venerdì 8 gennaio 2016

MNEMÒSINE 4



A cura di Armando Saveriano e Davide Cuorvo





Secondo la Teogonía eșiodèa, Mnèmoșine, personificazione della memoria, era la progenitrice delle nove Mușe. Figlia di Urano e di Gea, si unì con Zeus in nove notti d’amore, nel corso delle quali furono concepite, appunto, le Arti. In Atene le si rendeva omaggio con libagioni di acqua, latte, miele. “Logopea” intende propiziarsela, istituendo, sul blog ufficiale dell’associazione, questa rubrica, a cura nostra e del giovane Davide Cuorvo. Mnème, la memoria, era il ricordo degli archètipi mitici, la cui ripetizione conferiva sacralità e significato all’eșistenza umana. Sulla memoria si fonda il canto dei poeti. Tuttavia la memoria rendeva duraturi i dolori, producendo negli uomini angoscia. Per placare questo male, le Mușe offrivano all’uomo l’unico rimedio: la Lesmòșine, cioè l’oblío. Mnèmoșine e Lesmòșine erano esperienze considerate entrambe fondamentali e sacre, connesse alla sfèra infera. Nell’Aldilà sgorgava la sorgente mnèstica, Mnèmòșine, che consentiva di conoscere le primordiali esperienze dell’essere, cui era commista la morte; contemporaneamente scorreva il fiume Lète, che apportava la Lesmòșine, l’oblío, che coincideva, invece, con la condizione dei morti, lontani dall’eșistenza terrena. Periodicamente Mnemòșine proporrà, ai suoi quattro lettori (tutti gli altri, analfabèti e tamarri, sono troppo occupati ad affollare Facebook con i loro beòti “mi piace/non mi piace”), una vetrina poetica di autori affermati o emergenti, senza schede critiche, lasciando libertà interpretativa ininfluenzata.
Una nota: negli eroici anni novanta, per la precisione vent’anni fa, l’associazione Logopea organizzava, presso la Rete TV E.T. Television, una rubrica di cultura letteraria, intitolata per l’appunto Mnemò
șine, durante la quale si presentavano volumi, si intervistavano scrittori, si discuteva di poesia e di teatro. L’appuntamento era settimanale, e si passò dai venti ai sessanta, agli ottanta minuti. La trasmissione contemplava anche lepidi o drammatici inserti teatrali, e si avvaleva degli allora studenti Mauro Milone, Marco Matarazzo, Fiorella Zullo, Sonja Aquino, Claudia Rossi, Dora Lombardo. Durò appena un anno, ma lasciò, a suo modo, il segno, grazie alla novità, alle orecchiabili musiche di sottofondo e alla sigla che onorava la grande Edith Piaf.
Non alla persona di Giuseppe De Nisco (classe 1980), ma alla poesia di cui egli è medium (e si tratta di una buona poesia, che ha meritato l’inserimento nell’ambiziosa collana “Scrimia”, da noi diretta per i tipi di Laceno), Mnemò
șine rivolge stavolta la sua attenzione; lo accompagna, anzi, lo precede e lo sopravanza in resa qualitativa, Costantino Pacilio (classe 1990), eccellente poeta innamorato della Fisica, e che è anche nella persona compitissimo, leale, educato, riconoscente, rispettoso e fedele nel tempo all’ara dell’Amicizia.



LEGGENDO CAMUS

Allora ritornaci
al tiepido delle vecchie giornate
dagli sguardi sfocati,
strette le nocche sui manici,
accesi i lampioni nelle sere ocra,
ritornaci alle scrollate di spalle
preferite alle offese rinunciate,
ai “non dire”
ai “tanto non capisce”,
alle immaginazioni
che sarebbero rimaste per sempre.
Sei la ragazza che legge Camus.
Bando alle parole
beviamoci questa tazza di cioccolato in polvere
dall’odore penetrante
che si è portata dagli Stati Uniti d’America,
dai musei visitati oltreoceano
dove non l’hai comprata da – oh!
ma è così difficile da spiegare,
meglio tenersi un “è mio”
che sparpagliarne un pezzo a un amico,
l’ennesima versione diversa.
Ritornaci,
tu che hai dato il meglio del tuo sorriso
per divertirti un po’ alle spalle di chi balbettava,
una piccolezza
strappata all’eternità profetica e banale di un “potresti”.
Lo daresti – in cambio di una cravatta e di uno spillo?
Sei la ragazza che legge Camus,
con la giacca di pelle vera
e se ne sono già dimenticati
in questo pomeriggio rosso-ocra
dove creare un mondo è saper leggere un atlante.
Adesso lo sai: per tutti l’addio
ha un modo di essere annunciato.

COSTANTINO PACILIO

*

ABBANDONO

Bellosguardo color malinconia
poggiava schiena e stanchezza d’amore
alle mura malate di umido.
Stava accucciato, Lui, innanzi al giorno,
incombente di lame e di abbandono,
come un mansueto leone di pietra,
a guardare la luce radicarsi
nell’ultimo spasimo della notte.
E sino a Lui danzò Bellosguardo:
“Oh, notte carbone, gesso di luna.
Con questo bacio, per l’ultima volta,
io pongo il sigillo delle mie labbra
sulla tua bocca, una tomba di baci.”
E fu un non-bacio di non-ritorno.
Lui, amorprivo, scoprì in quel vuoto
la sua caducità di amante.
Lui, mare-dentro, col suo naufragio,
a quelle frasi fu statua di sale.
Nel vestito di carne troppo stretto
per l’impalcatura delle sue ossa,
si negò allo stupore mattutino
Bellosguardo: e gli voltò le spalle,
in un lento meccanismo di addio.
“Ti prego, Bellosguardo, non lasciarmi.
Che questo giorno non mi trovi solo!”
Un rumore di cardini svegliati
spense la preghiera sulle sue labbra.
Nella stanza con l’odore di sonno,
una nostalgia prensile chiuse
tutti i passaggi vitali del sangue,
recando ombre di psichiche eclissi.

GIUSEPPE DE NISCO





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