
cacciata, magari un torsolo di mela, l’impronta di denti, una scaglia di pelle
serpentina, gocce di mestruo, fili di sperma e brina su una foglia tremante.
Oppure
un semplice vico di paese (‘al largo delle coste dei rumori/d’altri luoghi’),
paese che dal ‘Novunque’ riassume e rivendica identità precisa, paese dove
appaiono e consumano in gesti lenti il camminamento fatale simulacri di figure
del passato molto accoste al cuore dell’io che li contempla. Certamente il
padre, l’argilla in cui si fonde ‘la fanciulla sacra’, la nonna, prima sua maestra
d’alfabetismo emotivo e religioso. E le pietre, i legni, i grani di rosario, il
completo sistema di segni della poesia, nell’essenza sua stessa Eva futura nella Gaita
bambina/adolescente, nella ‘sacra fanciulla’ che si accinge ad accostare il
proprio, personale lume al rapporto binario Io/Mondo, Io e Mondo, Io/Tu/Altro
da Me e Mondo; eppure, contemporaneamente, ella sigilla lo squarcio attimale e
rientra nell’imprendibile, nell’indefinibile, spennellato di misticismo
(‘Scopro un passaggio’, ‘Sono lontana’). La poeta vuole tendenzialmente, quasi
per rimembranza dantesca (‘seguir virtude e conoscenza’), rimettere insieme o
‘costruirsi’ tout-court un senso esistenziale, un ordine progettuale senza
incorrere nella hybris, buttando in avanti le mani (fosse a cospetto di Schopenhauer),
nel mostrarsi consapevole della dualità di cui è costituita (di cui tutti noi
siamo costituiti): la soggettività della specie e la soggettività
dell’individuo, Io e Inconscio, per dirla con le parole della psicanalisi. E
cosa meglio del logos poetico può gettare un ponte che congiunga entrambi, Io e
Inconscio, ponendosi in qualità di “fondamento costitutivo della globalità
della vita psichica dell’uomo”, non ripudiando, nella totalità corpomentale, la
plurale realtà degli ‘altri linguaggi’ in cui il corpo vivente si esprime? La
verticalità della poesia qui si fa simbolo e respiro dell’inderogabilità di un
assunto che vuole affidata ad essa e alla filosofia la giunzione della
dimensione frantumata dell’essere. Compito immane e destinato al fallimento
finché si vuole, e purtuttavia motore che stimola la capacità spirituale e
creativa a spaziare in libertà tra i vincoli terreni e le dimensioni nel
sovrumano.
Subito,
ab initio, si configura l’argomento imbattibile, l’Amore, nelle sue peculiari
declinazioni, le erranze, le (im)possibilità, gli adescamenti e gli spaventi,
la fede e l’anarchia, la debolezza e la protervia, le prove di forza, le
difese, gli smottamenti, il contraddittorio, i dubbi. La casa, un uomo, more,
rovi, tizzi e crepe, piaghe e solitudine, l’ipnotica inconsistenza di
impalpabili arcobaleni, nonne-fate, pupille incantate o ferite, il profilo
catafatico del divino che non ha bisogno di parole, pascoli di nuvole,
trifogli, cenere e camoscio, l’interlinea di morte e rinascita, il doppio gorgo
di menzogna e stupore, l’estasi dei sensi e larve di farfalle nel caos dei
desideri, l’argilla tra le dita e l’assillo dei perché, l’amore che aggrinfia,
domina, transita e dispare, l’amore soffiato da un refolo o scavato sotto una
pianta. L’amore che sanguina e disseta, estenua o inebria, incalcolabile,
inevitabile, adorato e maledetto. L’amore che c’era e fu cadavere, l’amore che
s’inventa giorno per giorno, ora per ora, tenendo fuor dell’uscio il grido di
verità, che se entrasse in gola e riverberasse genererebbe irreparabili
strappi, voragini di immedicabili vuoti. Meglio la Thule dei sogni, le
vertigini di una scala di illusioni. O le pomate e i farmaci, gli antidoti
delle piccole cose: non guariscono, consentono di continuare, cercando,
serbando, scotomizzando, intuendo, consultando il cuore alchemico che ogni
donna coltiva nel suo giardino segreto (l’emblematica ‘Conosco’, la
dickinsoniana ‘La neve’, le sorprendentemente Siddaliane ‘L’enigma della
scorza’ e ‘Se solo io potessi’).
L’Amore,
già: l’Amore che nella raccolta non si limita a legare insieme un fascio di
‘Liebesgedichte’, ma che, oltre la sensualità innegata, oltre l’invincibile
nodo d’appartenenza al ceppo, ai natali, alle atmosfere terrenali dell’ambiente
di crescita, è vincolo simpatetico che impregna, penetra, influenza, regola,
disciplina l’ordine, l’unità, il collante del mondo, coi suoi spiriti vitali,
ancipite tra fisico e metafisico.
E
lo si contempla, questo Amore,
sensuoso-iconico-esasperato-esorcizzato-sacrificato-sublimato-criptato-sospirato-defenestrato-contuso-insanabile-tenero-esigente-insaziato-tagliente-incomprensibile;
questo Amore mai esausto dei canti e dei lai, delle rinunce e delle ribellioni,
delle confessioni e delle dissimulazioni, questo Amore dai mille volti e
linguaggi, labirinto e laguna, solatío o procelloso, dalle infinite sfumature
che sembrano o appaiono inesplorate; l’Amore ‘philía’, ‘agàpe/caritas’, fulcro
del creato, leva dello spirito, fuoco delle arti, scudo della morale, osso
della Fede. E lo si reifica e lo si sussume nella gioiosa confusione, nella
perturbante perfusione delle identità, dei codici, delle modalità; e lo si
dipana, lasciandosene sconvolgere. E si tenta di oltrepassarlo, negarlo, anche
(‘Banchise di vuotezza’, ‘Cappi di solitudine’, ‘Non avrai mai i miei occhi’),
in nome di un timeo nevrotico prostetico, tra scatto di accoglienza e
assordanze di aggressività, tra senso del meraviglioso e ripudio della fiamma
per dolenzia (“si è acceso il cratere del dolore”), e profezia scaramantica di
un nulla limbico (per ellissi ‘Non credo in niente’) nel quale precipitare
ininterrottamente, come in ‘Muerte sin fin’ di Josè Gorostiza, oppure
incapsulandosi nella statica fascinazione purgatoriale proposta in ‘Nostalgia
de la Muerte’ di Xavier Villaurrutia.
Di
volta in volta cardinalità di “Madre Terra” si conferma la polarità tra Io/Es e
tra il Sé e la Storia (‘Dal niente’, ‘Molecola di secoli’); un eden primigenio
e un inferno a rovescio: cencio di cielo, amplesso di fiamme, vortice di acque
che mescolano succhi gastrici a liquido amniotico, presiedono l’inizio e la
dissoluzione sotto l’egida imprevedibile e insondabile della Moira. Il tutto
sempre ombelicato all’elementalità letterale e segnica della Terra, infunata di
radici, molle di muschi, trepida di fogliame, erotanàtica, asprigna e materna
ben oltre la reductio antropomorfista degli aspetti romantici, diremmo
‘multiuterifera’, squisitamente essenziale nell’emersione potente/prepotente
del simbolico che –prerogativa della Poesia– sottolinea le anche più ctonie
significanze (ancora ‘Molecola di secoli’, ‘Traspirerò’, ‘A te il compito’,
‘M’imbevo’, ‘Dammi l’affresco’). I corridoi dell’umano enigma si raddoppiano
(lo enunciavano/preconizzavano già il piú visionario Tristan Corbière, l’apoplettico
Robert Desnos e nella temerarietà delle sue farmacie multisenso Amelia
Rosselli; ma ricordiamo hic et nunc il verso avvitante di Domenico Luiso e le
stregonerie linguistiche dell’infera, viscerale Assunta Finiguerra, vera e
‘sfacciata’ fino allo svellimento traumatico delle convenzionali ipocrisie): non
appena sembra che si risolvano, interviene un nuovo fattore a complicare, più
interno e macerante che esterno e provvisorio, essendo l’ideale dell’Io rimosso
e le pulsionalità differite. Tenendo in provvido conto che la Gaita, ‘sacra
fanciulla’ per il padre terreno e quello divino, è piú (almeno in questa
evoluzione) agganciata alla corrente del sentire ‘liquido’, dovendo vedersela
con la dotazione inconscia pre-individuale e quella post-individuale,
rispettivamente l’eredità atavica endemica del DNA e la rete impersonale del
contesto in cui vive, in cui è ‘nel mare di oggetti’, col rischio della
funzionalità omologata che restringe l’identità o ne rastrema gli sbocchi, se
non intervenisse la vis poetica a impedire lo smarrimento, la perdita
dell’anima, la differenza fra l’Io e l’Es tecnologico che lo riconosce. In
altre parole si lascia permeare dal sentimento oceanico, comunione della
pre-nascita, rivissuto nella ri-unione d’amore/poesia, la tèchne o la necessità
(anànke) della natura.
Ed
essendo ‘la sacra fanciulla’ piú divinatoria che dimostrativa (benché nelle
intenzioni si auspicherebbe il contrario), la poeta sovverte senza preavviso le
regole del gioco nei ripostigli dell’anima: in ciò è sincera per esasperata
profondità di visione, che trascende la relazione della coscienza con
l’aderenza al vitalismo connesso alla ‘tempesta e all’ardore’ di un rivisitato
Sturm und Drang, per il quale si sente in qualche modo vocata. Ne è inclíne. In
tanto consiste la sua maledizione? O non piuttosto nello spasmo di un tentativo
di amplificare le facoltà immaginative al punto da ricombinarsi nell’alchimia
dell’Assoluto?
Il
nucleo oscuro di questa poesia, in pectore catafratta, semina anfibolía ( per
il tono ingannevolmente depistante che ad analisi di superficie la
collegherebbe ai temi naturalistici e alle modalità di una Gnerre o di una
Rossella Tempesta o di una Rita Baldassarri; anche per la dislocazione continua
tra ‘paesaggio naturale’ e ‘paesaggio interiore’ (fino, ci pare, alla
sublussazione del rapporto estroversione/introiezione) in più d’un punto
subsegmentale: ma è dopotutto questo l’intrigo, questa la sfida
dell’intellezione, quando un critico non filisteo o nullistico, simposiaco e
assegnofago (banausico per ragioni alimentari o di pura avidità) si trova di
fronte a una sostanza ‘tanta’, e non può che trattare l’argomento poetico in
modo onesto (sia la Poesia
“ehrlicherWeise gebraucht”!)
ARMANDO SAVERIANO
MONIA GAITA – MADRE TERRA – PASSIGLI ED. 2015 – CITTÀ DI CASTELLO (PG) -
PP. 96 € 12.50
NON CREDO IN NIENTE
Vorresti che io prestassi
il petto inerme
ai colpi della pioggia,
che l’ala del tuo vento
sbattesse indivisibile
sui vetri del mio campo.
Tu mi vorresti rettilinea,
percossa e risorgente,
riversa
su una risma di farfalle
che addormenta.
Ma io non posso appartenerti,
lasciarti transitare
sulle taniche del vuoto
preso a morsi,
tenerti
nella trappola d’un voglio
travasato per errore,
quando non credo in niente,
non credo in niente,
non credo in niente.
*
NON TI CERCO
Non ti cerco
dove il deluso bisbiglia
e pianta tre carezze di rifiato
sulla pelle.
Nel breviario dei sogni
ti cerco,
nel gambo di petunia
scavato nel silenzio
o dove il mare
educa il corpo delle onde
alla fatica.
Conosco appena
due paragrafi d’azzurro
del tuo cuore,
quel palpito di vuoto
che mi prende
quando chiami,
il semplice messaggio
reclino
sul bersaglio dell’attesa,
un picco fraudolento di bellezza:
la tua voce.
*
IL MIO PAESE
È circondato il mio paese
da una corona incalcolabile
di venti crepitanti,
una corona di spine,
un corpo armato di stelle,
un ampio indizio
di corse di cinghiali
che impongono tributi di paura coagulata
alle campagne,
dove i falchetti
segnalano il confine
tra l’incantesimo di fichi neri e bianchi
e fulmini
che incartano partenze.
Il mio paese
ha incastonato fuochi,
sogni e fondamenti
in un anello,
l’anello invisibile e materno
che incastra il cuneo dell’infanzia
dentro il legno,
che include
nell’elenco delle pietre
anche il mio nome.
È qui che voglio stare,
al largo delle coste dei rumori
d’altri luoghi,
dentro Magliano mia
pure da morta,
nella casa
dove mia nonna
recitò per una vita
il credo macinato del lavoro
e mi crebbe
com’una pianta a unico esemplare
tra fissi Cristi
e Madonne transitive,
idioma di rosari,
distinto crocesegno alle pareti,
con amore.
*
IO NON SO COME ACCADDE
Io non so come accadde,
semplicemente accadde
che congiungesti la tua
alla mia riva,
un brivido, un ringhio
dentro il fermaglio d’un secondo.
Io non so come accadde,
una sera come tante
che la tua voce
si fece compatibile alla mia,
compilò un codice di fiamme,
di salice, di sangue.
Io non so come entrasti
nel mio intreccio complesso di nodi.
Io non so come tu,
intruso, genuflesso,
componesti il dissidio,
ubriaco fradicio di me
fino alle ossa.
E adesso temo che crolli
il muro di noi due,
che frani la cima,
che il fremito di mare del tuo fondo
la traccia divori
nella crepa.
MONIA GAITA
il petto inerme
ai colpi della pioggia,
che l’ala del tuo vento
sbattesse indivisibile
sui vetri del mio campo.
Tu mi vorresti rettilinea,
percossa e risorgente,
riversa
su una risma di farfalle
che addormenta.
Ma io non posso appartenerti,
lasciarti transitare
sulle taniche del vuoto
preso a morsi,
tenerti
nella trappola d’un voglio
travasato per errore,
quando non credo in niente,
non credo in niente,
non credo in niente.
dove il deluso bisbiglia
e pianta tre carezze di rifiato
sulla pelle.
Nel breviario dei sogni
ti cerco,
nel gambo di petunia
scavato nel silenzio
o dove il mare
educa il corpo delle onde
alla fatica.
Conosco appena
due paragrafi d’azzurro
del tuo cuore,
quel palpito di vuoto
che mi prende
quando chiami,
il semplice messaggio
reclino
sul bersaglio dell’attesa,
un picco fraudolento di bellezza:
la tua voce.
da una corona incalcolabile
di venti crepitanti,
una corona di spine,
un corpo armato di stelle,
un ampio indizio
di corse di cinghiali
che impongono tributi di paura coagulata
alle campagne,
dove i falchetti
segnalano il confine
tra l’incantesimo di fichi neri e bianchi
e fulmini
che incartano partenze.
Il mio paese
ha incastonato fuochi,
sogni e fondamenti
in un anello,
l’anello invisibile e materno
che incastra il cuneo dell’infanzia
dentro il legno,
che include
nell’elenco delle pietre
anche il mio nome.
È qui che voglio stare,
al largo delle coste dei rumori
d’altri luoghi,
dentro Magliano mia
pure da morta,
nella casa
dove mia nonna
recitò per una vita
il credo macinato del lavoro
e mi crebbe
com’una pianta a unico esemplare
tra fissi Cristi
e Madonne transitive,
idioma di rosari,
distinto crocesegno alle pareti,
con amore.
semplicemente accadde
che congiungesti la tua
alla mia riva,
un brivido, un ringhio
dentro il fermaglio d’un secondo.
Io non so come accadde,
una sera come tante
che la tua voce
si fece compatibile alla mia,
compilò un codice di fiamme,
di salice, di sangue.
Io non so come entrasti
nel mio intreccio complesso di nodi.
Io non so come tu,
intruso, genuflesso,
componesti il dissidio,
ubriaco fradicio di me
fino alle ossa.
E adesso temo che crolli
il muro di noi due,
che frani la cima,
che il fremito di mare del tuo fondo
la traccia divori
nella crepa.
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Monia Gaita |
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