martedì 13 agosto 2013

IN BIBLIOTECA 


Vedo attorno a me tanta gente dall’aria davvero ottusa, e mi fa tanta tenerezza, il che vuol dire che mi fa anche un po’ di pietà.
Frequentatori assidui delle sale del sapere, vi sono tanto vicini, eppure non riescono a coglierlo. Gente che, almeno secondo la mia impressione, passa ore a sbattere la fronte su un libro, ignorando che non è così, tramite una violenta osmosi, che si apprende. Non basta affaticare gli occhi per ore su un rigo di chimica o di giurisprudenza per coglierne il significato profondo. Gente torva, vestita di stracci o di pigiami (sì, uno ne ho visto), la cui testa, purtroppo, è buona solo per essere grattata scimmiescamente di fronte a una nozione difficile.
Uno di questi, rasato, scuro di volto e con l’orecchino si intestardisce su un testo di legge e un altro che gli è di fronte, vestito con una tuta del Milan, il classico tipo che se non fa tre gol a calcetto se la prende con te, gli è solidale su un libro di ingegneria informatica.
Non fraintendete, non sono cattivo, perché io riconosco che, seppur nella loro rozzezza di modi e di pensiero, abbiano per lo meno un po’ di bontà: ecco perché li guardo con tenerezza e vedo nella loro ostinazione e nel loro sacrificio lo sforzo di un infante che cerca di mettersi in piedi, lo stento di un bambino che vuole camminare ma a fatica. E mio malgrado sulla loro fronte leggo questa scritta: “Non ho senso critico, non so cos’ è, né mai capirò cos’ è”.
Vi sono poi, oltre a questi, degli altri sui volti dei quali pure si svela l’ottusità, ma, a differenza dei primi suddetti, si malcela anche l’ambizione: un’ambizione non propria, ma legata a quella degli altri, gli “illustrissimi”. Questa in verità non può dirsi autentica ambizione, ma  voi capite che la sicurezza dell’ammanigliamento può essere una bella ambizione per chi da essere strisciante e carezzevole diventi parassita. Grassi e pasciuti, sguazzano nel conformismo questi che diventeranno avvocaticchi in un grande studio dell’illustrissimo barone o cavaliere di città. I futuri passeggiatori eruditi, sempre munifici nel dispensare caffè e perdite di tempo, marciano già prepotenti sussurrando subdolamente quel che a me risulta un urlo chiaro e avvilente: “Non ho idee, se non le tue”.
Questa folla regge il mantello a strascico di quelli che io chiamo “illustrissimi”, gli eredi delle cariche di baroni del diritto e cavalieri della giurisprudenza.
Arrivano ridenti a frotte, alle 11 (di buon mattino!), giungono allegri e tutti in schiera, e il loro chiassoso e vistoso passaggio è tale da infondere all’intera sala un clima di festa e gioia per l’arrivo di siffatta nobilitate, ché le loro grida e le loro risa rievocano il fragore dei carri e degli zoccoli dei cavalli che rientrano a corte, destando l’attenzione della città che lavora con sì nobile schiamazzo. Nobili non nella persona, ma nel portafoglio, ostentano la loro futura leadership con una eleganza disgustosa, dove il pantalone beige stretto e corto sulla caviglia si sposa, in un matrimonio all’insegna del cattivo gusto, con un mocassino fucsia senza calzino, lasciando scoperto il povero malleolo che nudo all’aria aperta batterà i denti per il freddo, ma il suo padrone e barone non sente il suo lamento. I loro occhiali da sole notturni (si chiameranno forse occhiali da luna?) e le loro sciarpe estive concludono il quadro di coloro che già vedo essere apostrofati per il corso con l’appellativo di “illustrissimo” da parte di quei poveri impiegati suddetti che elemosinano lavori e favori come moderni clientes, perché sulle loro teste illustri campeggia il motto “Non ho senso critico, ma so cos’ è [errata e vana presunzione] e posso insegnartelo [altra errata presunzione] a patto che tu paghi”. Perché la virtù che essi insegnano non è in loro stessi, ma nel portafoglio degli altri, e confondono il piacere dei benefici con le gioie della felicità.
Una visione così avvilente mi è consolata da coloro che costituiscono la maggior parte degli avventori di queste sale. Questi sono davvero studenti e sono per lo più donne. Stanno chini sui libri, per lo più di giurisprudenza, leggono, scrivono, consultano codici e codicilli, coltivano l’orto delle loro conoscenze con pazienza e dedizione, attenti e raccolti nelle loro ricche letture, da cui si distolgono solo a metà mattinata, quando la mente ha il bisogno naturale di essere rifocillata e l’attenzione deve essere risvegliata dalla caffeina. I loro numerosi attrezzi da lavoro vergano con impegno e discrezione le pagine ancora bianche dei loro libri, le terre ancora non coltivate perché non ancora scoperte dallo studio: zappano quelle terre incolte che sono base della loro cultura.
Tutto ciò costa loro fatica, fatica ben maggiore di chi si prodiga nella lettura senza comprensione come quelli detti all’inizio. Loro più di chiunque altro qui dentro lavorano e faticano, facendo loro ciò che leggono almeno contenutisticamente; e per questo sulla loro testa, a differenza degli altri, il cartello è ancora bianco, perché la loro vita è ancora tutta da scrivere, e sulle loro teste non vedremo mai due scritte uguali.
Da ultimo mi sorge su di loro solo una domanda: c’è in uno di loro brio? C’è qualcuno di loro a cui la materia si rivela nel suo senso profondo? Qualcuno ha vissuto questa illuminazione? Qualcuno fa proprio ciò che studia mettendoci dentro il suo cuore, la sua mente, la sua vita?
Perché solo così loro riusciranno ad ottenere ciò che nessuno in questa biblioteca potrà mai raggiungere: la felicità che dà la conoscenza.

Angelo Iermano

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