giovedì 8 gennaio 2015

LA FISSITÀ DELLA MALINCONIA




Cosa dire della Scrittura?


Una nota sulla scrittura preoccupa, perché si rischiano il già letto e il sentito dire, a parte l’ampollosità e la sentenza; peggio ancora la definizione. E dunque: a chi interesserebbe la mia esperienza? Quali fonti prosciugate potrei –parafrasando Cicerone in una lettera al fratello Quinto– sanare, quali aurei suggerimenti dispensare?
Potrei, giudiziosamente, parlare a me stesso, riflettere a fior di labbra, senza metter su le impalcature della mia vita letteraria. Mi chiedo sempre più spesso chi sono e cosa diavolo ho fatto in tutti questi anni che giustifichi la mia permanenza, circoscritta, su una manciata di fogli di carta. Ho voluto dare importanza a cose e ad aspetti trascurabili, col senno di poi; ho delirato sull’aspirazione a far coincidere la mia carne e il pensiero con La Poesia e con La Prosa? L’età e un grano di saggezza sono serviti a ridimensionarmi: non conto nulla e…insomma…a che conta contare qualcosa? Verremo tutti dimenticati. Anche le opere nostre, a meno che non siano SOMME.
Ma quanti Dante Alighieri, Hölderlin, Shakespeare, Sartre, Pirandello hanno prodotto il secolo andato e questo novello?
Scrivere ha soddisfatto la mia vanità, mi ha sorretto in momenti in cui mi rimbombavano nel cervello le parole di Testi per nulla: “dove andrei, se potessi andare, cosa sarei se potessi essere, cosa direi, se avessi una voce…?” ; momenti il cui proposito migliore sembrava arrabattarsi a intrecciare un nodo scorsoio. Laddove l’assenza di fede in un Padreterno e in un Aldilà proprio non volevano saperne di arrendersi al compromesso, almeno per il tempo sufficiente a giustificare l’autoinganno, si presentava, impettita, sull’attenti, l’ipotesi di un romanzo, l’idea per un racconto, un lampo di poetica. Quando le carognate del prossimo mi facevano schiumare per l’impossibilità di non diventare quel tanto pazzo da imbracciare un fucile a canne mozze o di impugnare un coltello, ecco la seducente soluzione di una invettiva. Letale come un taglio di rasoio o un proiettile a distanza ravvicinata, e nessuna conseguenza per la contemplazione non a strisce del vecchio cielo irpino. Mi ha fatto lieto e triste, e continua (mi ritengo fortunato); lieto e triste… ricorrente stato d’animo in d’Annunzio, Pascoli, Rebora, Saba, Penna.                                                                                                                                                                                                                      
Mi sembra terribile diminuire il “sacro” della scrittura a maniglia di sicurezza e a terapia, perché in fondo non è stata e non è solo questo. Ma se non lo avessi detto avrei barato. Ribadisco inoltre che non mi rammarico di non saper confezionare una risposta, vaga o esaustiva. 
Ho avuto e ho dei desideri, anche se non me la sento più di pronunciare le parole aspirazione, mèta, progetto;
i desideri contano, metti pure i sogni: ti fanno articolare le ossa, ti ossigenano, ti infondono un po’ di pazza speranza in modo che recuperi se non la sitis e l’acribia di un tempo, l’energia per sollevarti dalla poltrona e mettere da parte cuscini e pantofole, zuppa di latte e telecomando TV. (Le frasi di un vecchio che si stupisce d’essere vecchio: glielo rammentano i malanni e lo specchio)
Dicevo dei desideri: il principale è che nessun blocco di marmo, o peggio, nessun banco di nebbia si frapponga fra me e i ricordi, renda incerto il mio ragionare, labili le percezioni. Debbo scriverne, prima che ciò (tocco ferro) possa accadere. Scrivere è una precauzione? Mi viene un sogghigno. Ci risiamo coi presentimenti e con le involontarie etichette. Mannaggia.
Desidero la fissità della malinconia, diversa dalla tristezza: insorge leggera, è dolce, languida, si lascia contemplare piano piano, ti regala una sensazione unica, affine alla degustazione di una crema, di un passaggio tra le piante, di un Notturno di Chopin, di un quadro della Gentileschi, di una giovanile poesia di Delio Tessa, di una pagina di Laura Morante, di un fumetto di Carl Barks, di una pioggia pallida che sferza i pianori su Marte, di una scuola di danza sfrattata, con tante scarpette e sette otto risate impigliate a pochi metri dalla soglia. Spesso mi affaccio su un’immagine, quella di un pescatore sulla sponda di un lago, scalzo, con occhi talmente cerulei da potersi dire ciechi, e accanto a sé un canestro di libri vuoti, bianchi, perché i contenuti stampati si sono persi nell’acqua, o inabissati in cielo, ed è l’imbrunire.

                                                                          
                                                                                             ARMANDO SAVERIANO

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